ARTISTI MONREALESI
Pietro Novelli a cura di Giuseppe Schirò
Pietro Novelli a cura di Giuseppe Schirò
Dipinto del pittore monrealese Giaconia - sala rossa del Palazzo di città - Monreale
La famiglia Novelli si stabilisce a Monreale nel 1510. Pietro Antonio Novelli, il padre del famoso pittore, è pittore anche lui ed è in contatto con pittori fiamminghi ben introdotto nell'ambiente aristocratico palermitano.
I lavori di restauro del duomo vengono affidati a lui, come pure importanti lavori di pittura. Appartengono a lui il quadrone della Madonna del Carmine, nella Chiesa omonima, il quadro di S. Castrenze nel duomo, altre pitture nella chiesa di S. Castrenze e in quella di S. Antonio. La casa della famiglia Novelli si trovava all'incrocio tra l'attuale via Pietro Novelli con l'attuale via Guido Baccelli. In essa, il 2 marzo 1603, nasce Pietro Novelli.
Ebbe dal padre oltre al sangue, l'amore all'arte e il primo tipo e l'ideale dell'arte. Egli infatti apprende giovanissimo il disegno e la pittura, ma dà ben presto prova della sua capacità distaccandosi dai modelli del padre, per dare una sua capacità distaccandosi dai modelli del padre, per dare una sua personale impronta alle sue prime opere.
In casa riceve anche la prima istruzione. Prosegue quindi gli studi a Palermo, presso il cav. Carlo Ventimiglia, celebre letterato, matematico, astronomo ed architetto. Sposando Costanza Di Adamo, il primo ottobre 1623, alla parrocchia della Kalsa, acquista la cittadinanza palermitana. In quegli anni si trovava a Palermo il pittore fiammingo Van Dych, al cui influsso il Novelli ammorbidisce i suoi colori, togliendo i toni aspri propri della sua prima giovinezza, dovuti soprattutto all'influsso paterno.
Le opere migliori di questo periodo sono l'Annunciazione che dipinge per i benedettini di Monreale; la Pentecoste che esegue in Palermo e Abacuc trasportato per i capelli da un Angelo nella fossa dei leoni per recare il cibo al profeta Daniele.
Questa raffigurazione, arditamente concepita, adorna tuttora la volta del refettorio dei benedettini di San Martino delle Scale. Verso il 1632 intraprende un viaggio per recarsi a Roma e a Napoli. Il suo stile va trasformandosi e sarà assai visibile l'influsso del Domenichino e soprattutto del Ribera.
Nel 1636 è nominato ingegnere ufficiale della città di Palermo, nel 1643 architetto del regno di Sicilia , per guidare importanti lavori in Palermo e le opere di fortificazione che venivano costruite lungo le coste della Sicilia, nei punti maggiormente minacciati dai pirati. La sua attività di pittore non rallenta. Particolare menzione merita il quadro su tela che una volta si trovava nel refettorio dei benedettini di Monreale. E' il suo capolavoro.
La fine infelice del Novelli ci fa ricordare quella del Veneziano. Durante la rivolta antispagnola del 1647 a Palermo, il pittore percorreva a cavallo il corso principale, insieme con un gruppo di ufficiali che accompagnavano Pietro Branciforti, capitano giustiziere. Qui viene colpito da un colpo di arma da fuoco e poco dopo egli muore.
La sua scuola ha continuatori, prima fra tutti la figlia Rosalia, la cui produzione è pure abbondante. Ma nessuno dei suoi seguaci sa eguagliare il maestro, limitandosi, al più, all'imitazione delle sue opere.
tratto dal libro "Monreale Capitale normanna" di Giuseppe Schirò
Cfr. anche post alla data: 01/03/2011 nel BLOG su Pietro Novelli "I dipinti del Velasco e del Novelli" - scalone ex Monastero dei Benedettini.
r.m.
pitture nascoste del monrealese Salvatore Giaconia (1825-1899)
a cura di Giulia Davì
Allievo di Giuseppe Patania, pittore palermitano che "può legittimamente apparire come elemento di confluenza e di filtraggio delle esperienze che lo avevano preceduto e come sedimentazione di quelle che dal Continente erano venute diffondentesi lungo la penisola in elaborazioni spesso artificiose e non sempre convincenti", il monrealese Salvatore Giaconia porta a compimento i suoi canoni artistici a Roma dove si reca nel 1847 e dove combatte per la costituzione della Repubblica romana (1849).
Sulla scia del maestro, e sia pure nei decenni successivi, anch'egli "riuscì ad attuare quel compromesso tra la pittura edonistica, pittura mitica, storica, religiosa, che fu di decennio in decennio, il mutevole ideale della prima metà del secolo", come dimostrano, ad esempio, le due gustose tele con il supplizio di fra Romualdo e suor Gertrude e con il martirio di suor Gertrude oggi custodite presso la Galleria Regionale di Palazzo Abatellis (Palermo) e l'inedita piccola tavola con la realistica rappresentazione di uno scorcio della caratteristica processione del SS. Crocifisso di Monreale, oggi in collezione privata monrealese, che presenta peraltro sul retro un pregevole studio, sempre attribuibile allo stesso artista, che riproduce il chiostro dei benedettini della cittadina normanna.
Opera di spontanea osservazione naturalistica dal tratto deciso e dalle incisive, sia pur sfaldate, tonalità cromatiche, sembra legarsi a talune esperienze pittoriche di Michele Catti o del conterraneo Leto, per cui appare plausibile proporre una datazione allo scorcio del XIX secolo. Ad un periodo precedente, ma pure maturo dell'attività del pittore e sempre in linea con le correnti artistiche del tempo, quando la sua pittura diviene sempre più evanescente e luminosa, risalgono le rappresentazioni che decorano il cimitero monumentale di Monreale, ancora oggi parzialmente conservate.
Nel 1865 l'architetto Giovan Battista Filippo Basile riceve, infatti, l'incarico di realizzare la citata opera secondo un progetto che egli realizza contestualmente alla partecipazione al concorso per il teatro Massimo di Palermo nel periodo compreso tra il 1865 ed il 1867.
In particolare, l'ingresso monumentale dello stesso " è costituito da un cancello a tre elementi, il cui disegno archiacuto rinvia, per sottrazione, alla soluzione del portico a tre fornici del cimitero di Caltagirone... Abbandonati i riferimenti all'architettura siculo-normanna, Basile procede in questo cimitero sul filone dell'architettura gotica francese anche se non rinuncia alla manipolazione delle forme e degli elementi caratterizzanti.
I due padiglioni del suddetto ingresso sono decorati da due pitture a tempera, poste all'interno di una finta finestra, raffiguranti rispettivamente L'Angelo della Morte e L'angelo della Resurrezione.
Le opere, edite dall'Accascina nel suo fondamentale scritto sull'ottocento siciliano, comprendevano pure nello stesso cimitero una pittura con L'Addolorata, oggi non identificata.
I dipinti, definiti "di sapore preraffaellita" da Riccobono-Spadaro, sono racchiusi entro finte finestre archiacute, a simulare uno sfondato spaziale, e presentano, a sinistra l'angelo detto comunemente della "Morte", ma che meglio potrebbe definirsi "messaggero della giustizia divina, come simboleggia la spada posta al suo fianco. Con tunica rossa, fascia celeste e calzari, simboli questi dell'immanente e quindi attributi legati al mondo terreno, indica con l'indice della mano destra il suolo, verso cui volge pure lo sguardo e regge con la mano sinistra la clessidra con cui viene misurato e scandito il tempo della vita mortale. A destra di chi entra nel sacro recinto è, invece effigiato l'angelo della "Resurrezione" con tunica bianca, colore della festa celeste, e drappo rosso, simbolo di regalità e di vita. Il volto dell'angelica figura, dalle sembianze estatiche, ha lo sguardo rivolto verso l'alto ed impugna con la mano destra la tromba del Giudizio universale. L'indice della mano destra indica, a sua volta, il cielo. E pure gli sfondi delle due pitture assecondano l'inclinazione ed il richiamo all'umano ed al divino delle stesse con una resa coloristica più forte e naturalistica quello di sinistra e più sfaldata ed eterea quello di destra. La scelta del tema biblico delle raffigurazioni, oltre che dal luogo dell'ubicazione rientra, peraltro, a pieno titolo, fra quelli favoriti dei preraffaelliti, di cui anzi costituisce una predominante.
Le raffigurazioni angeliche monrealesi, il cui stile è pure influenzato dalla corrente del simbolismo, si configurano, quindi, come piene trasposizioni pittoriche del decadentismo pittorico italiano. Pur ostentando quindi il Giaconia in queste composizioni il rifiuto di ogni accademicità, non riesce tuttavia a nascondere la sua profonda conoscenza dell'arte italiana e di quella siciliana in particolare: a cominciare, per citare solo alcuni snodi focali, dagli angeli di Juan de Matta, del Quartararo, di Mario di Laurito, del Giordano, per giungere, passando dalle angeliche identità del secondo manierismo isolano, ai superbi esemplari di Guido reni, presente in Sicilia, attraverso varie repliche e copie ed all'Angelo Custode, copia da Antiveduto Grammatica, oggi custodito presso la Galleria Regionale di Palazzo Abatellis. Il tutto naturalmente filtrato tramite la robusta lezione del "compaesano" Pietro Novelli che proprio nelle raffigurazioni degli angeli raggiunge talune delle sue vette più eccelse. E basti citare per tutti l'arcangelo Gabriele dell'Annunciazione del Museo Diocesano di Palermo e l'Angelo Custode già nella chiesa di S. Maria dell'Orto in Monreale.
-Monreale, Sala Rossa del Palazzo di Città-
Opere del pittore monrealese dell''800
SALVATORE GIACONIA
Ritratto del Pittore monrealese Pietro Novelli (1603-1647) di Salvatore Giaconia
Ritratto del filosofo Benedetto D'Acquisto (1790-1862)di Salvatore Giaconia
Ritratto del filosofo Vincenzo Miceli (1733-1781)di Salvatore Giaconia
Ritratto del poeta monrealese Antonio Veneziano (1543-1593)di Salvatore Giaconia
Riportiamo qui di seguito notizie su Antonino Leto, tramandatoci da Nicola Giordano nel suo famoso libro "Monrealesi Illustri", nella cui Presentazione l'autore scrive:
Oggi che il vorticoso correre dell'umana società fremente di passioni e di odi, il malcostume, l'invidia, l'intrigo, la corruzione, l'incessante moltiplicarsi del pensiero umano irrequieto e sfrenato spingono disordinatamente uomini e cose ed un sovvertimento di valori morali di ambizioni illimitate ed avidità di danaro minacciano di travolgere, se non hanno addirittura travolto, ogni nostro ideale, fermiamoci a guardare il passato ed a ricordare i nostri Grandi.
Oggi che il vorticoso correre dell'umana società fremente di passioni e di odi, il malcostume, l'invidia, l'intrigo, la corruzione, l'incessante moltiplicarsi del pensiero umano irrequieto e sfrenato spingono disordinatamente uomini e cose ed un sovvertimento di valori morali di ambizioni illimitate ed avidità di danaro minacciano di travolgere, se non hanno addirittura travolto, ogni nostro ideale, fermiamoci a guardare il passato ed a ricordare i nostri Grandi.
Tra i grandi Monrealesi che col loro ingegno e la loro opera hanno onorato la loro città natìa, un posto d'onore nel campo delle belle arti, spetta indubbiamente ad Antonino Leto.
E' pertanto doveroso riordinare nel miglior modo possibile tutte le notizie che si hanno intorno alla vita ed alle opere di questo grande artista, il quale visse gran parte della sua vita lontano dalla sua Sicilia, quasi appartato dal mondo, lavorando sempre con entusiasmo giovanile e vera fede di apostolo per la ricerca ed il raggiungimento di quel bello artistico che fu sempre il suo sogno e che assunse nelle sue meravigliose tele le forme più divine.
tracciarne però, sia pure in una breve sintesi tutta la sua vita artistica, non è compito facile poichè Egli nel periodo di maggiore attività non ebbe una dimora fissa ma girovagò per parecchi anni in Italia ed all'Estero fermandosi più a lungo a Palermo, Napoli, Roma, Firenze, Parigi, Capri. Di molti suoi quadri, perciò, poco o nulla sappiamo: specie di quelli che furono dipinti all'estero o che acquistati dai più grndi intenditori e negozianti d'arte, quali il Goupil di Parigi, lo Schulhtz di Berlino, l'Abeles di Vienna, il Neumann di Monaco, il Pisani di Firenze etc. raggiunsero i più lontani centri del mondo.
A queste difficoltà sono da aggiungersi poi quelle dovute alla sua eccessiva modestia.
Antonino Leto, anima squisitamente sensibile, incoercibilmente espansiva, spesso fantastica, irrequieta ed indisciplinata, fu un vero artista nato. Fu in arte non uno dei soliti mestieranti di professione ma uno studioso; non un pedante seguace di una scuola, ma uno dei più geniali e vivaci innovatori; mai cercò di porsi in evidenza e pure fu gran parte della gloriosa scuola di Portici, dei macchiaiuoli di Firenze e degli impressionisti di Parigi.
A Capri fu, senza che Egli se ne accorgesse, maestro di una numerosa schiera di artisti di ogni paese; ivi ancor oggi si dipinge alla sua maniera; nello studio di quella spiaggia nessuno però ha raggiunto quella perfezione che non a torto lo fece giudicare uno dei più forti marinisti del sec. XIX.
Antonino Leto nacque in Monreale il 14 giugno 1844 da Pietro e Caterina Puleo. Quivi passò i primi anni rivelando sin dalla tenera età la sua tendenza artistica e la sua viva passione per la pittura con disegni di caprette, di tacchini ed altri oggetti colti dal vero nell'agro Monrealese e specialmente nelle campagne di Aquino.
A nove anni procuratisi tavolozza, pennelli e colori cominciò ad imitare i vari pittori che allora si recavano a Monreale per ritrarre l'interno della Cattedrale, copiando lui le figure che più colpivano la sua piccola mente e man mano che andava acquistando dimistichezza con la sua tavolozza si provava a dipingere dal vero facendo i ritratti dei suoi compagni di scuola, dei suoi maestri, dei suoi amici e parenti. erano tutti questi studi, fatti senza alcuna guida ed attraverso le difficoltà tecniche che egli incontrava e si sforzava di superare, che maggiormente gli accrescevano l'amore per l'arte ed il desiderio di conoscere le sue molteplici manifestazioni, ma come poteva egli seguire l'impulso dell'animo suo, le ispirazioni del suo genio, costretto a vivere entro gli angusti confini del suo paese natio ed a continuare negli studi classici a cui la famiglia le aveva indirizzato?
Spesso all'insaputa dei suoi genitori si recava a piedi a Palermo, dove passava delle lunghe ore davanti le vetrine dei negozi per osservare le stampe, le fotografie, i ritratti ed i quadri che vi si trovavano esposti. Era questo un meschino conforto alle sublimi smanie del suo genio pittorico, erano dei sacrifici che imponeva alla sua grande persona senza raccoglierne poi tutti i benefici che se ne riprometteva. La costanza però nel perseguire per lunghi anni il suo puro ideale ebbe finalmente ragione di tutte le difficoltà che per tanto tempo gli avevano torturato l'anima. Alcuni amici ed ammiratori indussero i suoi congiunti a fargli abbandonare gli studi classici ed assecondarlo invece in quelli della pittura. Contemporaneamente tal Di Gesù Girolamo, allora Consigliere Comunale, innamorato di questo ragazzo geniale, a titolo d'incoraggiamento e per venire in aiuto alle sue scarse risorse finanziarie, gli fece accordare dalla Amministrazione del Comune un modesto assegno mensile. Fu così che a diciassette anni, cioè nel 1861, Egli iniziò ufficialmente la sua carriera artistica. Suo zio, il sac. Antonino Leto, lo raccomandò all'abate Gravina, il quale gli procurò una stanzetta nel Convento dei Benedettini alla Fieravecchia e lo presentò al figurista Luigi Lo Iacono, che lo condusse dal Prof. Luigi Barba, anche lui figurista, dal quale ebbe i primi istradamenti al disegno. Dopo pochi mesi però, impressionato fortemente di un quadro di paesaggio del LoIacono, esposto al Municipio di Palermo, decise darsi a quel genere di pittura. Ne parlò infatti al Prof. Lo Iacono che volle provarlo facendogli copiare uno studio dal vero, eseguito dl figlio Francesco.
E con quei sette colori che il maestro gli aveva fatto comprare e senza alcuna guida e preparazione, copiò così fedelmente da rendere impossibile la conoscenza dell'originale. Ma la prova migliore fu invece quella che egli stesso tentò, riprendendo i suoi studi in campagna e dipingendo dal vero soggetti e scene campestri con tanta precisione di linee, di colori e di luce da farlo subito gareggiare con gli artisti più provetti dell'epoca. E' di questo periodo un quadro di paesaggio con due figurine, che regalò in segno di riconoscenza al Municipio di Monreale e da questo donato al Circolo dei Civili Umberto I, dove trovasi tuttora.
E' questa una primizia che per la sua intonazione generale faceva bene auspicare i futuri successi.
L'Amministrazione Comunale però ritenendo erroneamente che il Leto avesse raggiunta la maturità necessaria per proseguire nella sua carriera, gli tolse l'assegno. Tale inatteso provvedimento non lo sgomentò affatto poichè Egli trasformando i suoi studi in vedutine artistiche piene di novità e di verità, che per mezzo dei suoi amici Can.co Montalbano ed Avv. Antonino Morvillo, vendeva agli amatori, ricavava quanto potevagli abbisognare. E' di quest'epoca (anno 1863) il piccolo quadro "Case al sole" di proprietà di casa Titone che rivela una osservazione ed una interpretazione naturalista profondamente diversa dal vedutismo dei paesaggisti locali.
Ed erano appunto tutti questi lavoretti che lo rendevano sempre più noto ed apprezzato.
Ma a tutte le lodi che gli venivano prodigate dava un significato di puro incoraggiamento: Egli desiderava dei giudizi spassionati e sereni e ciò ottenne esponendo in una vetrina dell'ottico Garofalo a Palermo un quadro (guasch a tempera) firmato A. Puleo che per opera del Prof. Lo Forte, valente figurista, che ne fu grande ammiratore, fu venduto al Conte Tasca, il quale ne acquistò in seguito parecchi altri lavori. Siamo già al 1864 ed i grandi maestri della scuola napoletana, rappresentata dai gloriosi nomi di Mancinelli, Altamura, Palizzi, Morelli, etc. avvincevano la mente ed il cuore di quanti sentivano nella forma più pura e nobile il culto per l'arte. Tra questi il nostro Leto, appena ventenne, il quale superando con la sua attività ogni difficoltà finanziaria, andò a stabilirsi a Napoli ed accanto a queste illustrazioni della pittura italiana, continuò i suoi studi.
Era proprio l'anno in cui si formava la scuola di Resina sotto l'impegno costruttivo di Adriano Cecioni che, come scrive l'Accascina, trasportava a Portici, affidandoli ad anime pronte ad accoglierli, i precetti della scuola di Pergentina, attuati da Telemaco Signorini, Giovanni Fattori, Vincenzo Cabianca, Giusepe Abbati ed altri, ossia il ritorno alla natura col mezzo della macchia.
Dopo circa sei mesi però, ammalatosi di bronchite dovette fare ritorno a Palermo. Un anno dopo fu dall'Avv. Antonino Morvillo presentato al Senatore Ignazio Florio, che l'incaricò di riprodurre in un quadro lo stabilimento enologico di Marsala, ch'Egli ritrasse con una originalità tale da dare a quel dipinto un'impronta del tutto personale. Fu esposto al Municipio di Palermo dove fu un accorrere di ammiratori, di artisti e di giornalisti che entusiasti ne fecero i migliori elogi. Da tutti si ammirava il rapido ascendere del giovane pittore e veniva incoraggiato ad esporre nella Mostra artistica di palermo (1870) dove presentò alcuni quadri fra cui: "Il ritorno dal pascolo" che gli procurarono un grande successo e vi fu premiato con medaglia d'argento.
L'anno appresso (1871) riportò altro successo all'Esposizione Regionale di Siracusa, dove presentò "La Bufera" che fu premiato con medaglia d'oro ed acquistato dal Marchese di Castelluccio. Dal successivo anno 1872 è il quadro "L'Anapo ed i suoi papiri" da lui donato al Municipio di Monreale, dove trovasi tuttora e dello stesso anno il quadro "Una giornata d'inverno in Sicilia" mandato da Palermo all'Esposizione di Brera del 1872.
Dell'anno seguente 1873 è il quadro "Il vesuvio" oggi appartenete a casa Varvaro (Palermo).
Intanto il Florio, con cui era già venuto in grande intimità, entusiasta di questi trionfi, con aiuti ed incoraggiamenti lo mise in condizione di stabilirsi a roma, dove desiderava continuare i suoi studi. Ma ben presto (1874) banditosi il concorso per il pensionato artistico, fece ritorno a Palermo per prepararsi e vincerlo con il quadro "La raccolta delle ulive"di diretta ispirazione a Filippo Palizzi, che ora trovasi alla Galleria d'Arte Moderna di Palermo.
Stabilitosi quindi definitivamente a Roma, la città eterna che Egli, per la sua storia, per i suoi monumenti e per tutte le sue bellezze artistiche da tanto tempo agognava come sede dei suoi studi prediletti, respirò un aere più libero, più tranquillo e perciò più confacente alla sua indole mite, schiva da quelle meschine lotte personali che qualche volta gli avevano amareggiata la vita.
Egli si sentì rimpicciolito di fronte alle opere dei grandi maestri della pittura, ma la sua passione si ingigantì, il suo ingegno, più liberamente potè spaziare nel campo dell'arte, il suo programma ebbe orizzonti più vasti e più geniali ed Egli potè seguire il suo puro ideale artistico con una dignità e sincerità tale da cattivarsi ben presto la stima e la simpatia di quanti ebbero l'occasione di ammirarne la robustezza dell'ingegno e la bontà del cuore.
Primo fra tutti Francesco Paolo Michetti che l'onorò della sua alta e sincera amicizia. Non più stretto dai bisogni della vita anche per i continui aiuti del Senatore Florio, che ne fu vero e grande mecenate, continua a studiare con amore e vera fede di apostolo.
Non tralascia di lavorare pure ad acquarello e sempre con successo. Al periodo di questo suo soggiorno romano vanno attribuiti i due quadri: "Una via fangosa percorsa da due butteri a cavallo" e "Campagna romana".
All'esposizione Brera a Milano del 1875, manda da Portici, dove risiedette in tale anno, due dipinti "Villa Borghese" e Bosco di Portici"che furono acquistati dall'Accademia di Belle Arti di quella Città. Ma una maligna stella dovunque lo perseguita: si ammala nuovamente ed è costretto per curarsi ritornare ancora una volta a Palermo, donde fa domanda al Ministero per avere accordato, per motivi di salute, il passaggio del pensionato artistico da Roma a Firenze,che gli venne concesso.
Guarito, infatti, eccolo a Firenze (1876).
Ivi, preceduto da una fama di forte paesista, viene accolto in modo assai lusinghiero da una eletta e numerosa schiera di artisti. Subito si dà al lavoro con un fare sempre più geniale, più simpatico, con concetti più arditi e più belli. La parte più intellettuale di Firenze non tarda ad innamorarsi della pittura del giovane siciliano che vi trasfonde tutta la bontà dell'animo suo, tutto il calore ed il profumo della sua terra natìa. Egli accontenta lo spirito di tutti i critici dipingendo dal vero soggetti e scene del tutto originali che per la naturalezza delle tinte piacquero tanto agli amatori che li acquistavano non appena venivano tracciati sulla tela. Vi produsse molte opere tra cui rinomate: Ponte S. Trinità, La passeggiata alle Cascine in giorno di pioggia Lung'Arno Lungo il mugnone Le Cascine di Firenze in giorno d'inverno che furono riprodotte in parecchie riviste ed acquistate per la Galleria Pisani di Firenze. Indi, cessato il periodo del pensionato (1878) si recò a Parigi, chiamatovi da quel fine intenditore d'arte che fu il Goupil. Ivi trascorse il periodo più felice della sua vita. Vi aprì un magnifico studio, che divenne presto il ritrovo più gradito di molti uomini di genio, artisti e letterati fra cui Giuseppe De Nittis, G. L. Filippo Meissonier, Domenico Morelli, Vincenzo Gemito, Alfredo de Neuville ed E. Manet, capo della scuola impressionista, i quali in lui ammiravano non solamente la grande attività, ma particolarmente le nuove ed ardite concezioni artistiche che lo fecero subito primeggiare fra la numerosa ed eletta schiera degli impressionisti francesi.
Quasi tutti i lavori furono aquiostati dal Goupil per la sua Galleria d'arte, la più grande ed importante esposizione permanente dell'epoca. Perciò ben poco c'è rimasto della sua produzione durante questo periodo parigino.
Sono di quell'epoca la sua meravigliosa tela Dopo una tempesta che trionfò alla Mostra Internazionale di quadri moderni di Firenze (1880) e lo rivelò un'insuperabile marinista ed il quadro Vecchia Parigi che oggi trovasi a Milano nella sede della Società Edison.
Ma un'incresciosa malattia lo costringe a ritornare nel 1880 in Italia ed a roma, dove si ferma alcuni giorni, viene molto festeggiato dai pittori di avanguardia.
Stabilitosi a Portici e rimessosi in salute viene a passare qualche mese a Palermo, alloggiando in casa del Senatore Ignazio Florio, che viene in quell'occasione gli fa dipingere una stanza del suo palazzo di Piazza Olivuzza, oggi appartenente alle suore di S. Giuseppe.
Per tale lavoro così scrisse il giornale Il Capitan fracassa del 9 febbraio 1881:
La stanza conduce dal salone da ballo alla sala del buffet e quindi Egli vi ha profuso delle tinte allegre e vi si è sbizzarrito a suo talento, senza curarsi di ciò che sogliono comunemente fare i pittori di ornato. Ha voluto provarsi in qualche cosa di nuovo e vi è riuscito.
Dalle pareti al cielo nessuna di quelle solite fasce piene di ghirigori, di scanalature e di fronde, ma piatti e vasi d'argento e uccelli e puttini e tutta questa roba senza essere allineata o incassayta come in una cornice, ma leggiadramente confusa e bizzarramente leggiadra. Sul cielo poi un velo candidissimo confonde nelle sue pieghe rosei puttini che sembra si dileguino in un'onda di luce e vanno, infatti, impallidendo ed assottigliandosi quasi che si smarrissero in quella bianchezza luminosa.
Alla parete di faccia dei piccoli campagnoli cantano e ridono a piè di un melograno, a destra ed a sinistra delle figure ignude nella ebbrezza voluttuosa del suono e del canto; infine, tra un dipinto e l'altro, fiori, uccelli, puttini, pesci, vasellame e farfalle, tutto quanto insomma la mente di una artista può immaginare d'allegro e concepire di bizzarro in una stanza che conduca alla voluttà delle danze all'allegria del convito.
Purtroppo questo magnifico affresco oggi più non esiste, perchè distrutto in seguito al passaggio del palazzo all'Istituto delle Figlie di S. Giuseppe.
Indi ritorna a Napoli e dopo poco tempo (1882) manda all'Esposizione di Torino le due bellissime tele Bosco di Portici e Centodieci anni ad Ischia. Nel primo un fanciullo dura fatica a tirare a forza delle pecore ribelli in un bosco, nell'altro è una vecchia centenaria che curva sullo sterno sta annaspando mentre i gallinacci la circondano ruzzolando per l'aia.
Contemporaneamente ottiene un gran successo alla Promotrice di Napoli con la famosa tela Il Triduo che viene acquistato dal Re Umberto I° per la Pinacoteca di Capodimonte.
L'anno dopo (1883) trionfa all'Esposizione nazionale di Belle Arti a Roma con I Funari di Torre del Greco che alzano al gran sole i fiocchi di lino che si accendono in una viva bianchezza nell'azzurro, come alberi strani in una novità abbagliante di terreno e con i due ventagli a tempra, su cui grappoli di amorini sorridono tra le conchiglie ai cefali accorrenti fra gli smeraldi delle onde marine: il primo quadro venne acquistato dal Ministero della p: I. per la Galleria d'Arte Moderna, ed ora trovasi alla Camera dei Deputati.
Subito dopo all'Esposizione Internazionale di Nizza (1883-84) viene premiato con medaglia d'argento per i quadri Centodieci anni ad Ischia Bosco di Portici e Nel Frutteto e per i due ventagli a tempra, che furono acquistati dal Duca d'Aosta.
Ed alla distanza di pochi mesi trionfa ancora una volta alla Promotrice di Napoli (1884) con un dettaglio de La pesca del tonno in Sicilia che viene acquistato dal Re Umberto I° per la Pinacoteca di Capodimonte, alla Esposizione di Torino (1884) con il quadro: Ve ne darò oggi di proprietà di casa Carnelli, nel quale una fanciulletta scendendo dal monte porge con infantile grazia un pugno d'erba ad un gruppo di capre felicemente riprodotte ed illuminate da un puro e caldo sole di montagna.
L'anno dopo (1885) il suo nome figura anche con onore all'Esposizione della Società d'incoraggiamento a Firenze. Indi finisce l'opera sua più grande: La pesca del tonno in Sicilia è una tela la quale misura due metri e mezzo e rappresenta la tonnara che è nell'isola di Favignana. la scena è assai viva ed assai bene riprodotta e colta dal vero con studio minuto ed accurato e la vastità della tela è rispondente alla vastità del soggetto ed ai molti particolari che l'arricchiscono niuno dei quali può dirsi affatto trascurato.
Il Leto è artista valoroso e coscenzioso. Egli studia dal vero e la sua riproduzione non è affatto fredda o manierata perchè Egli vi porta tutto l'entusiasmo suo giovanile; Egli vi trasporta tanta parte del suo cervello e della sua anima d'artista.
E tutto è corretto ed artistico in quella tela... Il fare è largo ed audace, il calore potente, il disegno fresco senza essere accademico o freddo. Ed al senatore Florio che ha saputo meritatamente incoraggiare questa valida e salda fibra d'artista che è chiamata ad uno splendido avvenire, al Senatore Florio che ha sauto incoraggiare il Leto affidandogli l'esecuzione di una tela così difficile, i nostri sinceri complimenti e felicitazioni: complimenti ampi e generali dopo che artisti come il Moelli, il Palizzi, il Marinelli, il Miola, l'Altamura ed il Mancinelli l'hanno meritatamente lodata sia per i particolari sia per la esecuzione che hanno riconosciuta geniale ed inappuntabile, sebbene di tale difficoltà da scoraggiare ogni artista.
E' di quest'epoca il famoso suo quadro La Sciavica nel quale dei pescatori, arsi di sole, si sforzano inclinando i loro corpi alla fatica a tirare una rete.
Subito dopo si fa onore all'Esposizione italiana di Londra (1888) dove manda due pastelli di pescatore napoletano un acquarello melloni ed un quadro ad olio di un altro dettaglio della pesca del tonno. Frattanto le sue sofferenze si vanno facendo sempre più noiose e lo tengono più frequente a letto e più lontano dalla campagna e dal mare, che, se per ragione dei suoi studi gli avevano compromessa la salute, pure avevano procurato all'anima sua di artista, le migliori soddisfazioni ed i più grandi onori.
Gli fu perciò consigliato il clima mite di Capri, anche per sottrarlo un pò alla sua grande attività e dare riposo al suo cervello già saturo di nobili idealità artistiche.
Siamo nel 1889. Le bellezze di quest'isola non concedettero però al suo spirito alcuna requie, poichè non si rimise più in salute: passava delle lunghe giornate in continua contemplazione di quelle rocce e di quel mare che furono poi soggetto preferito dei suoi ultimi e numerosi studi. L'originalità di quelle rocce contro cui si frangono le onde di un mare assai più originale non potevano non commuovere l'animo dell'illustre marinista, che seppe ben presto trarne dei paesaggi così ricchi di sentimento e di verità ed in così perfetta armonia di luce e di colore da riscuotere il plauso dei più forti pittori esteri e nazionali.
In Capri il Leto trovò il suo centro definitivo di ispirazione.
Quest'isola col suo mare ebbe sull'anima e sull'arte del Nostro un'influenza decisiva e del mare di Capri Egli fu un'assoluto dominatore. Per il felice impasto e per la originalissima colorazione dell'acqua, come, in ispecie, nelle Scoglie delle Sirene (oggi di proprietà di casa Morra) le marine di Leto sono inconfondibili.
In quelle spiagge ed in quel mare Egli non coglie e riprende soltanto la vita di quei semplici pescatori ma tutte le bellezze di quella natura assai varia in cui meglio di ogni altro ha saputo leggere, rendendola più viva e parlante.
Egli sa che la natura è muta se l'Uomo non la fa parlare; Egli sa che le bellezze naturali esercitano il loro fascino solo quando si sappia apprenderle con l'animo stesso onde le ha apprese e se le ha appropriate l'artista che le ha messe in valore ed ha indicato il punto di vista da cui bisogna guardarle collegandole così da una sua particolare intuizione.
E così Egli ha voluto e saputo ritrarre la natura, ed è stato perciò detto verista, depurandola da tutto ciò che non piace senza lasciarla fredda e muta ma dandole una vita che parla ad ognuno in quella maniera che meglio la sente e l'ammira.
Le sue opere, infatti, hanno un fascino speciale per un pubblico intellettualmente aristocratico, ma, come il dotto ed il tecnico, affascinano anche l'indotto ed il profano, sollecitando la loro psiche in diversa natura, con diversi elementi, con diversa suggestione.
Le sue ispirazioni, dolcissimamente umane, si applicano nelle grandi commozioni del suo spirito con una nota così originale e tenera, con una grazia così elegante ed aristocratica da renderlo ovunque caro, da farlo sempre più apprezzare.
Egli però sempre più modesto non si fa delle reclame anzi la fugge compiacendosi della solitudine in cui la malferma salute lo pose per circa ventitrè anni. Ma gli amici, gli artisti e gli amatori non dimenticarono mai il caro amico, il valente collega, il forte pittore addimostrandogli sempre affetto e deferenza.
Ed erano momenti felici soltanto quelli che i più rinomati artisti esteri e nostrani gli procurarono ricordandolo da lontano e visitandolo nel suo studio, che Egli teneva sempre con molta cura ed eleganza speciale.
Egli, infatti, fu grandemente ammirato e stimato da Francesco Paolo Michetti, da Domenico Morelli, da Vincenzo Volpe, da F. Saverio Altamura, da Giuseppe De Nittis, da Stefano Ussi, Da Filippo Palizzi, da Vincenzo Gemito, da Ettore Ximenes, da Francesco Loiacono, da Edoardo Dalbono, da Antonio Mancini, da Giuseppe Casciaro, da Giulio Monteverde, da Telemaco Signorini e poi ancora dal Caprale, dal De Maria, dal Cortegiani, dal Rossi, dal De Corsi e da molti altri celebri artisti italiani e , tra gli stranieri, dal Meissonier, dal Neuville, dal Manet, dall'Almatadema.
E la numerosa Colonia di forestieri residente e rinnovantesi in quell'incantevole isola di Capri, lo tenne sempre in grande considerazione e molti lavori acquistò da lui. Più di tutti il ricco industriale tedesco Krupp e l'inglese Andreas che, a preferenza degli altri ne conobbero e ne ammirarono per molti anni il forte ingegno, il senso dell'arte, la sincerità e la bontà dell'animo. Entrambi acquistarono molti suoi dipinti, specialmente il Krupp, che nel suo palazzo di Francoforte formò una delle migliori collezioni delle opere del Leto. E pur essendo per tanto tempo lontano dal movimento artistico ufficiale, il suo nome si attaccava sempre più a quell'arte che lo rese noto e stimato in tutto il mondo civile, non fiaccandogli la malattia nè la tempra di lavoratore nè la forza del suo ingegno.
E di ciò si ebbe prova quando, sollecitato dagli amici, mandò alla Esposizione di Monaco di Baviera del 1894 Le palme dell'Hotel Pagano a Capri che venne riprodotta in parecchie riviste artistiche e che oggi si appartiene a casa Morra, e quando, ai suoi amici carissimi Dalbono, Casciano ed Irolli, che lo forzavano ad esporre nella Mostra Internazionale d'Arte di Venezia del 1910, rispose, schermandosi, di non avere alcuna opera da mandare.
Quegl'illustri artisti che avevano avuto occasione di ammirare i numerosi suoi lavori degni tutti di essere esposti con sicurezza di successo; desiderosi di vedere trionfare l'arte italiana dinanzi a tutto il mondo artistico, anche col nome dell'amico Leto, insistettero sino a strappargli due soli dipinti: Marina di Catiello e Dietro la piccola marina che loro stessi curano di fare pervenire a Venezia.
I loro giusti e sinceri prognostici non tardarono ad avverarsi: difatti quelle due opere, sebbene piccole di dimensione, si affermarono fra le moltissime altre per le molteplici qualità pittoriche che amatori ed artisti indiscussi vi riscontrarono: qualità che non sfuggirono alla attenzione del Re d'Italia Vittorio Emanuele III°, che acquistò il secondo. Fu questo l'ultimo serto che strappò alla gloria e che gli confermò uno dei primissimi posti nell'Arte italiana. E dico gli confermò perchè da molti anni la teneva, nonostante che la sua lunga e penosa malattia lo avesse relegato nell'Isola di Capri.
Lo stesso anno 1910 desideroso di rivedere dopo circa trent'anni i suoi parenti ed i suoi concittadini venne a Monreale, dove gli furono tributate festose accoglienze da tutta la cittadinanza, che in lui vedeva continuata quella gloria artistica con cui il Novelli aveva onorato il suo paese natìo.
Intanto la sua malattia andava a poco a poco aggravandosi costringendolo ad una inattività che, più del male, tormentava il suo spirito.
Lo sorreggeva tuttavia la speranza di potersi ancora una volta rimettere in salute e riprendere il lavoro. Ma questa speranza che gli aveva fatto sopportare per molto tempo le lunghe sofferenze, si spense il 31 maggio del 1913, quando, assistito dal suo amico pittore nella sua casetta di Capri, nella via Tragara.
Capri, che lo volle suo cittadino onorario, fu così orbata dall'illustre Maestro che l'aveva illustrata ed onorata colle opere che, a mezzo dei visitatori forestieri, raggiunsero i centri più lontani facendo ivi ammirare le affascinanti bellezze dell'isola ed il valore della pittura italiana.
Lasciò un ricco patrimonio artistico di cui buona parte, per desiderio dell'estinto, venne dai suoi parenti regalato al Museo Nazionale di Palermo per crearvi una sala intitolata al nome dell'artista.
Egli scese silenziosamente nella tomba con grande dolore dei suoi ammiratori e colleghi, i quali videro scomparire con Antonino Leto l'illustre artista che la città di Napoli amò quale suo figlio prediletto ed annoverò sempre tra i più forti rappresentanti della rinomata sua scuola, costituita da una eletta schiera di pittori, che colle loro opere scrissero nella storia della pittura la pagina più gloriosa.
Nel 1924 alla XIV^ Esposizione Internazionale d'Arte della città di Venezia nella sala 42 venne fatta, su iniziativa di alcuni giornalisti siciliani, amanti delle glorie della propria regione, che vollero trarre dall'ombra questa gloria siciliana, un amostera individuale retrospettiva del Leto, composta di venti quadri, appartenenti al Museo Nazionale di Palermo, alla Galleria d'Arte Moderna di Palermo ed a privati tra cui: Strada polverosa. Piazza della Signoria a Firenze, Contadina nel bosco, Casa dei portici, Terrazza sul mare Posillipo, opere che segnano una tappa nella storia dell'arte dell'800.
Ne fuirono Commissari ordinari Ettore De Maria Bergler e Nino Sofia, il quale nel Catalogo guida della detta mostra, edito dalle officine grafiche Ferrari di Venezia scrisse brevi cenni biografici del Leto. Anche recentemente nella mostra del pittore De Nittis e dei pittori della scuola di Resina che ebbe luogo a Napoli (8 giugno - 11 agosto 1963) il nostro Leto fu degnamente rappresentato con i due quadri Grotta azzurra e La raccolta delle olive inviativi dalla nostra Galleria d'arte moderna.
L'accascina, nel suo pregevole studio sui pittori siciliani dell'800 dedica alcune pagine al Nostro Monrealese sulla cui arte così conclude: Il Leto fu precocemente soggettivo quando la pittura del paesaggio siciliano era ancora legata al vedutismo; fu concorde alla pittura del De Nittis quando concorde fu il sentimento di tristezza che lo legò a lui ed al Rossano, si svagò seguendo gli insegnamenti ormai maturi del Cecioni, si impigliò nell'impressionismo francese, soltanto dinanzi alla natura superò le imitazioni ed ebbe voce alta e nobile nel canto della pittura meridionale.
Monreale ha eretto in onore di questo suo figlio illustre un ricordo marmoreo, posto nella villa Belvedere, mentre Palermo ha intitolato al suo nome una delle sue vie.
Opera d'arte di Antonino Leto esposta presso il Circolo Italia - piazza V. Emanuele II Monreale.
r.m.
L'Assessore alla Cultura Sig.ra Lia Giangreco porge i saluti e dà il benvenuto alla manifestazione
Il Prof. Stefano Gorgone
La Prof.ssa M.A. Spadaro
Sala P.Novelli - Mostra artistica e documentaria su Antonino Leto
LETTERA AUTOGRAFA DI ANTONINO LETO
La S.V. conosce il vantaggio che senza i Mecenati – i quali lungi dal render servili e dipendenti, nutrono e accendono con religiosa premura la scintilla del genio nel cuore de giovani artisti, e s’ingegnano di provvedere a bisogni, che alle volte occorrono superiori alle loro possibilità – si corre pericolo di vederli languire inerti a discapito e a disdoro della terra, in cui s’ebbero la culla. E’ che per nutrire con elevate idee il genio d’artista convien cercare e studiare i modelli, e le opere de grandi o modelli, i quali più che altri nol creda rappresentano nelle loro tele il buono, il bello il grande e il sublime.
tracciarne però, sia pure in una breve sintesi tutta la sua vita artistica, non è compito facile poichè Egli nel periodo di maggiore attività non ebbe una dimora fissa ma girovagò per parecchi anni in Italia ed all'Estero fermandosi più a lungo a Palermo, Napoli, Roma, Firenze, Parigi, Capri. Di molti suoi quadri, perciò, poco o nulla sappiamo: specie di quelli che furono dipinti all'estero o che acquistati dai più grndi intenditori e negozianti d'arte, quali il Goupil di Parigi, lo Schulhtz di Berlino, l'Abeles di Vienna, il Neumann di Monaco, il Pisani di Firenze etc. raggiunsero i più lontani centri del mondo.
A queste difficoltà sono da aggiungersi poi quelle dovute alla sua eccessiva modestia.
Antonino Leto, anima squisitamente sensibile, incoercibilmente espansiva, spesso fantastica, irrequieta ed indisciplinata, fu un vero artista nato. Fu in arte non uno dei soliti mestieranti di professione ma uno studioso; non un pedante seguace di una scuola, ma uno dei più geniali e vivaci innovatori; mai cercò di porsi in evidenza e pure fu gran parte della gloriosa scuola di Portici, dei macchiaiuoli di Firenze e degli impressionisti di Parigi.
A Capri fu, senza che Egli se ne accorgesse, maestro di una numerosa schiera di artisti di ogni paese; ivi ancor oggi si dipinge alla sua maniera; nello studio di quella spiaggia nessuno però ha raggiunto quella perfezione che non a torto lo fece giudicare uno dei più forti marinisti del sec. XIX.
PALAZZO MUNICIPALE, SALA ROSSA
-destinata al Sindaco della Città -
-destinata al Sindaco della Città -
dipinto di ANTONINO LETO "Fiume Anapo di Siracusa"
Antonino Leto nacque in Monreale il 14 giugno 1844 da Pietro e Caterina Puleo. Quivi passò i primi anni rivelando sin dalla tenera età la sua tendenza artistica e la sua viva passione per la pittura con disegni di caprette, di tacchini ed altri oggetti colti dal vero nell'agro Monrealese e specialmente nelle campagne di Aquino.
A nove anni procuratisi tavolozza, pennelli e colori cominciò ad imitare i vari pittori che allora si recavano a Monreale per ritrarre l'interno della Cattedrale, copiando lui le figure che più colpivano la sua piccola mente e man mano che andava acquistando dimistichezza con la sua tavolozza si provava a dipingere dal vero facendo i ritratti dei suoi compagni di scuola, dei suoi maestri, dei suoi amici e parenti. erano tutti questi studi, fatti senza alcuna guida ed attraverso le difficoltà tecniche che egli incontrava e si sforzava di superare, che maggiormente gli accrescevano l'amore per l'arte ed il desiderio di conoscere le sue molteplici manifestazioni, ma come poteva egli seguire l'impulso dell'animo suo, le ispirazioni del suo genio, costretto a vivere entro gli angusti confini del suo paese natio ed a continuare negli studi classici a cui la famiglia le aveva indirizzato?
Spesso all'insaputa dei suoi genitori si recava a piedi a Palermo, dove passava delle lunghe ore davanti le vetrine dei negozi per osservare le stampe, le fotografie, i ritratti ed i quadri che vi si trovavano esposti. Era questo un meschino conforto alle sublimi smanie del suo genio pittorico, erano dei sacrifici che imponeva alla sua grande persona senza raccoglierne poi tutti i benefici che se ne riprometteva. La costanza però nel perseguire per lunghi anni il suo puro ideale ebbe finalmente ragione di tutte le difficoltà che per tanto tempo gli avevano torturato l'anima. Alcuni amici ed ammiratori indussero i suoi congiunti a fargli abbandonare gli studi classici ed assecondarlo invece in quelli della pittura. Contemporaneamente tal Di Gesù Girolamo, allora Consigliere Comunale, innamorato di questo ragazzo geniale, a titolo d'incoraggiamento e per venire in aiuto alle sue scarse risorse finanziarie, gli fece accordare dalla Amministrazione del Comune un modesto assegno mensile. Fu così che a diciassette anni, cioè nel 1861, Egli iniziò ufficialmente la sua carriera artistica. Suo zio, il sac. Antonino Leto, lo raccomandò all'abate Gravina, il quale gli procurò una stanzetta nel Convento dei Benedettini alla Fieravecchia e lo presentò al figurista Luigi Lo Iacono, che lo condusse dal Prof. Luigi Barba, anche lui figurista, dal quale ebbe i primi istradamenti al disegno. Dopo pochi mesi però, impressionato fortemente di un quadro di paesaggio del LoIacono, esposto al Municipio di Palermo, decise darsi a quel genere di pittura. Ne parlò infatti al Prof. Lo Iacono che volle provarlo facendogli copiare uno studio dal vero, eseguito dl figlio Francesco.
E con quei sette colori che il maestro gli aveva fatto comprare e senza alcuna guida e preparazione, copiò così fedelmente da rendere impossibile la conoscenza dell'originale. Ma la prova migliore fu invece quella che egli stesso tentò, riprendendo i suoi studi in campagna e dipingendo dal vero soggetti e scene campestri con tanta precisione di linee, di colori e di luce da farlo subito gareggiare con gli artisti più provetti dell'epoca. E' di questo periodo un quadro di paesaggio con due figurine, che regalò in segno di riconoscenza al Municipio di Monreale e da questo donato al Circolo dei Civili Umberto I, dove trovasi tuttora.
E' questa una primizia che per la sua intonazione generale faceva bene auspicare i futuri successi.
L'Amministrazione Comunale però ritenendo erroneamente che il Leto avesse raggiunta la maturità necessaria per proseguire nella sua carriera, gli tolse l'assegno. Tale inatteso provvedimento non lo sgomentò affatto poichè Egli trasformando i suoi studi in vedutine artistiche piene di novità e di verità, che per mezzo dei suoi amici Can.co Montalbano ed Avv. Antonino Morvillo, vendeva agli amatori, ricavava quanto potevagli abbisognare. E' di quest'epoca (anno 1863) il piccolo quadro "Case al sole" di proprietà di casa Titone che rivela una osservazione ed una interpretazione naturalista profondamente diversa dal vedutismo dei paesaggisti locali.
Ed erano appunto tutti questi lavoretti che lo rendevano sempre più noto ed apprezzato.
Ma a tutte le lodi che gli venivano prodigate dava un significato di puro incoraggiamento: Egli desiderava dei giudizi spassionati e sereni e ciò ottenne esponendo in una vetrina dell'ottico Garofalo a Palermo un quadro (guasch a tempera) firmato A. Puleo che per opera del Prof. Lo Forte, valente figurista, che ne fu grande ammiratore, fu venduto al Conte Tasca, il quale ne acquistò in seguito parecchi altri lavori. Siamo già al 1864 ed i grandi maestri della scuola napoletana, rappresentata dai gloriosi nomi di Mancinelli, Altamura, Palizzi, Morelli, etc. avvincevano la mente ed il cuore di quanti sentivano nella forma più pura e nobile il culto per l'arte. Tra questi il nostro Leto, appena ventenne, il quale superando con la sua attività ogni difficoltà finanziaria, andò a stabilirsi a Napoli ed accanto a queste illustrazioni della pittura italiana, continuò i suoi studi.
Era proprio l'anno in cui si formava la scuola di Resina sotto l'impegno costruttivo di Adriano Cecioni che, come scrive l'Accascina, trasportava a Portici, affidandoli ad anime pronte ad accoglierli, i precetti della scuola di Pergentina, attuati da Telemaco Signorini, Giovanni Fattori, Vincenzo Cabianca, Giusepe Abbati ed altri, ossia il ritorno alla natura col mezzo della macchia.
Dopo circa sei mesi però, ammalatosi di bronchite dovette fare ritorno a Palermo. Un anno dopo fu dall'Avv. Antonino Morvillo presentato al Senatore Ignazio Florio, che l'incaricò di riprodurre in un quadro lo stabilimento enologico di Marsala, ch'Egli ritrasse con una originalità tale da dare a quel dipinto un'impronta del tutto personale. Fu esposto al Municipio di Palermo dove fu un accorrere di ammiratori, di artisti e di giornalisti che entusiasti ne fecero i migliori elogi. Da tutti si ammirava il rapido ascendere del giovane pittore e veniva incoraggiato ad esporre nella Mostra artistica di palermo (1870) dove presentò alcuni quadri fra cui: "Il ritorno dal pascolo" che gli procurarono un grande successo e vi fu premiato con medaglia d'argento.
L'anno appresso (1871) riportò altro successo all'Esposizione Regionale di Siracusa, dove presentò "La Bufera" che fu premiato con medaglia d'oro ed acquistato dal Marchese di Castelluccio. Dal successivo anno 1872 è il quadro "L'Anapo ed i suoi papiri" da lui donato al Municipio di Monreale, dove trovasi tuttora e dello stesso anno il quadro "Una giornata d'inverno in Sicilia" mandato da Palermo all'Esposizione di Brera del 1872.
Dell'anno seguente 1873 è il quadro "Il vesuvio" oggi appartenete a casa Varvaro (Palermo).
Intanto il Florio, con cui era già venuto in grande intimità, entusiasta di questi trionfi, con aiuti ed incoraggiamenti lo mise in condizione di stabilirsi a roma, dove desiderava continuare i suoi studi. Ma ben presto (1874) banditosi il concorso per il pensionato artistico, fece ritorno a Palermo per prepararsi e vincerlo con il quadro "La raccolta delle ulive"di diretta ispirazione a Filippo Palizzi, che ora trovasi alla Galleria d'Arte Moderna di Palermo.
Stabilitosi quindi definitivamente a Roma, la città eterna che Egli, per la sua storia, per i suoi monumenti e per tutte le sue bellezze artistiche da tanto tempo agognava come sede dei suoi studi prediletti, respirò un aere più libero, più tranquillo e perciò più confacente alla sua indole mite, schiva da quelle meschine lotte personali che qualche volta gli avevano amareggiata la vita.
Egli si sentì rimpicciolito di fronte alle opere dei grandi maestri della pittura, ma la sua passione si ingigantì, il suo ingegno, più liberamente potè spaziare nel campo dell'arte, il suo programma ebbe orizzonti più vasti e più geniali ed Egli potè seguire il suo puro ideale artistico con una dignità e sincerità tale da cattivarsi ben presto la stima e la simpatia di quanti ebbero l'occasione di ammirarne la robustezza dell'ingegno e la bontà del cuore.
Primo fra tutti Francesco Paolo Michetti che l'onorò della sua alta e sincera amicizia. Non più stretto dai bisogni della vita anche per i continui aiuti del Senatore Florio, che ne fu vero e grande mecenate, continua a studiare con amore e vera fede di apostolo.
Non tralascia di lavorare pure ad acquarello e sempre con successo. Al periodo di questo suo soggiorno romano vanno attribuiti i due quadri: "Una via fangosa percorsa da due butteri a cavallo" e "Campagna romana".
All'esposizione Brera a Milano del 1875, manda da Portici, dove risiedette in tale anno, due dipinti "Villa Borghese" e Bosco di Portici"che furono acquistati dall'Accademia di Belle Arti di quella Città. Ma una maligna stella dovunque lo perseguita: si ammala nuovamente ed è costretto per curarsi ritornare ancora una volta a Palermo, donde fa domanda al Ministero per avere accordato, per motivi di salute, il passaggio del pensionato artistico da Roma a Firenze,che gli venne concesso.
Guarito, infatti, eccolo a Firenze (1876).
Ivi, preceduto da una fama di forte paesista, viene accolto in modo assai lusinghiero da una eletta e numerosa schiera di artisti. Subito si dà al lavoro con un fare sempre più geniale, più simpatico, con concetti più arditi e più belli. La parte più intellettuale di Firenze non tarda ad innamorarsi della pittura del giovane siciliano che vi trasfonde tutta la bontà dell'animo suo, tutto il calore ed il profumo della sua terra natìa. Egli accontenta lo spirito di tutti i critici dipingendo dal vero soggetti e scene del tutto originali che per la naturalezza delle tinte piacquero tanto agli amatori che li acquistavano non appena venivano tracciati sulla tela. Vi produsse molte opere tra cui rinomate: Ponte S. Trinità, La passeggiata alle Cascine in giorno di pioggia Lung'Arno Lungo il mugnone Le Cascine di Firenze in giorno d'inverno che furono riprodotte in parecchie riviste ed acquistate per la Galleria Pisani di Firenze. Indi, cessato il periodo del pensionato (1878) si recò a Parigi, chiamatovi da quel fine intenditore d'arte che fu il Goupil. Ivi trascorse il periodo più felice della sua vita. Vi aprì un magnifico studio, che divenne presto il ritrovo più gradito di molti uomini di genio, artisti e letterati fra cui Giuseppe De Nittis, G. L. Filippo Meissonier, Domenico Morelli, Vincenzo Gemito, Alfredo de Neuville ed E. Manet, capo della scuola impressionista, i quali in lui ammiravano non solamente la grande attività, ma particolarmente le nuove ed ardite concezioni artistiche che lo fecero subito primeggiare fra la numerosa ed eletta schiera degli impressionisti francesi.
Quasi tutti i lavori furono aquiostati dal Goupil per la sua Galleria d'arte, la più grande ed importante esposizione permanente dell'epoca. Perciò ben poco c'è rimasto della sua produzione durante questo periodo parigino.
Sono di quell'epoca la sua meravigliosa tela Dopo una tempesta che trionfò alla Mostra Internazionale di quadri moderni di Firenze (1880) e lo rivelò un'insuperabile marinista ed il quadro Vecchia Parigi che oggi trovasi a Milano nella sede della Società Edison.
Ma un'incresciosa malattia lo costringe a ritornare nel 1880 in Italia ed a roma, dove si ferma alcuni giorni, viene molto festeggiato dai pittori di avanguardia.
Stabilitosi a Portici e rimessosi in salute viene a passare qualche mese a Palermo, alloggiando in casa del Senatore Ignazio Florio, che viene in quell'occasione gli fa dipingere una stanza del suo palazzo di Piazza Olivuzza, oggi appartenente alle suore di S. Giuseppe.
Per tale lavoro così scrisse il giornale Il Capitan fracassa del 9 febbraio 1881:
La stanza conduce dal salone da ballo alla sala del buffet e quindi Egli vi ha profuso delle tinte allegre e vi si è sbizzarrito a suo talento, senza curarsi di ciò che sogliono comunemente fare i pittori di ornato. Ha voluto provarsi in qualche cosa di nuovo e vi è riuscito.
Dalle pareti al cielo nessuna di quelle solite fasce piene di ghirigori, di scanalature e di fronde, ma piatti e vasi d'argento e uccelli e puttini e tutta questa roba senza essere allineata o incassayta come in una cornice, ma leggiadramente confusa e bizzarramente leggiadra. Sul cielo poi un velo candidissimo confonde nelle sue pieghe rosei puttini che sembra si dileguino in un'onda di luce e vanno, infatti, impallidendo ed assottigliandosi quasi che si smarrissero in quella bianchezza luminosa.
Alla parete di faccia dei piccoli campagnoli cantano e ridono a piè di un melograno, a destra ed a sinistra delle figure ignude nella ebbrezza voluttuosa del suono e del canto; infine, tra un dipinto e l'altro, fiori, uccelli, puttini, pesci, vasellame e farfalle, tutto quanto insomma la mente di una artista può immaginare d'allegro e concepire di bizzarro in una stanza che conduca alla voluttà delle danze all'allegria del convito.
Purtroppo questo magnifico affresco oggi più non esiste, perchè distrutto in seguito al passaggio del palazzo all'Istituto delle Figlie di S. Giuseppe.
Indi ritorna a Napoli e dopo poco tempo (1882) manda all'Esposizione di Torino le due bellissime tele Bosco di Portici e Centodieci anni ad Ischia. Nel primo un fanciullo dura fatica a tirare a forza delle pecore ribelli in un bosco, nell'altro è una vecchia centenaria che curva sullo sterno sta annaspando mentre i gallinacci la circondano ruzzolando per l'aia.
Contemporaneamente ottiene un gran successo alla Promotrice di Napoli con la famosa tela Il Triduo che viene acquistato dal Re Umberto I° per la Pinacoteca di Capodimonte.
L'anno dopo (1883) trionfa all'Esposizione nazionale di Belle Arti a Roma con I Funari di Torre del Greco che alzano al gran sole i fiocchi di lino che si accendono in una viva bianchezza nell'azzurro, come alberi strani in una novità abbagliante di terreno e con i due ventagli a tempra, su cui grappoli di amorini sorridono tra le conchiglie ai cefali accorrenti fra gli smeraldi delle onde marine: il primo quadro venne acquistato dal Ministero della p: I. per la Galleria d'Arte Moderna, ed ora trovasi alla Camera dei Deputati.
Subito dopo all'Esposizione Internazionale di Nizza (1883-84) viene premiato con medaglia d'argento per i quadri Centodieci anni ad Ischia Bosco di Portici e Nel Frutteto e per i due ventagli a tempra, che furono acquistati dal Duca d'Aosta.
Ed alla distanza di pochi mesi trionfa ancora una volta alla Promotrice di Napoli (1884) con un dettaglio de La pesca del tonno in Sicilia che viene acquistato dal Re Umberto I° per la Pinacoteca di Capodimonte, alla Esposizione di Torino (1884) con il quadro: Ve ne darò oggi di proprietà di casa Carnelli, nel quale una fanciulletta scendendo dal monte porge con infantile grazia un pugno d'erba ad un gruppo di capre felicemente riprodotte ed illuminate da un puro e caldo sole di montagna.
L'anno dopo (1885) il suo nome figura anche con onore all'Esposizione della Società d'incoraggiamento a Firenze. Indi finisce l'opera sua più grande: La pesca del tonno in Sicilia è una tela la quale misura due metri e mezzo e rappresenta la tonnara che è nell'isola di Favignana. la scena è assai viva ed assai bene riprodotta e colta dal vero con studio minuto ed accurato e la vastità della tela è rispondente alla vastità del soggetto ed ai molti particolari che l'arricchiscono niuno dei quali può dirsi affatto trascurato.
Il Leto è artista valoroso e coscenzioso. Egli studia dal vero e la sua riproduzione non è affatto fredda o manierata perchè Egli vi porta tutto l'entusiasmo suo giovanile; Egli vi trasporta tanta parte del suo cervello e della sua anima d'artista.
E tutto è corretto ed artistico in quella tela... Il fare è largo ed audace, il calore potente, il disegno fresco senza essere accademico o freddo. Ed al senatore Florio che ha saputo meritatamente incoraggiare questa valida e salda fibra d'artista che è chiamata ad uno splendido avvenire, al Senatore Florio che ha sauto incoraggiare il Leto affidandogli l'esecuzione di una tela così difficile, i nostri sinceri complimenti e felicitazioni: complimenti ampi e generali dopo che artisti come il Moelli, il Palizzi, il Marinelli, il Miola, l'Altamura ed il Mancinelli l'hanno meritatamente lodata sia per i particolari sia per la esecuzione che hanno riconosciuta geniale ed inappuntabile, sebbene di tale difficoltà da scoraggiare ogni artista.
E' di quest'epoca il famoso suo quadro La Sciavica nel quale dei pescatori, arsi di sole, si sforzano inclinando i loro corpi alla fatica a tirare una rete.
Subito dopo si fa onore all'Esposizione italiana di Londra (1888) dove manda due pastelli di pescatore napoletano un acquarello melloni ed un quadro ad olio di un altro dettaglio della pesca del tonno. Frattanto le sue sofferenze si vanno facendo sempre più noiose e lo tengono più frequente a letto e più lontano dalla campagna e dal mare, che, se per ragione dei suoi studi gli avevano compromessa la salute, pure avevano procurato all'anima sua di artista, le migliori soddisfazioni ed i più grandi onori.
Gli fu perciò consigliato il clima mite di Capri, anche per sottrarlo un pò alla sua grande attività e dare riposo al suo cervello già saturo di nobili idealità artistiche.
Siamo nel 1889. Le bellezze di quest'isola non concedettero però al suo spirito alcuna requie, poichè non si rimise più in salute: passava delle lunghe giornate in continua contemplazione di quelle rocce e di quel mare che furono poi soggetto preferito dei suoi ultimi e numerosi studi. L'originalità di quelle rocce contro cui si frangono le onde di un mare assai più originale non potevano non commuovere l'animo dell'illustre marinista, che seppe ben presto trarne dei paesaggi così ricchi di sentimento e di verità ed in così perfetta armonia di luce e di colore da riscuotere il plauso dei più forti pittori esteri e nazionali.
In Capri il Leto trovò il suo centro definitivo di ispirazione.
Quest'isola col suo mare ebbe sull'anima e sull'arte del Nostro un'influenza decisiva e del mare di Capri Egli fu un'assoluto dominatore. Per il felice impasto e per la originalissima colorazione dell'acqua, come, in ispecie, nelle Scoglie delle Sirene (oggi di proprietà di casa Morra) le marine di Leto sono inconfondibili.
In quelle spiagge ed in quel mare Egli non coglie e riprende soltanto la vita di quei semplici pescatori ma tutte le bellezze di quella natura assai varia in cui meglio di ogni altro ha saputo leggere, rendendola più viva e parlante.
Egli sa che la natura è muta se l'Uomo non la fa parlare; Egli sa che le bellezze naturali esercitano il loro fascino solo quando si sappia apprenderle con l'animo stesso onde le ha apprese e se le ha appropriate l'artista che le ha messe in valore ed ha indicato il punto di vista da cui bisogna guardarle collegandole così da una sua particolare intuizione.
E così Egli ha voluto e saputo ritrarre la natura, ed è stato perciò detto verista, depurandola da tutto ciò che non piace senza lasciarla fredda e muta ma dandole una vita che parla ad ognuno in quella maniera che meglio la sente e l'ammira.
Le sue opere, infatti, hanno un fascino speciale per un pubblico intellettualmente aristocratico, ma, come il dotto ed il tecnico, affascinano anche l'indotto ed il profano, sollecitando la loro psiche in diversa natura, con diversi elementi, con diversa suggestione.
Le sue ispirazioni, dolcissimamente umane, si applicano nelle grandi commozioni del suo spirito con una nota così originale e tenera, con una grazia così elegante ed aristocratica da renderlo ovunque caro, da farlo sempre più apprezzare.
Egli però sempre più modesto non si fa delle reclame anzi la fugge compiacendosi della solitudine in cui la malferma salute lo pose per circa ventitrè anni. Ma gli amici, gli artisti e gli amatori non dimenticarono mai il caro amico, il valente collega, il forte pittore addimostrandogli sempre affetto e deferenza.
Ed erano momenti felici soltanto quelli che i più rinomati artisti esteri e nostrani gli procurarono ricordandolo da lontano e visitandolo nel suo studio, che Egli teneva sempre con molta cura ed eleganza speciale.
Egli, infatti, fu grandemente ammirato e stimato da Francesco Paolo Michetti, da Domenico Morelli, da Vincenzo Volpe, da F. Saverio Altamura, da Giuseppe De Nittis, da Stefano Ussi, Da Filippo Palizzi, da Vincenzo Gemito, da Ettore Ximenes, da Francesco Loiacono, da Edoardo Dalbono, da Antonio Mancini, da Giuseppe Casciaro, da Giulio Monteverde, da Telemaco Signorini e poi ancora dal Caprale, dal De Maria, dal Cortegiani, dal Rossi, dal De Corsi e da molti altri celebri artisti italiani e , tra gli stranieri, dal Meissonier, dal Neuville, dal Manet, dall'Almatadema.
E la numerosa Colonia di forestieri residente e rinnovantesi in quell'incantevole isola di Capri, lo tenne sempre in grande considerazione e molti lavori acquistò da lui. Più di tutti il ricco industriale tedesco Krupp e l'inglese Andreas che, a preferenza degli altri ne conobbero e ne ammirarono per molti anni il forte ingegno, il senso dell'arte, la sincerità e la bontà dell'animo. Entrambi acquistarono molti suoi dipinti, specialmente il Krupp, che nel suo palazzo di Francoforte formò una delle migliori collezioni delle opere del Leto. E pur essendo per tanto tempo lontano dal movimento artistico ufficiale, il suo nome si attaccava sempre più a quell'arte che lo rese noto e stimato in tutto il mondo civile, non fiaccandogli la malattia nè la tempra di lavoratore nè la forza del suo ingegno.
E di ciò si ebbe prova quando, sollecitato dagli amici, mandò alla Esposizione di Monaco di Baviera del 1894 Le palme dell'Hotel Pagano a Capri che venne riprodotta in parecchie riviste artistiche e che oggi si appartiene a casa Morra, e quando, ai suoi amici carissimi Dalbono, Casciano ed Irolli, che lo forzavano ad esporre nella Mostra Internazionale d'Arte di Venezia del 1910, rispose, schermandosi, di non avere alcuna opera da mandare.
Quegl'illustri artisti che avevano avuto occasione di ammirare i numerosi suoi lavori degni tutti di essere esposti con sicurezza di successo; desiderosi di vedere trionfare l'arte italiana dinanzi a tutto il mondo artistico, anche col nome dell'amico Leto, insistettero sino a strappargli due soli dipinti: Marina di Catiello e Dietro la piccola marina che loro stessi curano di fare pervenire a Venezia.
I loro giusti e sinceri prognostici non tardarono ad avverarsi: difatti quelle due opere, sebbene piccole di dimensione, si affermarono fra le moltissime altre per le molteplici qualità pittoriche che amatori ed artisti indiscussi vi riscontrarono: qualità che non sfuggirono alla attenzione del Re d'Italia Vittorio Emanuele III°, che acquistò il secondo. Fu questo l'ultimo serto che strappò alla gloria e che gli confermò uno dei primissimi posti nell'Arte italiana. E dico gli confermò perchè da molti anni la teneva, nonostante che la sua lunga e penosa malattia lo avesse relegato nell'Isola di Capri.
Lo stesso anno 1910 desideroso di rivedere dopo circa trent'anni i suoi parenti ed i suoi concittadini venne a Monreale, dove gli furono tributate festose accoglienze da tutta la cittadinanza, che in lui vedeva continuata quella gloria artistica con cui il Novelli aveva onorato il suo paese natìo.
Intanto la sua malattia andava a poco a poco aggravandosi costringendolo ad una inattività che, più del male, tormentava il suo spirito.
Lo sorreggeva tuttavia la speranza di potersi ancora una volta rimettere in salute e riprendere il lavoro. Ma questa speranza che gli aveva fatto sopportare per molto tempo le lunghe sofferenze, si spense il 31 maggio del 1913, quando, assistito dal suo amico pittore nella sua casetta di Capri, nella via Tragara.
Capri, che lo volle suo cittadino onorario, fu così orbata dall'illustre Maestro che l'aveva illustrata ed onorata colle opere che, a mezzo dei visitatori forestieri, raggiunsero i centri più lontani facendo ivi ammirare le affascinanti bellezze dell'isola ed il valore della pittura italiana.
Lasciò un ricco patrimonio artistico di cui buona parte, per desiderio dell'estinto, venne dai suoi parenti regalato al Museo Nazionale di Palermo per crearvi una sala intitolata al nome dell'artista.
Egli scese silenziosamente nella tomba con grande dolore dei suoi ammiratori e colleghi, i quali videro scomparire con Antonino Leto l'illustre artista che la città di Napoli amò quale suo figlio prediletto ed annoverò sempre tra i più forti rappresentanti della rinomata sua scuola, costituita da una eletta schiera di pittori, che colle loro opere scrissero nella storia della pittura la pagina più gloriosa.
Nel 1924 alla XIV^ Esposizione Internazionale d'Arte della città di Venezia nella sala 42 venne fatta, su iniziativa di alcuni giornalisti siciliani, amanti delle glorie della propria regione, che vollero trarre dall'ombra questa gloria siciliana, un amostera individuale retrospettiva del Leto, composta di venti quadri, appartenenti al Museo Nazionale di Palermo, alla Galleria d'Arte Moderna di Palermo ed a privati tra cui: Strada polverosa. Piazza della Signoria a Firenze, Contadina nel bosco, Casa dei portici, Terrazza sul mare Posillipo, opere che segnano una tappa nella storia dell'arte dell'800.
Ne fuirono Commissari ordinari Ettore De Maria Bergler e Nino Sofia, il quale nel Catalogo guida della detta mostra, edito dalle officine grafiche Ferrari di Venezia scrisse brevi cenni biografici del Leto. Anche recentemente nella mostra del pittore De Nittis e dei pittori della scuola di Resina che ebbe luogo a Napoli (8 giugno - 11 agosto 1963) il nostro Leto fu degnamente rappresentato con i due quadri Grotta azzurra e La raccolta delle olive inviativi dalla nostra Galleria d'arte moderna.
L'accascina, nel suo pregevole studio sui pittori siciliani dell'800 dedica alcune pagine al Nostro Monrealese sulla cui arte così conclude: Il Leto fu precocemente soggettivo quando la pittura del paesaggio siciliano era ancora legata al vedutismo; fu concorde alla pittura del De Nittis quando concorde fu il sentimento di tristezza che lo legò a lui ed al Rossano, si svagò seguendo gli insegnamenti ormai maturi del Cecioni, si impigliò nell'impressionismo francese, soltanto dinanzi alla natura superò le imitazioni ed ebbe voce alta e nobile nel canto della pittura meridionale.
Monreale ha eretto in onore di questo suo figlio illustre un ricordo marmoreo, posto nella villa Belvedere, mentre Palermo ha intitolato al suo nome una delle sue vie.
r.m.
CENTENARIO DELLA MORTE
DI
ANTONINO LETO
COMUNE DI MONREALE
Provincia di Palermo
Comunicato stampa
SEMINARIO E MOSTRA SULL’ILLUSTRE
PITTORE MONREALESE
ANTONINO LETO
In occasione del centenario della morte del pittore monrealese Antonino Leto, l’Amministrazione ha organizzato un evento per ricordare e far conoscere, soprattutto alle nuove generazioni, la straordinaria forza creativa di questa personalità illustre dell’800 siciliano. La manifestazione, prevede l’organizzazione di un Seminario e la proiezione di un DVD, per presentare l’Artista ed i suoi dipinti. Seguirà una Mostra d’arte delle opere di Antonino Leto ed una esposizione di documenti reperiti nel nostro Archivio Storico, relativi alla formazione del Maestro. L’apertura della manifestazione alla quale vi prenderanno parte, fra gli altri, il sindaco Filippo Di Matteo, l’assessore alla Cultura Lia Giangreco, il direttore della Galleria D’arte comunale Salvatore Autovino e il professore Stefano Gorgone che ha collaborato nella organizzazione dell’evento culturale, avrà luogo giorno 30 novembre 2013 presso l’Aula Consiliare alle ore 10,00 e alle ore 12,00 l’inaugurazione della Mostra artistica e documentaria che si realizzerà nella “Sala P. Novelli” – ex Monastero dei Benedettini e che si protrarrà fino a giorno 11 Dicembre 2013. Nella organizzazione della manifestazione sono stati coinvolti gli studenti dei licei di Monreale (artistico, classico e scientifico).
“E’ importante essere riusciti – ha dichiarato l’Assessore alla Cultura Lia Giangreco – a valorizzare una personalità illustre della cultura monrealese, con il pieno coinvolgimento delle scuole del territorio. Ma è ancora importante che questo momento sia anche una occasione di incontro con l’intera città che puo’ in questa occasione riappropriarsi e ricordare uno degli artisti più rappresentativi dell’ottocento siciliano”.
“E’ importante essere riusciti – ha dichiarato l’Assessore alla Cultura Lia Giangreco – a valorizzare una personalità illustre della cultura monrealese, con il pieno coinvolgimento delle scuole del territorio. Ma è ancora importante che questo momento sia anche una occasione di incontro con l’intera città che puo’ in questa occasione riappropriarsi e ricordare uno degli artisti più rappresentativi dell’ottocento siciliano”.
Il Prof. Stefano Gorgone
La Prof.ssa M.A. Spadaro
Sala P.Novelli - Mostra artistica e documentaria su Antonino Leto
ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI MONREALE
"GIUSEPPE SCHIRO'"
LETTERA AUTOGRAFA DI ANTONINO LETO
Trascrizione integrale della lettera autografa di Antonino Leto
ASCM, busta 474, Serie 1 – Corrispondenza, Monreale, 1867
Al Signor Regio Delegato Straordinario di Monreale
Signore
Antonino Leto di Pietro da Monreale con il dovuto rispetto rassegna alla S.V. quanto appresso.
Egli per una provvida deliberazione di codesto Consiglio – intento mai sempre a favorire chi possa, e voglia render vanto al proprio paese per opera di mano e d’ingegno – si gode da quasi tre anni di un tenue sussidio onde sopperire a non pochi mezzi di cui abbisogna la più eccellente e a un tempo la più difficile delle belle arti – la pittura -.
Ma per un giovine che ebbe sortite da natura le più felici inclinazioni per quall’arte divina, qualunque mezzo ei s’ abbia, qualunque studii ei faccia, non è mai bastevole, onde riuscire a stampare una qualche orma, nel cammino che tracciarono con tanto splendore del nome italiano i maestri dei tempi andati.
Però Ella ben sa che tra noi ce n’à ben poche di quelle. Ond’è che il supplicante prega la S.V. perché amante com’è delle arti belle si degni prendere in considerazione lo esposto e fargli assegno di un sussidio tale che valga a poterlo allontanare dal paese natio e recarsi in una delle tante città d’Italia nostra, che per fortuna o carità di patria àn saputo farsi albergo delle arti, ciò che vuol dire sede di civiltà e di educazione.
E il giovane artista per fare onore a se stesso e per essere nello stesso tempo grato e riconoscente verso coloro che gli preparano sì ridente avvenire oserà presentare qual frutto del suo giovine ingegno un lavoro, ch’è sul punto di finire, onde possa Ella giudicare se egli coltivi ed ami le arti belle e il suo paese natio.
Nutro speranza …
Monreale, lì 9 1867 Antonino Leto
ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI MONREALE
"GIUSEPPE SCHIRO'"
Il pittore Antonino Leto dalle carte
dell’ Archivio storico comunale
Nel 1863 tre artisti monrealesi, i “giovanetti” Giuseppe Maria Modica pittore, Antonino Leto pittore e Giuseppe Di Giovanni scultore, inoltrano richiesta al Comune di convertire il beneficio di cui già godono, per essere ammessi presso il “novello Istituto degli artigianelli” di Palermo, in un assegno di mantenimento agli studi presso “valenti artisti di Palermo” ognuno secondo le proprie inclinazioni artistiche. Infatti, si continua nella delibera, in quell’Istituto s’imparano abilità meccaniche che nulla hanno a che fare con le “belle arti liberali”. Il Consiglio comunale approva la richiesta all’unanimità di voti[1].
L’anno successivo, 1864, i tre chiedono l’aumento dell’assegno loro accordato in precedenza. La richiesta viene corredata da una lettera del prof. Delisi (?), richiedente l’aumento degli assegni stante la loro “tenuità”. Ai tre giovani artisti si aggiunge la richiesta di Antonino Mandalà, indigente cittadino monrealese ma considerato pittore di belle speranze. Gli artisti donano ognuno un saggio della loro opera al Comune. Allora, “considerando che una delle principali cure dei Municipi si è quella di incoraggiare i Comunisti ed agevolarli nello sviluppo degli ingegni, e delle loro tendenze”, oltre aver constatato la inadeguatezza del sussidio economico per vivere al di fuori di Monreale, a voti unanimi del Consiglio lo stanziamento viene portato a £ 803.24 e cioè a £ 267, 75 annuali per ognuno degli studenti. L’assegno si paga mensilmente dietro un certificato di presenza rilasciato dal maestro della bottega d’arte di Palermo presso cui esercitano l’apprendistato[2]. La Giunta ribadisce la volontà del Consiglio, reperendo i fondi necessari in un altro articolo del bilancio vigente[3].
Nel 1867 Antonino Leto e Giuseppe Di Giovanni, che si dimostrano i più perseveranti nel loro apprendistato di studi artistici, sono ormai consapevoli di esser pronti al salto di qualità e chiedono, a tale scopo, ancora l’aumento del sussidio comunale, per potersi “perfezionare nelle arti suddette recandosi in una delle più cospicue Città del continente italiano”. L’aumento è accordato visti i loro progressi e l’assidua frequenza nell’apprendistato. I due portano a testimone del loro zelo un saggio ciascuno, “testè donati al Municipio e rappresentanti il primo una prospettiva con le varianti di una catena di monti con Custello, pianura e mare, e il secondo una statua in gesso dell’insigne monreale Pietro Novelli, con naturali e ammirevoli mosse, che oggi adornano le Aule del Palazzo Municipale”. Al Consiglio appaiono giuste e fondate le esigenze di studio dei due; tuttavia le ristrette economiche cittadine non consentono di accondiscendere alla richiesta, posticipandola ad un futuro bilancio[4].
Una bella lettera di alcuni mesi prima, a firma di Leto e conservata presso l’ASCM, che è anche prova della sua abilità come scrittore di bella prosa, perora la sua causa e ci informa che egli mostrerà una sua opera che sta per ultimare in cui è racchiuso il suo amore per “le belle arti e per il suo paese natio”. Soprattutto questa lettera ci anticipa il disegno di Leto di voler emigrare verso nuovi lidi per approfondire e migliorare la sua arte di pittore[5].
Trascorrono alcuni anni, senza avere più notizie di Leto, quando nel 1872 riconoscente al Municipio per i benefici avuti per il mantenimento agli studi a carico dello stesso, “dona un quadro parto del suo pennello, rappresentante il Fiume Anapo”. Il Consiglio contraccambia con una giusta ricompensa di £ 1.000 per “continuare nella nobile intrapresa carriera”[6]. Gli anni a seguire vedono Leto, ormai pittore affermato, sempre più lontano da Monreale, spostandosi fra Napoli, Firenze, Parigi etc. La sua ultima destinazione è Capri, dove ha prodotto alcuni fra i suoi capolavori e dove è spirato nel 1913. L’ultimo, breve, ritorno a Monreale sarà nel 1910 dopo trenta anni di assenza.
Ultima notizia circa le sue opere in possesso del Comune si traggono da un registro d’inventario di beni del Comune, del 1941-1942. In questo apprendiamo che nel “salone podestarile” esiste un quadro ad acquarello di un autore (Cannata?). Mentre nella stanza del Segretario capo esiste un “grande quadro ad olio del pittore Leto”[7].
[1] ASCM - Fondo Comunale, Sezione II – Registri e Volumi, Reg. 100, Serie 2 - Deliberazioni del Consiglio Comunale, “Deliberazioni del 1863 e 1864 - vol. II”, “Assegno ai tre alunni Modica, Di Giovanni e Leto”, Monreale, 19 maggio 1863, n° 900.
[2] ASCM - Fondo Comunale, Sezione II – Registri e Volumi, Reg. 101, Serie 2 - Deliberazioni del Consiglio Comunale, “Deliberazioni del Consiglio dal 1864 al 1865 vol. III”, “Assegno ai studenti in scultura e pittura”, Monreale, 6 maggio1864, pp. 117-120.
[3] ASCM - Fondo Comunale, Sezione II – Registri e Volumi, Reg. 136, Serie 1872”
[4] ASCM - Fondo Comunale, Sezione II – Registri e Volumi, Serie 2 - Deliberazioni del Consiglio Comunale, Reg. n° 102, “”Per la domanda degli studenti Leto e Di Giovanni”, Monreale, 13 maggio1867, pp. 283-284.
[5] ASCM – Fondo Comunale, Sezione III - Carte Sciolte, Serie 1 – Corrispondenza, “1 - Fascicolo relativo a corrispondenza riguardante petizioni rivolte da privati cittadini alle Istituzioni Comunali”, pos. 8, Monreale, 9 aprile 1867.
[6] ASCM - Fondo Comunale, Sezione II – Registri e Volumi, Serie 2 - Deliberazioni del Consiglio Comunale, Reg. n° 105, “”Compra del quadro rappresentante l’Anapo”, Monreale, 20 maggio1872, pp. 237-238.
ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI MONREALE
"GIUSEPPE SCHIRO'"
Gli esordi
del pittore Antonino Leto dalle carte
dell’ Archivio storico comunale
Antonino Leto nasce a Monreale il 14 giugno 1844, mostrando sin da bambino le sue qualità ed attitudini artistiche, recandosi nella vicina Palermo per copiare su fogli volanti e taccuini ciò che vedeva nelle vetrine della grande città.
La sua carriera di studi comincia a Monreale, presso il convitto dei Chierici Rossi in cui era stato mandato grazie agli interessamenti dei suoi zii sacerdoti Antonino e Salvatore. All’indomani della rivoluzione nazionale il Comune di Monreale, che pagava la retta dei giovani studenti presso i Chierici Rossi cittadini, decide che quella non è il giusto tipo di educazione da impartire e invia i giovani che godono di quella retta presso l’istituto Artigiano di Palermo.
Le inclinazioni del giovane Leto non tardano ad emergere e le sue aspirazioni si concretizzano il 24 aprile 1863, quando tre artisti monrealesi, Giuseppe Maria Modica pittore, Antonino Leto pittore, Giuseppe Di Giovanni scultore, inoltrano al prefetto di Palermo una supplica per intercedere presso l’autorità comunale monrealese al fine di ottenere un cambio di destinazione dei fondi concessigli.
Si tratta di convertire il beneficio di cui già godono in un assegno di mantenimento agli studi presso “valenti artisti di Palermo”, ognuno secondo le proprie inclinazioni artistiche. Infatti, si continua nella delibera, “(…) in quell’ Istituto s’imparano abilità meccaniche che nulla hanno a che fare con le “belle arti liberali”. Il Consiglio comunale, con lungimiranza e finalità di incoraggiamento di quelle tendenze, approva la richiesta all’unanimità di voti.
L’anno successivo, 21 maggio 1864, i tre chiedono l’aumento dell’assegno loro accordato in precedenza. La richiesta viene corredata da una lettera di raccomandazione del prof. Delisi, illustre figura del mondo artistico palermitano di fine Ottocento, richiedente l’aumento degli assegni stante la loro “tenuità”. Ai tre giovani artisti si aggiunge la richiesta di Antonino Mandalà, indigente cittadino monrealese considerato pittore di belle speranze.
In questa occasione ognuno degli artisti dona un saggio della propria opera al Comune, volendo dar conto e soddisfazione dei progressi raggiunti. Allora il Consiglio comunale “considerando che una delle principali cure dei Municipi si è quella di incoraggiare i Comunisti ed agevolarli nello sviluppo degli ingegni, e delle loro tendenze”, oltre aver constatato la inadeguatezza del sussidio economico per vivere al di fuori di Monreale, a voti unanimi approva la richiesta di aumento.
Nel 1867, Leto invia una sua lettera, scritta in bella prosa, in cui perora la sua causa e ci informa che egli mostrerà una sua opera che sta per ultimare in cui è racchiuso il suo amore per “le belle arti e per il suo paese natio”. Soprattutto questa lettera ci anticipa il disegno di Leto di voler emigrare verso nuovi lidi per approfondire e migliorare la sua arte di pittore.
Nello stesso anno Antonino Leto e Giuseppe Di Giovanni, che si dimostrano i più perseveranti nel loro apprendistato di studi artistici, sono ormai consapevoli di esser pronti al salto di qualità e chiedono, a tale scopo, ancora un aumento del sussidio comunale per potersi “perfezionare nelle arti suddette recandosi in una delle più cospicue Città del continente italiano”.
I due portano a testimonianza del loro zelo un saggio ciascuno, “testè donati al Municipio e rappresentanti il primo una prospettiva con le varianti di una catena di monti con Custello, pianura e mare, e il secondo una statua in gesso dell’insigne monrealese Pietro Novelli, con naturali e ammirevoli mosse, che oggi adornano le Aule del Palazzo Municipale”. L’aumento è loro accordato visti i progressi e l’assidua frequenza nell’apprendistato. Al Consiglio appaiono giuste e fondate le esigenze di studio dei due; tuttavia le ristrettezze economiche cittadine non consentono di accondiscendere alla richiesta, posticipandola ad un futuro bilancio. Purtroppo del busto raffigurante il grande Pietro Novelli non si hanno notizie, mentre la tela di Leto sembra essere quella attualmente esposta presso il circolo di cultura Italia di Monreale.
Trascorrono alcuni anni, senza avere più notizie di Leto, quando nel 1872, riconoscente al Municipio per i benefici avuti per il mantenimento agli studi a carico dello stesso, “dona un quadro parto del suo pennello, rappresentante il Fiume Anapo”. Il Consiglio contraccambia con una giusta ricompensa di £ 1.000 per “continuare nella nobile intrapresa carriera”. Gli anni a seguire vedono Leto, ormai pittore affermato, sempre più lontano da Monreale, spostandosi fra Napoli, Firenze, Parigi etc.
La sua ultima destinazione è Capri, dove ha prodotto alcuni fra i suoi capolavori e dove è spirato nel 1913. L’ultimo, breve, ritorno a Monreale sarà nel 1910 dopo trenta anni di assenza. Ultima notizia, dalle carte d’archivio, circa le sue opere in possesso del Comune, si traggono da un registro d’inventario di beni del 1941-1942. Nella stanza del Segretario capo esiste un “(…) grande quadro ad olio del pittore Leto”.
GIUSEPPE SCIORTINO
Giuseppe Sciortino ( Monreale 10/08/1900 – Roma 18/03/1971), critico d’arte, poeta, scrittore, giornalista, sin da giovane coltivò le sue passioni artistiche e letterarie. A partire dal 1921 intrattenne stimolanti rapporti con la rivista palermitana “Simun” e dette alle stampe la sua prima raccolta di versi, “Finestre”, ed. Ant. Trimarchi (Palermo).
Il giovane intellettuale siciliano richiamò su di sé l’attenzione della cultura nazionale più aperta al nuovo (fra gli altri Prezzolini e Tilgher) per il volume “L’epoca della critica”, apparso nelle Edizioni Piero Gobetti (Torino 1924): “un inventario scrupoloso del lavoro critico del nostro tempo” – così lo definì Luca Pignato su “L’Ora” dell’ 11-12 aprile 1924.
Sul piano nazionale ha iniziato la sua attività nel 1925, come capogruppo in Sicilia degli aderenti ai gruppi di “Rivoluzione liberale”, la rivista gobettiana divenuta “uno tra i pochi momenti di resistenza morale” (Sciortino, 1950).
Nel 1926, presso l’editore Piero Gobetti in Torino, pubblicò “L’epoca della critica”, il cui successo fu determinato da articoli di Prezzolini – Vinciguerra ecc.
Nel 1927, sempre con Gobetti in Torino, pubblicò una breve raccolta di liriche “Ventura”; nel 1928 (e nel 1934 in seconda edizione presso la Casa Editrice Remo Sandron Milano – Palermo) le “Esperienze antidannunziane”, un atto di accusa (contro certa letteratura estetizzante e criccaiola), che ebbe l’alto consenso di Benedetto Croce e la veemente disapprovazione di Curzio Malaparte.
Dopo una monografia sul pittore Pippo Rizzo, nel 1928 – lo Sciortino ormai vigilato politico per antifascismo – cessò da ogni vera e propria attività di scrittore per fare il direttore letterario delle edizioni scolastiche della Sandron. In tale periodo parecchi testi scolastici vengono da lui compilati e da altri firmati, salvo una “Grammatica Italiana”, giunta alla quarta edizione, una scelta di novelle di Capuana e un manuale di cultura generale per i Corsi di Avviamento, più volte ristampati, che portavano il suo nome.
E’ del 1932 la pubblicazione di “Liriche e miti” (ED. del Ciclope – Palermo). Nel 1936, per sollecitazione dell’amico Nino Savarese, pubblicò una nuova raccolta di liriche “Altro viaggio”, con prefazione di Alfredo Gargiulo (ed. Emiliano degli Orfini, Genova), che servì ai nemici di Gargiulo da pretesto per attaccare il grande critico, che non si rassegnava a limitare il proprio interesse all’ermetismo ungarettiano o di altri. I tempi costringevano Sciortino a interrompere l’attività pubblicistica. Il giovane intellettuale trovò riparo – come direttore letterario- nella casa editrice Sandron, per la quale approntò svariati testi scolastici dei quali solo qualcuno recherà in copertina il suo nome.
Nel 1943-44 riprende, tra altre difficoltà, l’attività di scrittore con una sorta di diario, lungo i nove mesi dell’occupazione tedesca di Roma: in sostanza un colloquio tenero e doloroso con il figlio Sergio rimasto nell’isola, ricco di amare riflessioni e struggenti annotazioni. “Tale mia operetta venne fuori in una collana dove fu pubblicato un altro diario di guerra di Nino Savarese, uno di Carlo Bernari e dove avrebbe dovuto apparire “Compagno scrittore” di Vasco Pratolini: una collana, quindi, di una certa ambizione e al di sopra delle parti, come allora era ancora possibile” (Sciortino 1970). L’operetta uscì con il titolo “Figlio in Sicilia” nel 1945 per le edizioni Sandron di Roma. Una successiva edizione – integrata con una seconda parte (elzeviri e note di colore dati ai giornali tra il 1947 e il 1951) e con un “Post-scriptum” (dattiloscritto tra Fiuggi, Gaeta e Roma nel 1970) – vedrà la luce postuma, nel 1972, per l’editore Trevi di Roma, per volontà della Signora Posabella. Tra il 1947 e il 1952 l’attività pubblicista di Sciortino trovò sbocco nelle collaborazioni a diversi quotidiani. Mai dismessa, comunque, la militanza critica, accompagnata da interventi non occasionali; come uno studio sulla pittura di Ferdinando Troso (Ed. Pinci – Roma1950), un saggio su “Il paesaggio di Ceracchini” (Ed. del vantaggio – Roma 1954). Dal 1952 al 1964 tenne la rubrica della critica d’arte su “La fiera letteraria”. Con Vincenzo Cardarelli ebbe intensa frequentazione. La svolta impressa al giornale da Diego Fabbri, Giancarlo Vigorelli e Leone Piccioni portò – non senza clamorose polemiche – alla improvvisa, imprevedibile conclusione del rapporto di collaborazione del noto critico d’arte siciliano con l’importante giornale culturale. Gli articoli più significativi Sciortino stesso selezionò e raccolse in “Crepuscolo dell’Astrattismo” (Ed. del Vantaggio – Roma 1964). Via del Vantaggio a Roma si trova non lontano da Piazza del Popolo, tra via del corso e la Passeggiata di Ripetta. Qui, nel cuore di Roma, tra botteghe di artigiani, studi di artisti, sale espositive, librerie e qualche “hostaria”, la prestigiosa Galleria del Vantaggio era il luogo d’incontro preferito da artisti e intellettuali, sia italiani che stranieri, già affermati o esordienti, tutti a cercare da Sciortino consensi, consigli, analisi, valutazioni e, perché no, borbottii.
Di questa Galleria Sciortino fu direttore artistico dal 1954, dal 1956 curò alcuni “Quaderni d’arte”; e poi ne prese il nome per la rivista che fondò e diresse dal 1967 avendo collaboratori Rafael Alberti, Vito Apuleo, Rosario Assunto, Renzo Biasion, Vittorio Bodini, Vincenzo Ciardo, R.M. De Angelis, Tommaso Fiore, Mino Maccari, Santo Mazzarino, Domenico Purificato, Giuseppe Santonastaso. La rivista uscì ancora dopo la morte di Sciortino. E a Sciortino, per iniziativa della Signora N. Posabella, furono intitolati premi nazionali: di pittura nel 1972, di poesia nel 1973, per racconti nel 1974. La città di Monreale istituì la civica galleria d’arte moderna che intitolò a Giuseppe Sciortino e la aprì al pubblico nel 1986.
PARTE PRIMA
"IL FIGLIO IN SICILIA"
(1943)
…Codesta mia operetta – quasi un diario – riflette gli stati d’animo di uno dei tanti che la guerra aveva rinchiuso per circa nove mesi in Roma come in una prigione: custodi d’una durezza allucinante, i tedeschi, che difendevano senza più speranza un loro sogno egemonico, e un pugno di ragazzi italiani che avevano indossato all’ultimo momento le divise della milizia fascista come una disperata àncora di salvezza in quel tornado che aveva tutti investiti, innocenti e colpevoli. La fede non c’era, c’era la paura; e l’illusione che una pistola o un fucile bastassero per fugarla. (Noi che non cedemmo, possiamo ora dirlo con coscienza).
…Nel mio libretto, uscito quando su Roma era da poco scomparso l’incubo della morte, si avvertiva, dunque, sia pure con un certo disordine, il bisogno di ricostruire una vita nella quale potessero coesistere ogni ideale e il suo opposto, non come soluzione qualunquista ma come persuasione che – sul piano della storia – Dio e il diavolo, l’essere e il non essere, il morale e l’immorale, ecc. fossero parte di un tutto inscindibile….
…Sono, figlio mio caro, un italiano precocemente invecchiato, come tanti altri: forse molti.
....Cfr. post
....Cfr. post
(Puoi vedere anche altri Post, in questo Blog, relativi alla Galleria Civica “Giuseppe Sciortino” di Monreale e alla Donazione-Collezione delle opere d’arte da parte di E.N. Posabella)
Omaggio al Monrealese
ENZO ROSSI
Artista Puparo
BENEDETTO MESSINA
"BENEDETTO MESSINA,
PATRIARCA DELL'ARTE A MONREALE "
La Rocca di Gibilterra su un enorme pannello a mosaico disegnato da Hildreth Mejere per un edificio Prudential Insurance, è stato recentemente riscoperto in un deposito e trasferito al Museo di Newark
Simbolo di forza aziendale, originariamente il pannello del peso di due tonnellate, misurava metri 7 x 6, successivamente, per il trasporto e per farlo entrare dalla porta del Museo, circa 4 metri e mezzo x 4 perchè è stato necessario tagliarlo in due pezzi.
Il pannello di mosaico in marmo raffigura Ercole in vela oltre la Rocca di Gibilterra.
L'artista mosaicista Anthony D. Schiavo in un'intervista ha dichiarato di avere lavorato al montaggio originale Prudential con il progettista ed artista Hildreth Meiere http://www.hildrethmeiere.com (Art Deco) e conferma la collocazione definitiva nella nuova sede. Meiere era un tipo distinto, gentile, diplomatico e avventuroso. A partire dagli anni 1910, Meiere ha viaggiato per centinaia di commissioni presso uffici, case, edifici religiosi e governativi sparsi per Rhode Island a sud della California. Tanto intelligente, da lasciare liberi gli altri artisti che realizzavano le scogliere, le onde, tutta l'immagine.
La figlia Louise Meiere Dunn e la nipote Hildreth Dunn che gestisce l'Internazionale Hildreth Meiere Associazione a Stamford, Connecticut, hanno chiesto al Sig. Schiavo di contribuire a spostare le scaglie di marmo che aveva assemblati come un giovane artigiano a Long Island City, Queens, società denominata V. Foscato.
La lastra dapprima è stata presentata, sotto l'occhio vigile del Sig. Schiavo, in un parcheggio di fabbrica nella città nord del New Jersey.
Il marmo utilizzato è stato estratto dall'Irlanda, Italia, Belgio,Turchia ed era nei toni verde, viola, avorio, grigio. Il Sig. Schiavo a proposito dei colori ha fatto sapere che con un bagno di acido delicato e acqua ritornerebbero nuovamente lucidi come nuovi.
Catherine Coleman Brawer, uno storico che sta lavorando su una monografia Meiere con l'autore Kathleen Murphy Skolnik, in una recente intervista telefonica, ha fatto sapere di avere scoperto il diario di viaggio del 1933 con gli appunti relativi a Gibilterra. Note sulle impressioni suscitate da quel paesaggio che poi hanno ispirato il design Prudential.
The Rock of Gibratar, shown on a huge mosaic panel designed by Hildreth Meiére for a Prudential Insurance building, was recently rediscovered and moved to the Newark Museum.
..........
Dal diario di Meière appunti del suo viaggio attraverso lo stretto di Gibilterra:
A two marble mosaic depicting Hercules sailing past the Rock of Gibraltar has been donated to the Newark Museum, New Jersey and will go on view in a central courtyard later this month.
The mosaic is the work of Art Deco artist Hildreth Meière, commissioned by Prudential Life Insurance in Newark, it was one of her last pieces of work before her death in 1961. The New York artist most famous designs are the Art Deco plaques on the exterior wall of Radio City Music Hall.
Removed twenty years ago from the Prudential Insurance office it was rediscovered in storage, and according to the New York Times mosaic artist who worked on the original installation with the designer Anthony D. Schiavo has said that he hopes that in its new niche “no one’s going to remove it.”
SUMMIT MOSAIC ARTIST RESTORES TWO-TON MURAL HE CREATED 53 YEARS AGO
ENZO ROSSI
Artista Puparo
In quartiere Ciambra, nelle vicinanze della piazza Vittorio Emanuele II, sulla strada dove maestose si elevano le famosi absidi del Duomo, si trova il laboratorio dell'Artista puparo Enzo Rossi.
BENEDETTO MESSINA
(DAL CATALOGO REALIZZATO IN OCCASIONE DI UNA SUA ESPOSIZIONE ANTOLOGICA PRESSO LA CHIESA DEL SACRO CUORE, DICEMBRE 1997 - GENNAIO 1998 QUANDO L'ARTISTA ERA ANCORA IN VITA)
PATRIARCA DELL'ARTE A MONREALE "
a cura di Antonina Greco
A Monreale, nella bella cittadina normanna una volta piccola quanto un pagus medievale, ora estesa a dismisura oltre le monumentali postazioni dei conventi settecenteschi, Benedetto Messina fin dalla sua prima giovinezza è stato figura di rilievo nell'ambito dell'arte.
Ancora oggi il personaggio più noto nella sua dimensione patriarcale da una parte legata al ruolo propulsore del suo magistero; ma soprattutto a quella creatività estrosa, mai sfiorita, che trova soluzione nella pittura, nelle tecniche grafiche, nella scultura, nella decorazione ad affresco ed encausto; nella ceramica e nel mosaico. E perfino nella poesia dove l'artista libera il suo canto spontaneo alla gloria del Creatore, esternando quei sentimenti di religiosità che da sempre fanno parte della sua formazione umana; e della sua stessa visione d'artista. Alla ingenuità del cuore semplice Benedetto Messina aggiunge una volontà forte e caparbia quanto talvolta utopica. La stessa con la quale ha determinato le scelte della sua vita e in particolare la realizzazione dell'Istituto Statale d'Arte per il mosaico, del quale è stato ideatore e fondatore negli anni Settanta. Con l'intento di dotare Monreale di una struttura che ne caratterizzasse la cifra culturale: dal passato al presente; perpetuando la tradizione musiva come accadde a Ravenna e a Venezia. Una istituzione rivolta a configurare quell'artigianato artistico di qualità, destinato al turismo internazionale; ma soprattutto capace di produrre operatori qualificati quanto i musivi del passato, abili ad intervenire nel restauro dei mosaici antichi. E nella produzione di altri più moderni che seguono i più attuali linguaggi espressivi. Benedetto Messina ha sempre avvertito la sua profonda necessità di trasmettere quanto egli stesso ha acquisito con naturale trasporto e l'ha attuata nel tempo attraverso le strutture codificate della scuola, per un breve periodo di tempo accolta perfino nella sua stessa casa; o nella realizzazione di corsi regionali, provinciali e comunali a lui affidati, diurni e talora serali, aperti ai piccoli quanto agli adulti. E comunque a quanti dimostravano curiosità e interesse per quel mondo che è stato la sua stessa ragione di essere e che ha segnato tutta la sua vita. La grande occasione si presenta nel '55 quando viene aperto in cattedrale un corso di restauro voluto da Mons. Di Giovanni con il seguente assetto: al professore Francesco Bosco che è già stato un punto di riferimento per l'artista negli anni di studio al magistero, vien affidato l'incarico di docenza di disegno professionale; al professore Romano, mosaicista, la conduzione del corso pratico; al giovane Benedetto Messina l'insegnamento di disegno geometrico. di siffatta impostazione nase l'impianto primigenio della Scuola di mosaico alla quale ben presto si aggiungeranno i corsi per la ceramica promossi dal Sindaco La Commare. Con forte impegno campanilistico e non senza condivisione di un certo spirito da pioniere, dati i tempi. Il resto della storia è noto: la scuola nasce come sezione staccata dell'Istituto Statale d'Arte di Palermo. E qui molti di noi siamo stati chiamati a ricoprire incarichi di insegnamento, guardati con accondiscendente sufficienza dai colleghi più anziani dello Schiavuzzo. E perfino dal direttore M.M. Lazzaro, catanese, bella figura nella storia della scultura siciliana, ma certo distaccato dalle battaglie e talvolta dagli espedienti necessari a tenere in vita i corsi d'insegnamento a Monreale. La giovane generazione di artisti monrealesi in atto operante discende da questa situazione culturale e deve molto alla volontà di Benedetto Messina: un uomo capace di smuovere il mondo con la sua fede incrollabile, ora con un sorriso, ora con un detto evangelico. Talvolta con un atto di forza. Ed anche un maestro che al culmine della sua stessa maturità ha svolto compiti dialettici trasferiti ai più giovani attraverso incessanti stimoli. Oggi egli ricorda i suoi allievi: quelli che hanno frequentato la sua bottega e quelli divenuti talvolta collaboratori nella realizzazione delle opere più impegnative. Ritornano alcuni nomi alla sua memoria stanca e provata dal dolore per la morte di Antonella, la figlia che lo ha seguito più da vicino nello spazio dell'arte:
GLI ANNI DELLA FORMAZIONE
Questi stessi valori hanno guidato la vicenda umana ed artistica di Benedetto Messina. Fin dagli anni della fanciullezza quando, ancora bambino, sprimacciava tra le dita un lumino di cera e man mano che la materia diventava duttile e morbida le dava forma di bambinello; un gioco che era già una vocazione. Anzi un destino. E questo proseguiva con quei due soldi di polvere di creta in cui si convertiva l'obolo che la madre gli affidava ogni domenica mattina per la chiesa. A dieci anni, da autodidatta, inizia anche il suo approccio con i colori: un inizio inquieto per la stessa difficoltà a manipolare gli impasti. Una tecnica, anzi un mestiere che nessuno era disposto ad insegnargli; nè basta guardare un vecchio pittore monrealese per andare oltre il fascino di una attrazione magica e capziosa. Fallisce anche il tentativo di seguire la scuola serale di disegno tenuta senza troppa efficacia dal professore Di Piazza; e invece più praticamente matura la frequentazione della bottega di souvenirs del Signor Spinnato aperta nei locali a piano terra dell'accesso all'ex-convento dei Benedettini. Ancora di più serve guardare con occhio indagatore ai lavori di restauro dei mosaici che i fratelli Matranga stavano realizzando in quel tempo in cattedrale e nel chiostro. Con il maturare degli anni il ragazzo riesce a seguire sistematicamente le lezioni del Liceo Atistico di Palermo e a conseguire il diploma finale con il quale avrà accesso ai corsi di Magistero: un biennio di perfezionamento annesso all'Istituto Statale d'Arte.
Qui i suoi veri maestri e i primi incontri segnati: Alfonso Amorelli, Maria Grazia Di Giorgio e soprattutto Francesco Bosco.
Quest'ultimo in particolare gli permette di confrontarsi con la stessa disciplina del fare artistico che modera la esuberanza creativa: una lezione mai dimenticata di metodo, di contenuto pratico. E di scelte stilistiche. Nella continua curiosità che porta il giovane allievo a sperimentare nuove formule: quasi una sfida competitiva che si risolve intanto con l'accrescimento dell'esperienza. Ma ancor di più con la copiosa fertilità di quella produzione che si va configurando man mano in un gran numero di opere oggi disperse in molte collezioni pubbliche e private. Fin qui la preistoria dell'artista.
GLI ANNI QUARANTA
Il suo divenire documentato comincia a snodarsi negli anni Quaranta quando Benedetto Messina ha poco più di vent'anni.
In un contesto sociale e culturale caratterizzato dalle condizioni del dopoguerra; depauperamento delle strutture, fuga dei giovani, diaspora degli intellettuali. E ancora esaurimento delle istanze ideologiche di area idealistico-crociana, matrice del Novecento tradizionalista e rinascimentale nel suo spirito, celebrato già da Margherita Sarfatti. Cade l'illusione europeista; i giovani intellettuali, traditi nelle attese, si appartano per non vivere nel riflesso di una cultura di importazione che finisce per essere essa stessa colonizzazione culturale. Si rafforza la corrente realistica; nella letteratura come nell'arte e nel linguaggio figurato del cinema scorrono immagini di morfologia naturale. La scena della pittura palermitana in particolare, oltre che da Maria Grazia Di Giorgio e Alfonso Amorelli e Francesco Bosco che in qualche modo, come si è detto, hanno avuto più diretto rapporto con il giovane Messina, è popolata da altri artisti: Pippo Rizzo, Vittorio Corona e Giovanni Varvaro reduci dal dissolvimento dell'esperienza neo-futurista.
Eustachio Catalano, Michele Dixit, Nino Garajo, Lia Pasqualino Noto, Gianbecchina sono solo una parte; e naturalmente Renato Guttuso che presto sarebbe divenuto astro emergente di questa cultura artistica. Ma fuori dalla Sicilia.
Il 1947 è l'anno dell'eccidio di Portella delle Ginestre; il 1946 è l'anno delle leggi agrarie che rallentano la produzione del grano, vitale in Sicilia, e al contempo creano malcontento, difficoltà ai lavoratori della terra. E questi non riescono ad organizzare le cooperative nè a gestire il controllo delle acque. Nel vuoto della democrazia cresce il binomio mafia-potere politico. E con esso il prezzo del grano: è la crisi dell'economia. Più silenziosa ma altrettanto grave avanza la crisi delle ideologie.
Il nostro giovane artista si affaccia su questa realtà storica carico di speranza e di voglia di realizzazione. In una simile situazione sociale e morale un idealista, come lui è stato ed è, per l'arte può vivere ma in qualche modo con l'arte deve anche tentare di sopravvivere; nel rifiuto di più facili compromessi. Sicchè il panorama delle opere che di quegli anni rimangono è sparuto, quasi scarno: la maggior parte di esse disperse in investimenti quotidiani, maldestri e fortunosi. Oggi difficili da ricostruire. Alcune opere di pittura e di scultura che si sono conservate appaiono solide, già impostate sulle linee delle coordinate di linguaggio estetico che accompagneranno il lungo cammino dell'artista; e le sue stesse scelte di campo in ordine anche ai contenuti. L'uno e le altre vere e proprie promesse di sviluppi futuri che avverranno senza stravolgimenti: ancorate con saggezza istintiva alle forme della realtà. Visualizzate queste nella pianezza della essenza plastica anche quando si esprimono in condizione di stesura bidimensionale sul piano che accoglie il colore o del foglio sul quale vibra il disegno. E perfino nell'apparato prospettico dei piani che scompongono lo spazio figurativo fino a scandirne le più recondite identificazioni. Fede nella materia, nella realtà, nella natura secondo la tradizione umanistica dell'arte italiana da Giotto in poi, rapportata ai due punti di fondamentale riferimento: spazio e tempo intesi come categorie aprioristiche. Dell'esistenza e della coscienza dell'infinito. Uno sguardo virtuale al grande Rinascimento, quanto basta per capirne il significato neoplatonico di etica, noetica, estetica. Tre momenti sublimati da quell'Idea che trapassa dal mondo pagano classico a quello cristiano: da Platone a Plotino. Nei contenuti figurali e nella loro esplicitazione formale affiora la stessa essenza del pensiero: la religio hominis, unico sentimento religioso oggi possibile. Quello che viene in soccorso all'uomo moderno ormai lontano dal misticismo irragionevole del Medioevo quanto dalla più arcana pietas; lo stesso che passa attraverso la metafora senza negarla, anzi con consapevole coinvolgimento della sua essenza. In noi e fuori di noi. La via che può portare alla sublimazione della intelligenza e dello spirito si snoda attraverso i territori del Logos e dell'Ethos. Fino a riconvertire il tracciato di questo percorso in un approdo estremo: la religio dei. Ieri conquistata con la mortificazione della carne e dei sensi; oggi intesa nella pienezza della sua intrinseca identità. Della materia fisica e dello spirito metafisico che la trascende. Resta remoto il rumore delle avanguardie rifiorenti nelle culture del disagio storico di quel tempo: prevale la tendenza a ripetere l'atto creativo, rivelatore a sua volta della divina creazione della natura. E l'artista la persegue con costanza e con coerenza mai cedendo alle lusinghe degli sperimentalismi a-figurativi nei quali riscontra il tratto di ideologie diverse dalla propria. Benedetto Messina fin da quegli anni opera nell'ambito di alcuni generi tematici: il sacro, la natura viva e morta, il ritratto, il paesaggio. Un mondo a immagine e somiglianza di Dio dove non mancano complementi di virtù e piacevolezza come nell'edenica visione di un paradiso terrestre. E la ricerca del decor, dell'ornamento è intesa come complemento dell'esistenza umana e pertanto come dono di Dio. Ogni atto, in questa logica, è concepito come valore etico: e perfino l'arte rientra nella visione del bene universale che è Dio stesso. All'interno di essa Benedetto Messina si muove con una naturale scioltezza e opera secondo un dettato che è naturale e soprannaturale al tempo stesso. Nella pittura così come nella scultura egli ama raccontare quando riferisce episodi che appartengono alla verità rivelata. E raccontando Benedetto Messina racconta se stesso, in una continua identificazione di oggetto e soggetto: non solo quando si rappresenta nell'autoritratto ad olio, tema ricorrente nella sua pittura. Anche quando raffigura il paesaggio di San Martino, ancora leggibile, la Conca d'oro tutta verde prima che il tempo più recente del benessere la riempisse di cemento; o trance de vie come nel cortile Barettiere scena della vita quotidiana del popolo. E ancora quando dipinge i due allievi intenti ad un serioso studio della geografia, o quando scolpisce una radice di cipresso raffigurando con sovrumana potenza il volto di Dio che scende per venire in seno ad Abramo. Fremente ed esagitato nell'espressione e nella chioma. Tanti particolari già connotano e definiscono questa produzione artistica che si svolgerà senza notevoli cambiamenti negli anni successivi. In una continua professione di fedeltà alle scelte; la stessa che allontana le tentazioni trasgressive e tende a recuperare il mito di ieri e di oggi nella natura. E attraverso la natura arriva a Dio. Una poetica riproposta di volta in volta mediante quella fenomenologia che si fa stile intessuto di linee, di colori, di volumi. Natura amata, ricercata, vegheggiata. Natura studiata nell'innesto delle sue coordinate di significati, di figurazioni e di forme che la fanno risaltare con ruolo di protagonista.
GLI ANNI CINQUANTA
Il decennio degli anni Cinquanta per Benedetto Messina si apre con la ferma convinzione di chi ha trovato le proprie certezze e vuole trasmetterle agli altri. Il legame tra la realtà e l'artista ora si fa ancora più penetrato con una ricerca tuttavia incessante. Egli lo persegue attraverso un gruppo di disegni tutti vicini nel tempo che si pongono con valore funzionale in questo momento del suo percorso.
Studio di mani a matita grassa, studio dal vero a matite colorate dello stesso periodo, uno studio per un apostolo, praticamente il ritratto del padre, con pastello e acquarello; un disegno a pennarello raffigurante un allievo nel laboratorio in varie pose e in vari particolari. Questi lavori insistono tutti sul tema dell'analisi della realtà più che sulla sua trasfigurazione; Ricorre in essi la tipologia di <studio> ora in bianco e nero, ora a colori. Uno spaccato dal vero sperimentato e assunto come unica possibilità espressiva e reificato nel '58 in una maternità dipinta ad olio dove intervengono anche gestualità e sentimento a completare con note soggettive l'oggettività di un episodio. L'artista ora approfondisce lo studio del ritratto con l'intenzione certo di penetrare più a fondo entro le stratigrafie dell'animo umano. A cominciare da se stesso attraverso due momenti di riflessione resi in due autoritratti che si succedono a breve distanza: uno è del '50, l'altro del '54. Nel primo si avverte l'esigenza di ambientare la figura in un contesto rappresentato da quinte architettoniche che gradatamente rientrano verso il fondo lasciando emergere in questa cornice scenografica la mezza figura lievemente di scorcio. Quasi assorbita dai piani retrostanti e tuttavia immersa in un raccoglimento contempltivo: senza nessuna distrazione di elementi naturalistici: la auto-rappresentazione del '54 è già diversa: uno scorcio più vibrante sgancia la testa dal collo e dal busto, al movimento più risentito fa riscontro a sua volta una più risentita plasticità di colore, quasi modellato nella sua corposità materica che rende la figura vibrante di umori vitali. Interviene la componente psicologica, elemento irrinunciabile nella visione dell'artista; essa serve a rafforzare la profondità dell'espressione. Lo sguardo limpido lascia trasparire una serena interiorità in armonia di dialogo con la intensa e al contempo autentica misura del dipinto. Quanto rimane sotteso è affidato alla presenza allusiva di quei pennelli che compaiono discreti in basso a destra. La stessa concezione volumetrica si avverte in opere di diverso tema rese con uguale concrezione di colore: steso talvolta con la spatola nel paesaggio di Pizzo Calabro ricorrente in una molteplicità di visuali. Soprattutto in quello scorcio del paese dove le masse delle case rurali si giustappongono con un'articolata cubatura, sapientemente esaltate dalle ombre e dai fasci di luce che le lambiscono: ancora una qualificazione della materia ora resa nella sua struttura architettonica che si espande virtualmente in una dimensione stereometrica scomposta e ricomposta secondo la lezione cubista interpretata da Pierre Francastel come naissance et destruction d'un espace plastique.
Essa è presente in molte opere dell'artista: e non solo in quelle che appartengono a questo momento della sua produzione. La sorregge una organicità vitale che è in ogni espressione appartenente alla realtà figurativa; e parallelamente alla stessa natura. Nella realtà e nella finzione pittorica viva più che mai anche se è catalogata convenzionalmente sotto le sembianze di una ingiusta classificazione di genere: natura morta con pesci, pesce verde.
E riduttiva perchè essa stessa è emanazione della condizione spirituale e psicologica dell'artista, del suo entusiasmo, della gioia di vivere incessante, di quella serenità della coscienza cristiana che imprimono vita alla materia e permettono di ripetere, rinnovandolo, l'atto creativo. Così come l'adesione alla vita della natura è inno al Creatore. E la stessa esaltazione pantestica di ogni elemento che della stessa natura è parte diventa rivelazione che attinge a verità dogmatiche: nella sua essenza duale di teologia e di arte.
GLI ANNI SESSANTA
La produzione degli anni sessanta è per Benedetto Messina il raggiungimento della sua maturazione che trova riscontro nella qualità oltre che nello spessore qualitativo delle opere realizzate in quel decennio; e in quelli successivi: E' come se le precedenti ammissioni fossero pervenute ad una compiutezza totale che ha superato le attese ed ha conquistato la sua verità: un approdo che è l'aspirazione dell'uomo stesso. Ulisse, il mito, il ritorno alla piccola Itaca, a quella terra d'origine che è in ognuno di noi con le sue promesse e le sue rassicuranti verità. L'artista la raggiunge e la manifesta con una intrinseca volontà di approfondire il suo messaggio. E da qui si muove oltre. Le tematiche si intrecciano. A quelle già praticate e ricorrenti nella pittura si aggioungono ora gli oggetti ornamentali, i pannelli a mosaico, complementi dell'arredamento dell'habitat dell'uomo. Espressioni d'arte cosiddetta minore, che entrano nella ferialità della vita quotidiana. E perfino nel palazzo imperiale di GiaKarta; avventurosamente come il tavolo mosaicato, realizzato per Sukarno. O più dimessamente quei piccoli vasi con paladini, in ceramica dipinta o modellati a rilievo. Ancora un percorso che raccoglie la capacità dell'artista di dominare e trasformare la materia mediante la forza della sua inventiva; e con quella pratica della cultura dell'ornamentazione che è complemento estetico della esistenza umana. Tale metamorfosi si attua al di fuori dei parametri tecnologici che attraversano la società di oggi; e viene a compiersi attraverso un medium virtuale che è la forma e la congeniale possibilità dell'artista di modificarla. Nel panorama di una vita attraversata da idealità che produce oggetti estetici definiti in maniera cinica oggetti inutili dalle leggi del mercato contro gli oggetti funzionali e pertanto utili secondo la logica del potere economico. Ma siffatti ragionamenti possono interessare il campo della sociologia dell'arte, non certo quello della visione di Benedetto Messina che quando assembla vetri colorati e cemento per dare vita ad una inconsueta lampada non pensa alla possibilità di trasformare l'oggetto d'arte in oggetto d'uso e alla sua implicita possibilità di essere riprodotta in serie per obbedire al rapporto di offerta e consumo. La lampada rimane lì, vagamente costruttivista nella sua connessione di volumi, vagamente antropomorfa. Sicuramente unico esemplare a metà tra una scultura e un oggetto, destnata ad adornare: così come i piani mosaicati di gusto floreale, il piatto di ceramica che ha inglobato i chiodi nella fusione degli smalti, i vetri piombati e dipinti, i molti modellini che riproducono in gesso, in terracotta e in polistirolo la statua del Tritone di Rutelli. Divagazioni nate per curiosità e realizzate per divertimento.
Una breve esegesi delle opere indagate e lette nella loro essenza unitaria permette di rilevare alcuni dati comuni relativi al colore: pur rimanendo invariate sia la funzione che la espressione che esso riveste sembra evidenziarsi un movimento all'interno delle masse cromatiche e della loro stessa corporeità che risulta alleggerita e più levitante; senza tuttavia arrivare allo sfaldamento della materia pittorica o dell'immagine. E' come se nella pittura di questi anni si avviasse un processo interno al colore che perde la sua compatta concrezione per acquistare maggiore luminosità; e leggerezza nella pennellata. Le stesse nature morte si fanno più complesse: complicano la loro composizione includendo oggetti vari ed usuali. Per esempio una rivista. O un colombo imbalsamato che fa vibrare il dipinto con i colpi delle sue ali spiegate e con il colore latteo delle sue piume schiarisce i toni cupi del piano di fondo: una natura morta nella natura morta. ma la vita alita oltre; al di là di questa apparenza. Altrettanta luce modella la composizione di fichidindia e fichi nostrani adagiati in naturale disordine sui pampini desinenti in un drappo rosso: essa si sviluppa attorno ad una lucerna con vigorosa articolazione plastico-luministica che accentua l'artificio innaturale nonostante l'uso di elementi naturali. Questa, del resto, è l'essenza stessa della natura morta come genere storico e figurativo che discende dalla Naturalis Historia di Plinio, attraversa tutto il mondo occidentale passando per Caravaggio e per i fiamminghi maestri fin dal XVII secolo dell'Orbis Sensualium Pictus. Un genere pittorico che illustra il mondo sensibile esplorato in orizzantale: "...delle cento membra e cento facce che ogni cosa ha, io prendo ora a lambirne una ..." (dagli Essais di Michel De Montaigne). E viene già attraverso l'attenta grazia femminile di Fede Galizia che infiora i suoi cesti di frutta con gusto tipicamente lombardo; o ancora attraverso Panfilo Nuvolone e Salvator Rosa. E De Chirico nel nostro tempo, anch'egli maestro nella barocca rappresentazione di una natura in posa: lussureggiante, ma immersa nel silenzio, senza azione. E a scena vuota, come impone ogni capitolo della cosiddetta forma vera. La ricerca di Benedetto Messina prosegue con note di diversa combinazione della realtà figurata: ora i fiori recisi e con essi uno scorcio di paesaggio in un angolo del quadro dipinti con più libera mescolanza di pennellate di verde e di azzurro; qua e là tracce di rosso sangue. A malapena l'orizzonte riesce a separare la terra dal cielo. Lo studio dell'ambiente naturale continua nel paesaggio di Monreale da via Regione Siciliana, nella veduta della Madonna delle Croci che scende a gradoni con le sue masse architettoniche lungo il pendio di Monte Caputo. Ritorna un paesaggio di Pizzo Calabro. Luoghi noti, vagheggiati e raccontati mediante un colore disteso a masse più larghe e più instabili, attraversato da fremiti di luce ora più vistosi e invadenti. Dal paesaggio alle figure di colombi, un olio reso a spatola premiato a Francavilla Mare per il suo vibrante luminismo che diventa plastico e per la naturalità della rappresentazione che ne esalta l'essenza vitale. O nelle immagini vicine per ispirazione e rappresentazione dello scout suonatore di flauto e dello scout chitarrista. Entrambe ambientate in un campo verde all'aria aperta piena di luce e di sole, abilmente articolata nei contrasti della luce e sulle ombre della figura stessa. E questa emerge da una invisibile griglia di piani prospettici; gli stessi che costituiscono lo spazio secondo quelle teorie razionali che nel diuturno insegnamento di disegno geometrico Benedetto Messina trasmette ai suoi allievi nei corsi dell'Istituto d'Arte. Cimentandosi egli stesso in una sperimentazione che applica questi metodi speculativi perfino alla materia da scolpire: la proiezione ortogonale applicata alla scultura. Il pastorello va ad aggiungersi alle due figure precedenti nello stesso spirito georgico e bucolico allietato da una dilatante visione solare en plein air. Secondo la migliore tradizione pittorica mediterranea: la stessa che discende dalla lezione di Cèzanne, sulla linea dell'Impressionismo storico. Alla maturità dell'Artista corrisponde ora la maturità dell'uomo, la sua affermazione professionale, l'insegnamento, la famiglia. Compaiono i ritratti dei figli, Ottavio ed Antonella due testine modellate al vero aprono una serie che si concluderà con Patrizia, Tiziana e Fausto. la materia duttile alla lavorazione è trattata con abilità e competenza tecnica pari alla freschezza di tocco. E con quella sensibilità tattile riflesso della stessa capacità di cogliere il sentimento. Su questi fattori riposa la ricerca del ritratto già avviata negli anni precedenti e ora ripresa con aperta attenzione alla psicologia e naturalmente alla connotazione fisionomica che cattura il carattere individuale e l'atteggiamento naturale come è tipico soprattutto nella rappresentazione infantile: talvolta aggraziato in Tiziana e Patrizia, pensieroso in Ottavio, più spensierato in Fausto. Assorta già nel suo mistero Antonella, in una situazione sospesa tra naturalismo e realismo. Ben diversa è l'interpretazione del volto di Cristo dipinto su maiolica nella versione sofferta della passione; e in quella più serafica del Dio-uomo. In mancanza del prototipo da ripetere nella cognizione della realtà l'artista spigola ora nel campo della trasfigurazione del volto dell'uomo e ripropone l'immagine consueta e rassicurante. Ricalca la iconografia tradizionale insistendo su di una visione intensa anche per l'apporto del suo personale sentimento: e dei significati che soggettivamente l'artista ama attribuire alla sacralità. L'effigie riposa su tonalità sommesse e fredde, talora cariche del livore della sofferenza. in entrambe le immagini domina una silente attesa che è contemplazione. Forse preghiera. In altre situazioni del sacro il tema sviluppa episodi biblici o evangelici: Giuditta ed Oloferne, il Battesimo di Gesù, il Buon Samaritano. In questi tre dipinti torna a riproporsi la tendenza al racconto; ma senza compiacimento. L'elemento narrativo infatti è espresso attraverso l'annotazione pretestuale di alcuni particolari insoliti, che appartengono soltanto alla fantasia creativa di Messina. Così la rosa che Giuditta impugna con la stessa mano armata di spada è un gesto vago e gentile in una scena di morte e di violenza; quasi ad esorcizzare la truculenta crudezza. Il coro degli angeli volteggia tra cielo e terra come una girandola e compone armonie di colori e di suoni nel vuoto tra le rocce; e queste degradano come quinte sullo sfondo della scena del Battesimo di Gesù chiudendo il tema soprannaturale entro connotazioni fisiche e veritiere di quel paesaggio che è lo spazio dell'umanità...
Il paesaggio crestato di torri e di alberi collega territori diversi: il verde della campagna e il colore croco del cielo si configurano in un degradare di tonalità dal giallo al rosso; all'azzurro del tramonto. Queste linee compositive accompagnano quelle della scena del samaritano che si incurva sul pellegrino morente e ne solleva le membra con un ritmo di arsi e di tesi che conclude un giro di corpi in primo piano. In siffatta esemplare lezione di composizione del dipinto i due corpi assecondano i motivi curvilinei del contrapposto e chiudono l'assetto circolare della disposizione dei volumi reso ancora più leggibile e raforzato dalla presenza del cavallo disposto parallelamente alle linee direttrici della composizione. Il ritmo cadenzato e mesto richiama il compianto giottesco a Padova scandito dal ductus rotto della disposizione degli angeli tra il cielo e terra: con la sequenza di un singhiozzo. In un andamento lontanante che si intravvede fino alla linea d'orizzonte. Al raccoglimento della morte, dolente e malinconico, si contrappone il pulsare della vita nella gioiosa esplosione della predica agli uccelli: una piccola terracotta che si regge con un impianto a ritmo aperto. San Francesco allarga le braccia in un gesto simbolico di accoglienza di tutte le creature. E gli uccelli si raccolgono intorno a lui: si posano rapiti sulla base o svolazzano sui rami spogli di un albero; propongono l'armonia di un cantico antico e nuovo. In consonanza con la serena letizia francescana la ricerca di Benedetto Messina continua senza segni di stanchezza e senza le perplessità di quegli artisti che spesso incorrono in periodi di crisi, si interrogano inquieti, talvolta si smarriscono in sentieri alieni che percorrono territori indecifrabili. Egli avanza nel suo itinerario con coerente perseveranza di scelte. Appagato ripete il suo atto creativo e si abbandona sereno ad operare ancora sulle linee primigenie, in direzione monodica della natura mai messa in discussione.
GLI ANNI SETTANTA
Nel segno di questi raggiungimenti si apre il decennio degli anni Settanta che gli permette di rivisitare i temi ormai consueti della sua ispirazione; e di esprimerli con varie articolazioni di tecniche e di materiali: in un esercizio tecnico che include tutte le pratiche dell'arte come in una antica bottega del Medioevo. Non mancano le committenze pubbliche e gli interventi nelle chiese che si adeguano al dettato della nuova liturgia: raffigurazioni iconografiche e ornamentali distese su vaste superfici. A questi impegni che si aggiungono alla produzione destinata a soddisfare la committenza privata di dipinti, vetrate e pannelli musivi con temi prestabiliti fanno riscontro episodi di più libera fantasia. Come quella festa della frutta che celebra in maniera inconsueta il tema della natura morta ora composta in un bel cesto che naviga sulle onde del mare come una barca, coronata da un girotondo di fanciulle danzanti: una visione gioiosa quanto improbabile, libera da schemi di contenuto. E di significato. Altre nature morte in questi stessi anni, fiori e frutta dai vividi colori, decorativi paesaggi dal vero: scorci di mare, scogli, montagne che scendono a picco, case. La realtà immaginata e la realtà reale si confrontano in questi quadri e perdono i loro confini nei dipinti di contenuto religioso; piccoli e di implicita simbologia come l'agnello in cerca del pastore o Gesù e i fratelli; o più grandi come quelli che si accampano nella profondità degli spazi delle chiese: la Cena di Emmaus. Più emozionato lo scorcio del Crocifisso, dipinto ad olio, visto dal sotto in su con spericolata audacia prospettica e con coinvolgimento di sentimenti. Nel ricordo di quel Cristo morto di Brera del Mantegna, dove la coscienza conoscitiva e morale si incontra con le possibilità dell'immaginario e con il virtuosismo prospettico. Lo stesso potenziale immaginifico ricorre con accenti apertamente decorativi nella composizione di tre episodi del Vangelo allineati in una sequenza verticale; insolita nella successione e nella intonazione quasi fiabesca del racconto. Dal sacro al profano: la pittura di Benedetto messina registra ancora battute miliari. Le figure di suonatori calabresi appartengono ad una pittura di genere che ricalca le situazioni anche effimere nel quotidiano senza toccare significati che vanno al di là dell'episodio figurato. Più astruse invece le allegorie che raffigurano il silenzio, il dio quattrino, la storia della musica: qui manca quella felicità cromatica ricorrente nelle immagini dov'è presente la natura o dove il tema più libero e non didattico come in questi casi coinvolge in prima persona l'artista e i suoi affetti. Un ulteriore autoritratto e mia madre sono più di un ritratto fisionomico: due figure tracciate ancora con una pennellata solida che fa i conti con la monumentalità della figura fisica e della figura morale. Al di là di ogni dimensione reale. E la concrezione della luce ne esalta i contenuti messi a nudo da una inesorabile volontà di introspezione. Nell'autoritratto l'artista scava per primo nella sua coscienza e si descrive nelle sue fattezze e nella sua stessa interiorità: come è o come vorrebbe essere. Nella rappresentazione della madre è traslato il significato che la figura stessa riveste nella solidità, nell'operoso atteggiamento, nel severo raccoglimento delle palpebre abbassate. Nella sua essenza e nei suoi complementi si identifica l'immagine della mater matuta, da sempre matrice della vita. Provvida e responsabile nell'immanenza stessa del ruolo e delle forme figurali.Ai limiti della sua sacralità umana e divina; pagana e cristiana. L'alba vista dal mio terrazzo e musica sacra a Monreale, sono due opere diverse da quelle finora considerate, accomunate dall'evanescenza dell'immagine sospesa tra realtà e irrealtà. la figura perde i suoi confini definiti e si espande smaterializzata nel suo tessuto cromatico; fino ad una virtuale astrazione che non ne cancella tuttavia la identità leggibile. Come nella Cattedrale di Claude Monet la pittura si fa impressione che tende ad abbattere la realtà oggettiva per avvolgerla di velature: nel colore e nella stessa memoria soggettiva. Quasi una evocazione poetica carica di suggestioni ora sfumate ed evanescenti, ora più intense. Questo fenomeno nella pittura di Benedetto Messina non è nuovo: riprende ed accentua un motivo che abbiamo riscontrato in taluni paesaggi attorno al '65. E contiene comunque possibili premesse di nuovi sviluppi negli anni futuri.
DAGLI ANNI OTTANTA...
Quanto avviene negli anni successivi nella produzione di Benedetto Messina è legato di più alla scultura praticata ora con continuità e convinzione: come agli inizi della sua attività. L'artista sviluppa gli stessi presupposti figurativi sempre presenti nel suo lungo cammino con la coerente fedeltà di chi vuole essere inattuale per scelta. Episodi plastici misurati nella dimensione fisica e nell'interpretazione del soggetto raffigurato: una trasposizione quasi naturale che va dalla pittura intesa nella sua essenza di materia -colore alla scultura vera e propria. Bronzi e terracotte riprendono i temi precedenti; e persino il polistirolo, una più recente e sorprendente scoperta dell'artista, anche negli anni più maturi curioso indagatore pronto a recepire novità tecniche e assimilarle al suo linguaggi espressivo. E la verità di natura è sentita e rappresentata anche qui con confidenziale semplicità; senza il peso della retorica monumentale. Nelle opere di più grande dimensione e ancora di più nelle piccole sculture. Il bronzo del nipotino che legge così come il suonatore accovacciato sulla colonna adornata di foglie privilegiano i ritmi garbati che si concludono entro lo spazio della figura; e nonostante l'atteggiamento usuale anche quella sobrietà espressiva che non ne sminuisce le caratteristiche infantili. Come già nelle teste dei figli di alcuni anni precedenti. Altrettanto delicato è il modellato delle tre grazie raccolte in un gruppo di piccole teste infiorate sui capelli: una terracotta maiolicata che nella duttilità della materia cattura la sensibilità tattile dell'artista e la sua congenita visione pittorica che affiora nella tendenza a rendere sfumate quasi coloristicamente le superfici. Il motivo floreale che le adorna e completa ricorre anche nella decorazione della cariatide di polistirolo; solida e compatta nella sua evidenza volumetrica, in contrasto con la consistenza della materia stessa. La maternità in bronzo vive nella stessa composizione del S. Giovanni Bosco: due gruppi scultorei diversi per dimensioni ma concepiti secondo un'analoga configurazione che raccoglie e chiude come in un abbraccio le figure piccole attorno a quella principale. Il giovane volto della Madonnina in terracotta si pone idelamente vicino alle testine precedenti: una misurata idea di bellezza che riposa sui segni modesti e aggraziati della virtù. I tratti fisionomici della testa in bronzo dell''800 riproducono il volto di Tonino Schiavo: un giovane allievo e collaboratore dell'artista, ora in America e perciò reso secondo l'immagine restituita dalla memoria. E tuttavia nel realismo della figura ancora una volta Messina coglie la somiglianza fisica del personaggio; e va oltrwe quando lascia leggere i particolari più spiccati della sua personalità. Come è caratteristica ricorrente negli altri ritratti. Anche i tre crocifissi costituiscono un trittico di virtuali ritratti anch'essi realizzati come tre teste in bronzo senza il supporto della iconografia tradizionale. Benedetto Messina li ha voluti modellare come li ha immaginati traendone le connotazioni morali dalla lettura evangelica e dando ad esse forma fisica: ancora una ipotesi di racconto che culmina nella sacrale testa di Cristo. Tra soferenza e rassegnazione. Più severo e imponente il busto del Cristo, un bronzo di più grandi dimensioni; composto nella sobria maestosità della sua immagine. Esso grandeggia immutabile e grave, nel ricordo del Pantocreatore che domina lo spazio della navata della cattedrale e al contempo le sorti dell'umanità: giudice e Padre. Ieri come oggi nella sua configurata immagine di eternità.
POST-FAZIONE
Un breve excursus in un lungo percorso di pensiero, di preghiera, di operosità fattiva per tracciare le linee essenziali della individualità di Benedetto Messina uomo e artista. E la organicità di un divenire nell'arte che scorre con cadenza costante di tempi e di modi. Diagrammi umani, diagrammi del paesaggio: volti segnati, terre ora arse, ora verdi. Lembi di mare azzurro, rocce grigie. E' il paesaggio siciliano, del territorio e della gente stessa; il paesaggio dove ogni cosa secondo Quasimodo, è più forte dell'uomo. Qui la dicotomia tra materia e spirito si risolve nell'abitare la stessa architettura della natura; in una sintesi che include l'uomo nelle sue implicazioni; e anche ciò che si configura come <altro dall'uomo>. Ieri come oggi in un contesto naturale. E di più rarefatta spiritualità. E' un destino di profonda umanità che evita parimenti l'artificio e l'allusione di ciò che può diventare mistificazione della realtà, della natura, del creato. Umanità che non sente le seduzioni di una altrove culturale. Creature appagate del loro dominio di mediterraneità; e ancora di più della pienezza di essere nella condizione che Sciascia amava definire "sicilitudine". Di quell'arcaismo greco monumentale e immanente che passa dall'architettura del tempio alla tettonica del paesaggio. E singolarmente nella figura del S. Sebastiano di Antonello da Messina: " nelle curve liminali del suo corpo... nell'astrattezza del volume che va situandosi egualmente raggiato e trasfigura la vita stendendo le spire e gli avvallamenti della forma spianando le valli corporee o sgusciandole con tal nettezza che il vuoto rivalga il pieno... mentre all'intorno, i simboli di questa assolutezza formale, sfera del Cristo, rocchi di colonne consigliano all'umanità di ridursi a forma migliore" (Roberto Longhi). E attraversa molti altri episodi figurali e ideologici dell'umanesimo quattrocentesco e delle culture che ad esso fanno riferimento; anche nella storia più recente. Per arrivare compatto nella sua essenza fino alla trasfigurazione cubista dove spazio e oggetto interagiscono dialetticamente trasferendo il dualismo tradizionale della cultura artistica occidentale alla struttura logica della realtà stessa. Nella sintesi di valore idealistico e valore cognitivo; e in quel corrispettivo estetico che secondo Giulio Carlo Argan, identifica nella luce la sostanza spaziale che la rivela. La accompagna la capacità dell'homo faber aperto al nuovo, consapevole di tutte le tecniche, rivolto ad uno slancio costruttivo che mette in opera la progettualità ideale dell'homo ludens; e la attua concretamente. Ecco come spiegare nell'arte di Benedetto Messina la molteplicità delle tecniche usate, la varietà dei canali dai quali discende una materia che impone di volta in volta diversi metodi di lavorazione. E ancora il colore corposo, materico, spatolato spesso: esso stesso medium virtuale tra scultura e pittura. Modellare per "via di mettere" e per "via di tòrre". Mosaicare in maniera diligente, con attenzione e pazienza; trasformare la terracotta in ceramica. E qua e là usare il disegno e le tecniche grafiche: disegno funzionale, disegno come studio, disegno come strumento di didattica. Disegno come progetto e ricerca nella sua duplice essenza di tracciato della mano, ma anche della coscienza e della memoria. Una lezione complessa che discende dalle antiche botteghe del passato e va verso le soluzioni filosofali e tecnologiche del futuro. su queste linee posa e ri-posa il pensiero e l'arte di Benedetto Messina. Nella sua casa della Carrubella, a ridosso del muro antico del Tiro a segno, l'artista vive e opera circondato da un disordine ragionato:che è il suo stesso modo di essere. Gli spazi dell'arte sconfinano con reciproca mutuazione negli spazi della vita. i giardinetti pensili, le pareti i mobili si lasciano invadere da una suppellettile inconsueta. Qua e là occhieggia una delle almeno dieci copie del Tritone realizzate in una varietà di materiali e di dimensioni; cartoni, mosaici, cavalletti,; reperti raccolti nel tempo. Con immutato entusiasmo; con tensione e con slancio che dà senso allo scorrere della vita. E con quell'indomito ottimismo che è la sua forza anche nei momenti peggiori quando con serenità di spirito tralascia gli abbattimenti e si rivolge a Dio lodandolo. Qui tra le testimonianze delle tante opere già compiute abbiamo riscontrato quattro dipinti insolitamente incompiuti che rappresentano singolarmente le quattro stagioni con accenti di più elegiaca poeticità. Non ancora fissati nella ultima definizione figurale, ma quanto basta leggibili per cogliere le annotazioni particolari; e dell'insieme. Vi affiora la sintesi delle esperienze passate l'incertezza del non finito, la rivisitazione di alcuni luoghi del fare dell'artista che ritornano spontanei e insistenti e forse inconsapevolmente il dialogo che l'artista ricompone con la sua vita entro i confini umani del tempo. Con qualche accento autobiografico. Nella rappresentazione dell'estate sembra di intravedere la vigorosa figura di Giuditta, come nelle macchie del cielo dell'autunno ritorna l'impressione sfumata e malinconica dell'alba dal terrazzo. La primavera affiora contro un cielo dove volteggiano gli uccelli ad ali spiegate come gli angeli del battesimo di Gesù; e nell'inverno si affaccia la solitudine smarrita di quelle allegorie dipinte senza la confortante e gioiosa presenza di elementi naturalistici. Dall'immagine raffigurata al simbolo significato: il volgere incessante del tempo nel susseguirsi delle stagioni. In una continuità senza principio e senza fine: come l'eternità. Benedetto Messina la rappresenta e la interpreta nella ricomposizione delle sue parti senza la dialettica degli opposti michelangioleschi dialogati nel Fedone platonico e poi ripetuti nel neoplatonismo rinascimentale. Piuttosto collegando i frammenti di ciò che è transeunte a ciò che è eterno, universale, cosmico. Come nelle tessere di un mosaico ideale; ripetendo il gesto familiare di una pratica quotidiana. Traccia un sentiero che ancora una volta si inerpica dall'umano al divino con quella cifra espressiva che è della sua anima e della mente: congiuntamente rivolte entrambe alla visione dell'assoluto. E approda al mitema primigenio della natura come immagine stessa di verità rivelata; ricomponendo il dissidio tra il mondo pagano e il mondo cristiano.
Calogero Gambino, Giovanni Leto, Giovanni Randazzo, Angelo Cangemi, Antonino Pedone, Saverio Terruso, Sergio Mammina, Franco Nocera, Sebastiano Guercio, Guido Irosa, Pietro Villanti, Pino Anselmo, Enzo Mercurio, Salvo Arena, Enzo Aricò, Emilio Matera, Roberto Bruno, Rosario Madonia, Giampiero Virga, Toni Castellese e quanti altri è impossibile fare rientrare in questa citazione, altrettanto vicini alla sua affettuosa attenzione. Tutti educati nel rispetto dell'arte e nel suo segno dominante che è l'autenticità della ricerca e della espressione; e ancora volontà di affermazione.
CfrGLI ANNI DELLA FORMAZIONE
Questi stessi valori hanno guidato la vicenda umana ed artistica di Benedetto Messina. Fin dagli anni della fanciullezza quando, ancora bambino, sprimacciava tra le dita un lumino di cera e man mano che la materia diventava duttile e morbida le dava forma di bambinello; un gioco che era già una vocazione. Anzi un destino. E questo proseguiva con quei due soldi di polvere di creta in cui si convertiva l'obolo che la madre gli affidava ogni domenica mattina per la chiesa. A dieci anni, da autodidatta, inizia anche il suo approccio con i colori: un inizio inquieto per la stessa difficoltà a manipolare gli impasti. Una tecnica, anzi un mestiere che nessuno era disposto ad insegnargli; nè basta guardare un vecchio pittore monrealese per andare oltre il fascino di una attrazione magica e capziosa. Fallisce anche il tentativo di seguire la scuola serale di disegno tenuta senza troppa efficacia dal professore Di Piazza; e invece più praticamente matura la frequentazione della bottega di souvenirs del Signor Spinnato aperta nei locali a piano terra dell'accesso all'ex-convento dei Benedettini. Ancora di più serve guardare con occhio indagatore ai lavori di restauro dei mosaici che i fratelli Matranga stavano realizzando in quel tempo in cattedrale e nel chiostro. Con il maturare degli anni il ragazzo riesce a seguire sistematicamente le lezioni del Liceo Atistico di Palermo e a conseguire il diploma finale con il quale avrà accesso ai corsi di Magistero: un biennio di perfezionamento annesso all'Istituto Statale d'Arte.
Qui i suoi veri maestri e i primi incontri segnati: Alfonso Amorelli, Maria Grazia Di Giorgio e soprattutto Francesco Bosco.
Quest'ultimo in particolare gli permette di confrontarsi con la stessa disciplina del fare artistico che modera la esuberanza creativa: una lezione mai dimenticata di metodo, di contenuto pratico. E di scelte stilistiche. Nella continua curiosità che porta il giovane allievo a sperimentare nuove formule: quasi una sfida competitiva che si risolve intanto con l'accrescimento dell'esperienza. Ma ancor di più con la copiosa fertilità di quella produzione che si va configurando man mano in un gran numero di opere oggi disperse in molte collezioni pubbliche e private. Fin qui la preistoria dell'artista.
GLI ANNI QUARANTA
Il suo divenire documentato comincia a snodarsi negli anni Quaranta quando Benedetto Messina ha poco più di vent'anni.
In un contesto sociale e culturale caratterizzato dalle condizioni del dopoguerra; depauperamento delle strutture, fuga dei giovani, diaspora degli intellettuali. E ancora esaurimento delle istanze ideologiche di area idealistico-crociana, matrice del Novecento tradizionalista e rinascimentale nel suo spirito, celebrato già da Margherita Sarfatti. Cade l'illusione europeista; i giovani intellettuali, traditi nelle attese, si appartano per non vivere nel riflesso di una cultura di importazione che finisce per essere essa stessa colonizzazione culturale. Si rafforza la corrente realistica; nella letteratura come nell'arte e nel linguaggio figurato del cinema scorrono immagini di morfologia naturale. La scena della pittura palermitana in particolare, oltre che da Maria Grazia Di Giorgio e Alfonso Amorelli e Francesco Bosco che in qualche modo, come si è detto, hanno avuto più diretto rapporto con il giovane Messina, è popolata da altri artisti: Pippo Rizzo, Vittorio Corona e Giovanni Varvaro reduci dal dissolvimento dell'esperienza neo-futurista.
Eustachio Catalano, Michele Dixit, Nino Garajo, Lia Pasqualino Noto, Gianbecchina sono solo una parte; e naturalmente Renato Guttuso che presto sarebbe divenuto astro emergente di questa cultura artistica. Ma fuori dalla Sicilia.
Il 1947 è l'anno dell'eccidio di Portella delle Ginestre; il 1946 è l'anno delle leggi agrarie che rallentano la produzione del grano, vitale in Sicilia, e al contempo creano malcontento, difficoltà ai lavoratori della terra. E questi non riescono ad organizzare le cooperative nè a gestire il controllo delle acque. Nel vuoto della democrazia cresce il binomio mafia-potere politico. E con esso il prezzo del grano: è la crisi dell'economia. Più silenziosa ma altrettanto grave avanza la crisi delle ideologie.
Il nostro giovane artista si affaccia su questa realtà storica carico di speranza e di voglia di realizzazione. In una simile situazione sociale e morale un idealista, come lui è stato ed è, per l'arte può vivere ma in qualche modo con l'arte deve anche tentare di sopravvivere; nel rifiuto di più facili compromessi. Sicchè il panorama delle opere che di quegli anni rimangono è sparuto, quasi scarno: la maggior parte di esse disperse in investimenti quotidiani, maldestri e fortunosi. Oggi difficili da ricostruire. Alcune opere di pittura e di scultura che si sono conservate appaiono solide, già impostate sulle linee delle coordinate di linguaggio estetico che accompagneranno il lungo cammino dell'artista; e le sue stesse scelte di campo in ordine anche ai contenuti. L'uno e le altre vere e proprie promesse di sviluppi futuri che avverranno senza stravolgimenti: ancorate con saggezza istintiva alle forme della realtà. Visualizzate queste nella pianezza della essenza plastica anche quando si esprimono in condizione di stesura bidimensionale sul piano che accoglie il colore o del foglio sul quale vibra il disegno. E perfino nell'apparato prospettico dei piani che scompongono lo spazio figurativo fino a scandirne le più recondite identificazioni. Fede nella materia, nella realtà, nella natura secondo la tradizione umanistica dell'arte italiana da Giotto in poi, rapportata ai due punti di fondamentale riferimento: spazio e tempo intesi come categorie aprioristiche. Dell'esistenza e della coscienza dell'infinito. Uno sguardo virtuale al grande Rinascimento, quanto basta per capirne il significato neoplatonico di etica, noetica, estetica. Tre momenti sublimati da quell'Idea che trapassa dal mondo pagano classico a quello cristiano: da Platone a Plotino. Nei contenuti figurali e nella loro esplicitazione formale affiora la stessa essenza del pensiero: la religio hominis, unico sentimento religioso oggi possibile. Quello che viene in soccorso all'uomo moderno ormai lontano dal misticismo irragionevole del Medioevo quanto dalla più arcana pietas; lo stesso che passa attraverso la metafora senza negarla, anzi con consapevole coinvolgimento della sua essenza. In noi e fuori di noi. La via che può portare alla sublimazione della intelligenza e dello spirito si snoda attraverso i territori del Logos e dell'Ethos. Fino a riconvertire il tracciato di questo percorso in un approdo estremo: la religio dei. Ieri conquistata con la mortificazione della carne e dei sensi; oggi intesa nella pienezza della sua intrinseca identità. Della materia fisica e dello spirito metafisico che la trascende. Resta remoto il rumore delle avanguardie rifiorenti nelle culture del disagio storico di quel tempo: prevale la tendenza a ripetere l'atto creativo, rivelatore a sua volta della divina creazione della natura. E l'artista la persegue con costanza e con coerenza mai cedendo alle lusinghe degli sperimentalismi a-figurativi nei quali riscontra il tratto di ideologie diverse dalla propria. Benedetto Messina fin da quegli anni opera nell'ambito di alcuni generi tematici: il sacro, la natura viva e morta, il ritratto, il paesaggio. Un mondo a immagine e somiglianza di Dio dove non mancano complementi di virtù e piacevolezza come nell'edenica visione di un paradiso terrestre. E la ricerca del decor, dell'ornamento è intesa come complemento dell'esistenza umana e pertanto come dono di Dio. Ogni atto, in questa logica, è concepito come valore etico: e perfino l'arte rientra nella visione del bene universale che è Dio stesso. All'interno di essa Benedetto Messina si muove con una naturale scioltezza e opera secondo un dettato che è naturale e soprannaturale al tempo stesso. Nella pittura così come nella scultura egli ama raccontare quando riferisce episodi che appartengono alla verità rivelata. E raccontando Benedetto Messina racconta se stesso, in una continua identificazione di oggetto e soggetto: non solo quando si rappresenta nell'autoritratto ad olio, tema ricorrente nella sua pittura. Anche quando raffigura il paesaggio di San Martino, ancora leggibile, la Conca d'oro tutta verde prima che il tempo più recente del benessere la riempisse di cemento; o trance de vie come nel cortile Barettiere scena della vita quotidiana del popolo. E ancora quando dipinge i due allievi intenti ad un serioso studio della geografia, o quando scolpisce una radice di cipresso raffigurando con sovrumana potenza il volto di Dio che scende per venire in seno ad Abramo. Fremente ed esagitato nell'espressione e nella chioma. Tanti particolari già connotano e definiscono questa produzione artistica che si svolgerà senza notevoli cambiamenti negli anni successivi. In una continua professione di fedeltà alle scelte; la stessa che allontana le tentazioni trasgressive e tende a recuperare il mito di ieri e di oggi nella natura. E attraverso la natura arriva a Dio. Una poetica riproposta di volta in volta mediante quella fenomenologia che si fa stile intessuto di linee, di colori, di volumi. Natura amata, ricercata, vegheggiata. Natura studiata nell'innesto delle sue coordinate di significati, di figurazioni e di forme che la fanno risaltare con ruolo di protagonista.
GLI ANNI CINQUANTA
Il decennio degli anni Cinquanta per Benedetto Messina si apre con la ferma convinzione di chi ha trovato le proprie certezze e vuole trasmetterle agli altri. Il legame tra la realtà e l'artista ora si fa ancora più penetrato con una ricerca tuttavia incessante. Egli lo persegue attraverso un gruppo di disegni tutti vicini nel tempo che si pongono con valore funzionale in questo momento del suo percorso.
Studio di mani a matita grassa, studio dal vero a matite colorate dello stesso periodo, uno studio per un apostolo, praticamente il ritratto del padre, con pastello e acquarello; un disegno a pennarello raffigurante un allievo nel laboratorio in varie pose e in vari particolari. Questi lavori insistono tutti sul tema dell'analisi della realtà più che sulla sua trasfigurazione; Ricorre in essi la tipologia di <studio> ora in bianco e nero, ora a colori. Uno spaccato dal vero sperimentato e assunto come unica possibilità espressiva e reificato nel '58 in una maternità dipinta ad olio dove intervengono anche gestualità e sentimento a completare con note soggettive l'oggettività di un episodio. L'artista ora approfondisce lo studio del ritratto con l'intenzione certo di penetrare più a fondo entro le stratigrafie dell'animo umano. A cominciare da se stesso attraverso due momenti di riflessione resi in due autoritratti che si succedono a breve distanza: uno è del '50, l'altro del '54. Nel primo si avverte l'esigenza di ambientare la figura in un contesto rappresentato da quinte architettoniche che gradatamente rientrano verso il fondo lasciando emergere in questa cornice scenografica la mezza figura lievemente di scorcio. Quasi assorbita dai piani retrostanti e tuttavia immersa in un raccoglimento contempltivo: senza nessuna distrazione di elementi naturalistici: la auto-rappresentazione del '54 è già diversa: uno scorcio più vibrante sgancia la testa dal collo e dal busto, al movimento più risentito fa riscontro a sua volta una più risentita plasticità di colore, quasi modellato nella sua corposità materica che rende la figura vibrante di umori vitali. Interviene la componente psicologica, elemento irrinunciabile nella visione dell'artista; essa serve a rafforzare la profondità dell'espressione. Lo sguardo limpido lascia trasparire una serena interiorità in armonia di dialogo con la intensa e al contempo autentica misura del dipinto. Quanto rimane sotteso è affidato alla presenza allusiva di quei pennelli che compaiono discreti in basso a destra. La stessa concezione volumetrica si avverte in opere di diverso tema rese con uguale concrezione di colore: steso talvolta con la spatola nel paesaggio di Pizzo Calabro ricorrente in una molteplicità di visuali. Soprattutto in quello scorcio del paese dove le masse delle case rurali si giustappongono con un'articolata cubatura, sapientemente esaltate dalle ombre e dai fasci di luce che le lambiscono: ancora una qualificazione della materia ora resa nella sua struttura architettonica che si espande virtualmente in una dimensione stereometrica scomposta e ricomposta secondo la lezione cubista interpretata da Pierre Francastel come naissance et destruction d'un espace plastique.
Essa è presente in molte opere dell'artista: e non solo in quelle che appartengono a questo momento della sua produzione. La sorregge una organicità vitale che è in ogni espressione appartenente alla realtà figurativa; e parallelamente alla stessa natura. Nella realtà e nella finzione pittorica viva più che mai anche se è catalogata convenzionalmente sotto le sembianze di una ingiusta classificazione di genere: natura morta con pesci, pesce verde.
E riduttiva perchè essa stessa è emanazione della condizione spirituale e psicologica dell'artista, del suo entusiasmo, della gioia di vivere incessante, di quella serenità della coscienza cristiana che imprimono vita alla materia e permettono di ripetere, rinnovandolo, l'atto creativo. Così come l'adesione alla vita della natura è inno al Creatore. E la stessa esaltazione pantestica di ogni elemento che della stessa natura è parte diventa rivelazione che attinge a verità dogmatiche: nella sua essenza duale di teologia e di arte.
GLI ANNI SESSANTA
La produzione degli anni sessanta è per Benedetto Messina il raggiungimento della sua maturazione che trova riscontro nella qualità oltre che nello spessore qualitativo delle opere realizzate in quel decennio; e in quelli successivi: E' come se le precedenti ammissioni fossero pervenute ad una compiutezza totale che ha superato le attese ed ha conquistato la sua verità: un approdo che è l'aspirazione dell'uomo stesso. Ulisse, il mito, il ritorno alla piccola Itaca, a quella terra d'origine che è in ognuno di noi con le sue promesse e le sue rassicuranti verità. L'artista la raggiunge e la manifesta con una intrinseca volontà di approfondire il suo messaggio. E da qui si muove oltre. Le tematiche si intrecciano. A quelle già praticate e ricorrenti nella pittura si aggioungono ora gli oggetti ornamentali, i pannelli a mosaico, complementi dell'arredamento dell'habitat dell'uomo. Espressioni d'arte cosiddetta minore, che entrano nella ferialità della vita quotidiana. E perfino nel palazzo imperiale di GiaKarta; avventurosamente come il tavolo mosaicato, realizzato per Sukarno. O più dimessamente quei piccoli vasi con paladini, in ceramica dipinta o modellati a rilievo. Ancora un percorso che raccoglie la capacità dell'artista di dominare e trasformare la materia mediante la forza della sua inventiva; e con quella pratica della cultura dell'ornamentazione che è complemento estetico della esistenza umana. Tale metamorfosi si attua al di fuori dei parametri tecnologici che attraversano la società di oggi; e viene a compiersi attraverso un medium virtuale che è la forma e la congeniale possibilità dell'artista di modificarla. Nel panorama di una vita attraversata da idealità che produce oggetti estetici definiti in maniera cinica oggetti inutili dalle leggi del mercato contro gli oggetti funzionali e pertanto utili secondo la logica del potere economico. Ma siffatti ragionamenti possono interessare il campo della sociologia dell'arte, non certo quello della visione di Benedetto Messina che quando assembla vetri colorati e cemento per dare vita ad una inconsueta lampada non pensa alla possibilità di trasformare l'oggetto d'arte in oggetto d'uso e alla sua implicita possibilità di essere riprodotta in serie per obbedire al rapporto di offerta e consumo. La lampada rimane lì, vagamente costruttivista nella sua connessione di volumi, vagamente antropomorfa. Sicuramente unico esemplare a metà tra una scultura e un oggetto, destnata ad adornare: così come i piani mosaicati di gusto floreale, il piatto di ceramica che ha inglobato i chiodi nella fusione degli smalti, i vetri piombati e dipinti, i molti modellini che riproducono in gesso, in terracotta e in polistirolo la statua del Tritone di Rutelli. Divagazioni nate per curiosità e realizzate per divertimento.
Una breve esegesi delle opere indagate e lette nella loro essenza unitaria permette di rilevare alcuni dati comuni relativi al colore: pur rimanendo invariate sia la funzione che la espressione che esso riveste sembra evidenziarsi un movimento all'interno delle masse cromatiche e della loro stessa corporeità che risulta alleggerita e più levitante; senza tuttavia arrivare allo sfaldamento della materia pittorica o dell'immagine. E' come se nella pittura di questi anni si avviasse un processo interno al colore che perde la sua compatta concrezione per acquistare maggiore luminosità; e leggerezza nella pennellata. Le stesse nature morte si fanno più complesse: complicano la loro composizione includendo oggetti vari ed usuali. Per esempio una rivista. O un colombo imbalsamato che fa vibrare il dipinto con i colpi delle sue ali spiegate e con il colore latteo delle sue piume schiarisce i toni cupi del piano di fondo: una natura morta nella natura morta. ma la vita alita oltre; al di là di questa apparenza. Altrettanta luce modella la composizione di fichidindia e fichi nostrani adagiati in naturale disordine sui pampini desinenti in un drappo rosso: essa si sviluppa attorno ad una lucerna con vigorosa articolazione plastico-luministica che accentua l'artificio innaturale nonostante l'uso di elementi naturali. Questa, del resto, è l'essenza stessa della natura morta come genere storico e figurativo che discende dalla Naturalis Historia di Plinio, attraversa tutto il mondo occidentale passando per Caravaggio e per i fiamminghi maestri fin dal XVII secolo dell'Orbis Sensualium Pictus. Un genere pittorico che illustra il mondo sensibile esplorato in orizzantale: "...delle cento membra e cento facce che ogni cosa ha, io prendo ora a lambirne una ..." (dagli Essais di Michel De Montaigne). E viene già attraverso l'attenta grazia femminile di Fede Galizia che infiora i suoi cesti di frutta con gusto tipicamente lombardo; o ancora attraverso Panfilo Nuvolone e Salvator Rosa. E De Chirico nel nostro tempo, anch'egli maestro nella barocca rappresentazione di una natura in posa: lussureggiante, ma immersa nel silenzio, senza azione. E a scena vuota, come impone ogni capitolo della cosiddetta forma vera. La ricerca di Benedetto Messina prosegue con note di diversa combinazione della realtà figurata: ora i fiori recisi e con essi uno scorcio di paesaggio in un angolo del quadro dipinti con più libera mescolanza di pennellate di verde e di azzurro; qua e là tracce di rosso sangue. A malapena l'orizzonte riesce a separare la terra dal cielo. Lo studio dell'ambiente naturale continua nel paesaggio di Monreale da via Regione Siciliana, nella veduta della Madonna delle Croci che scende a gradoni con le sue masse architettoniche lungo il pendio di Monte Caputo. Ritorna un paesaggio di Pizzo Calabro. Luoghi noti, vagheggiati e raccontati mediante un colore disteso a masse più larghe e più instabili, attraversato da fremiti di luce ora più vistosi e invadenti. Dal paesaggio alle figure di colombi, un olio reso a spatola premiato a Francavilla Mare per il suo vibrante luminismo che diventa plastico e per la naturalità della rappresentazione che ne esalta l'essenza vitale. O nelle immagini vicine per ispirazione e rappresentazione dello scout suonatore di flauto e dello scout chitarrista. Entrambe ambientate in un campo verde all'aria aperta piena di luce e di sole, abilmente articolata nei contrasti della luce e sulle ombre della figura stessa. E questa emerge da una invisibile griglia di piani prospettici; gli stessi che costituiscono lo spazio secondo quelle teorie razionali che nel diuturno insegnamento di disegno geometrico Benedetto Messina trasmette ai suoi allievi nei corsi dell'Istituto d'Arte. Cimentandosi egli stesso in una sperimentazione che applica questi metodi speculativi perfino alla materia da scolpire: la proiezione ortogonale applicata alla scultura. Il pastorello va ad aggiungersi alle due figure precedenti nello stesso spirito georgico e bucolico allietato da una dilatante visione solare en plein air. Secondo la migliore tradizione pittorica mediterranea: la stessa che discende dalla lezione di Cèzanne, sulla linea dell'Impressionismo storico. Alla maturità dell'Artista corrisponde ora la maturità dell'uomo, la sua affermazione professionale, l'insegnamento, la famiglia. Compaiono i ritratti dei figli, Ottavio ed Antonella due testine modellate al vero aprono una serie che si concluderà con Patrizia, Tiziana e Fausto. la materia duttile alla lavorazione è trattata con abilità e competenza tecnica pari alla freschezza di tocco. E con quella sensibilità tattile riflesso della stessa capacità di cogliere il sentimento. Su questi fattori riposa la ricerca del ritratto già avviata negli anni precedenti e ora ripresa con aperta attenzione alla psicologia e naturalmente alla connotazione fisionomica che cattura il carattere individuale e l'atteggiamento naturale come è tipico soprattutto nella rappresentazione infantile: talvolta aggraziato in Tiziana e Patrizia, pensieroso in Ottavio, più spensierato in Fausto. Assorta già nel suo mistero Antonella, in una situazione sospesa tra naturalismo e realismo. Ben diversa è l'interpretazione del volto di Cristo dipinto su maiolica nella versione sofferta della passione; e in quella più serafica del Dio-uomo. In mancanza del prototipo da ripetere nella cognizione della realtà l'artista spigola ora nel campo della trasfigurazione del volto dell'uomo e ripropone l'immagine consueta e rassicurante. Ricalca la iconografia tradizionale insistendo su di una visione intensa anche per l'apporto del suo personale sentimento: e dei significati che soggettivamente l'artista ama attribuire alla sacralità. L'effigie riposa su tonalità sommesse e fredde, talora cariche del livore della sofferenza. in entrambe le immagini domina una silente attesa che è contemplazione. Forse preghiera. In altre situazioni del sacro il tema sviluppa episodi biblici o evangelici: Giuditta ed Oloferne, il Battesimo di Gesù, il Buon Samaritano. In questi tre dipinti torna a riproporsi la tendenza al racconto; ma senza compiacimento. L'elemento narrativo infatti è espresso attraverso l'annotazione pretestuale di alcuni particolari insoliti, che appartengono soltanto alla fantasia creativa di Messina. Così la rosa che Giuditta impugna con la stessa mano armata di spada è un gesto vago e gentile in una scena di morte e di violenza; quasi ad esorcizzare la truculenta crudezza. Il coro degli angeli volteggia tra cielo e terra come una girandola e compone armonie di colori e di suoni nel vuoto tra le rocce; e queste degradano come quinte sullo sfondo della scena del Battesimo di Gesù chiudendo il tema soprannaturale entro connotazioni fisiche e veritiere di quel paesaggio che è lo spazio dell'umanità...
Il paesaggio crestato di torri e di alberi collega territori diversi: il verde della campagna e il colore croco del cielo si configurano in un degradare di tonalità dal giallo al rosso; all'azzurro del tramonto. Queste linee compositive accompagnano quelle della scena del samaritano che si incurva sul pellegrino morente e ne solleva le membra con un ritmo di arsi e di tesi che conclude un giro di corpi in primo piano. In siffatta esemplare lezione di composizione del dipinto i due corpi assecondano i motivi curvilinei del contrapposto e chiudono l'assetto circolare della disposizione dei volumi reso ancora più leggibile e raforzato dalla presenza del cavallo disposto parallelamente alle linee direttrici della composizione. Il ritmo cadenzato e mesto richiama il compianto giottesco a Padova scandito dal ductus rotto della disposizione degli angeli tra il cielo e terra: con la sequenza di un singhiozzo. In un andamento lontanante che si intravvede fino alla linea d'orizzonte. Al raccoglimento della morte, dolente e malinconico, si contrappone il pulsare della vita nella gioiosa esplosione della predica agli uccelli: una piccola terracotta che si regge con un impianto a ritmo aperto. San Francesco allarga le braccia in un gesto simbolico di accoglienza di tutte le creature. E gli uccelli si raccolgono intorno a lui: si posano rapiti sulla base o svolazzano sui rami spogli di un albero; propongono l'armonia di un cantico antico e nuovo. In consonanza con la serena letizia francescana la ricerca di Benedetto Messina continua senza segni di stanchezza e senza le perplessità di quegli artisti che spesso incorrono in periodi di crisi, si interrogano inquieti, talvolta si smarriscono in sentieri alieni che percorrono territori indecifrabili. Egli avanza nel suo itinerario con coerente perseveranza di scelte. Appagato ripete il suo atto creativo e si abbandona sereno ad operare ancora sulle linee primigenie, in direzione monodica della natura mai messa in discussione.
GLI ANNI SETTANTA
Nel segno di questi raggiungimenti si apre il decennio degli anni Settanta che gli permette di rivisitare i temi ormai consueti della sua ispirazione; e di esprimerli con varie articolazioni di tecniche e di materiali: in un esercizio tecnico che include tutte le pratiche dell'arte come in una antica bottega del Medioevo. Non mancano le committenze pubbliche e gli interventi nelle chiese che si adeguano al dettato della nuova liturgia: raffigurazioni iconografiche e ornamentali distese su vaste superfici. A questi impegni che si aggiungono alla produzione destinata a soddisfare la committenza privata di dipinti, vetrate e pannelli musivi con temi prestabiliti fanno riscontro episodi di più libera fantasia. Come quella festa della frutta che celebra in maniera inconsueta il tema della natura morta ora composta in un bel cesto che naviga sulle onde del mare come una barca, coronata da un girotondo di fanciulle danzanti: una visione gioiosa quanto improbabile, libera da schemi di contenuto. E di significato. Altre nature morte in questi stessi anni, fiori e frutta dai vividi colori, decorativi paesaggi dal vero: scorci di mare, scogli, montagne che scendono a picco, case. La realtà immaginata e la realtà reale si confrontano in questi quadri e perdono i loro confini nei dipinti di contenuto religioso; piccoli e di implicita simbologia come l'agnello in cerca del pastore o Gesù e i fratelli; o più grandi come quelli che si accampano nella profondità degli spazi delle chiese: la Cena di Emmaus. Più emozionato lo scorcio del Crocifisso, dipinto ad olio, visto dal sotto in su con spericolata audacia prospettica e con coinvolgimento di sentimenti. Nel ricordo di quel Cristo morto di Brera del Mantegna, dove la coscienza conoscitiva e morale si incontra con le possibilità dell'immaginario e con il virtuosismo prospettico. Lo stesso potenziale immaginifico ricorre con accenti apertamente decorativi nella composizione di tre episodi del Vangelo allineati in una sequenza verticale; insolita nella successione e nella intonazione quasi fiabesca del racconto. Dal sacro al profano: la pittura di Benedetto messina registra ancora battute miliari. Le figure di suonatori calabresi appartengono ad una pittura di genere che ricalca le situazioni anche effimere nel quotidiano senza toccare significati che vanno al di là dell'episodio figurato. Più astruse invece le allegorie che raffigurano il silenzio, il dio quattrino, la storia della musica: qui manca quella felicità cromatica ricorrente nelle immagini dov'è presente la natura o dove il tema più libero e non didattico come in questi casi coinvolge in prima persona l'artista e i suoi affetti. Un ulteriore autoritratto e mia madre sono più di un ritratto fisionomico: due figure tracciate ancora con una pennellata solida che fa i conti con la monumentalità della figura fisica e della figura morale. Al di là di ogni dimensione reale. E la concrezione della luce ne esalta i contenuti messi a nudo da una inesorabile volontà di introspezione. Nell'autoritratto l'artista scava per primo nella sua coscienza e si descrive nelle sue fattezze e nella sua stessa interiorità: come è o come vorrebbe essere. Nella rappresentazione della madre è traslato il significato che la figura stessa riveste nella solidità, nell'operoso atteggiamento, nel severo raccoglimento delle palpebre abbassate. Nella sua essenza e nei suoi complementi si identifica l'immagine della mater matuta, da sempre matrice della vita. Provvida e responsabile nell'immanenza stessa del ruolo e delle forme figurali.Ai limiti della sua sacralità umana e divina; pagana e cristiana. L'alba vista dal mio terrazzo e musica sacra a Monreale, sono due opere diverse da quelle finora considerate, accomunate dall'evanescenza dell'immagine sospesa tra realtà e irrealtà. la figura perde i suoi confini definiti e si espande smaterializzata nel suo tessuto cromatico; fino ad una virtuale astrazione che non ne cancella tuttavia la identità leggibile. Come nella Cattedrale di Claude Monet la pittura si fa impressione che tende ad abbattere la realtà oggettiva per avvolgerla di velature: nel colore e nella stessa memoria soggettiva. Quasi una evocazione poetica carica di suggestioni ora sfumate ed evanescenti, ora più intense. Questo fenomeno nella pittura di Benedetto Messina non è nuovo: riprende ed accentua un motivo che abbiamo riscontrato in taluni paesaggi attorno al '65. E contiene comunque possibili premesse di nuovi sviluppi negli anni futuri.
DAGLI ANNI OTTANTA...
Quanto avviene negli anni successivi nella produzione di Benedetto Messina è legato di più alla scultura praticata ora con continuità e convinzione: come agli inizi della sua attività. L'artista sviluppa gli stessi presupposti figurativi sempre presenti nel suo lungo cammino con la coerente fedeltà di chi vuole essere inattuale per scelta. Episodi plastici misurati nella dimensione fisica e nell'interpretazione del soggetto raffigurato: una trasposizione quasi naturale che va dalla pittura intesa nella sua essenza di materia -colore alla scultura vera e propria. Bronzi e terracotte riprendono i temi precedenti; e persino il polistirolo, una più recente e sorprendente scoperta dell'artista, anche negli anni più maturi curioso indagatore pronto a recepire novità tecniche e assimilarle al suo linguaggi espressivo. E la verità di natura è sentita e rappresentata anche qui con confidenziale semplicità; senza il peso della retorica monumentale. Nelle opere di più grande dimensione e ancora di più nelle piccole sculture. Il bronzo del nipotino che legge così come il suonatore accovacciato sulla colonna adornata di foglie privilegiano i ritmi garbati che si concludono entro lo spazio della figura; e nonostante l'atteggiamento usuale anche quella sobrietà espressiva che non ne sminuisce le caratteristiche infantili. Come già nelle teste dei figli di alcuni anni precedenti. Altrettanto delicato è il modellato delle tre grazie raccolte in un gruppo di piccole teste infiorate sui capelli: una terracotta maiolicata che nella duttilità della materia cattura la sensibilità tattile dell'artista e la sua congenita visione pittorica che affiora nella tendenza a rendere sfumate quasi coloristicamente le superfici. Il motivo floreale che le adorna e completa ricorre anche nella decorazione della cariatide di polistirolo; solida e compatta nella sua evidenza volumetrica, in contrasto con la consistenza della materia stessa. La maternità in bronzo vive nella stessa composizione del S. Giovanni Bosco: due gruppi scultorei diversi per dimensioni ma concepiti secondo un'analoga configurazione che raccoglie e chiude come in un abbraccio le figure piccole attorno a quella principale. Il giovane volto della Madonnina in terracotta si pone idelamente vicino alle testine precedenti: una misurata idea di bellezza che riposa sui segni modesti e aggraziati della virtù. I tratti fisionomici della testa in bronzo dell''800 riproducono il volto di Tonino Schiavo: un giovane allievo e collaboratore dell'artista, ora in America e perciò reso secondo l'immagine restituita dalla memoria. E tuttavia nel realismo della figura ancora una volta Messina coglie la somiglianza fisica del personaggio; e va oltrwe quando lascia leggere i particolari più spiccati della sua personalità. Come è caratteristica ricorrente negli altri ritratti. Anche i tre crocifissi costituiscono un trittico di virtuali ritratti anch'essi realizzati come tre teste in bronzo senza il supporto della iconografia tradizionale. Benedetto Messina li ha voluti modellare come li ha immaginati traendone le connotazioni morali dalla lettura evangelica e dando ad esse forma fisica: ancora una ipotesi di racconto che culmina nella sacrale testa di Cristo. Tra soferenza e rassegnazione. Più severo e imponente il busto del Cristo, un bronzo di più grandi dimensioni; composto nella sobria maestosità della sua immagine. Esso grandeggia immutabile e grave, nel ricordo del Pantocreatore che domina lo spazio della navata della cattedrale e al contempo le sorti dell'umanità: giudice e Padre. Ieri come oggi nella sua configurata immagine di eternità.
POST-FAZIONE
Un breve excursus in un lungo percorso di pensiero, di preghiera, di operosità fattiva per tracciare le linee essenziali della individualità di Benedetto Messina uomo e artista. E la organicità di un divenire nell'arte che scorre con cadenza costante di tempi e di modi. Diagrammi umani, diagrammi del paesaggio: volti segnati, terre ora arse, ora verdi. Lembi di mare azzurro, rocce grigie. E' il paesaggio siciliano, del territorio e della gente stessa; il paesaggio dove ogni cosa secondo Quasimodo, è più forte dell'uomo. Qui la dicotomia tra materia e spirito si risolve nell'abitare la stessa architettura della natura; in una sintesi che include l'uomo nelle sue implicazioni; e anche ciò che si configura come <altro dall'uomo>. Ieri come oggi in un contesto naturale. E di più rarefatta spiritualità. E' un destino di profonda umanità che evita parimenti l'artificio e l'allusione di ciò che può diventare mistificazione della realtà, della natura, del creato. Umanità che non sente le seduzioni di una altrove culturale. Creature appagate del loro dominio di mediterraneità; e ancora di più della pienezza di essere nella condizione che Sciascia amava definire "sicilitudine". Di quell'arcaismo greco monumentale e immanente che passa dall'architettura del tempio alla tettonica del paesaggio. E singolarmente nella figura del S. Sebastiano di Antonello da Messina: " nelle curve liminali del suo corpo... nell'astrattezza del volume che va situandosi egualmente raggiato e trasfigura la vita stendendo le spire e gli avvallamenti della forma spianando le valli corporee o sgusciandole con tal nettezza che il vuoto rivalga il pieno... mentre all'intorno, i simboli di questa assolutezza formale, sfera del Cristo, rocchi di colonne consigliano all'umanità di ridursi a forma migliore" (Roberto Longhi). E attraversa molti altri episodi figurali e ideologici dell'umanesimo quattrocentesco e delle culture che ad esso fanno riferimento; anche nella storia più recente. Per arrivare compatto nella sua essenza fino alla trasfigurazione cubista dove spazio e oggetto interagiscono dialetticamente trasferendo il dualismo tradizionale della cultura artistica occidentale alla struttura logica della realtà stessa. Nella sintesi di valore idealistico e valore cognitivo; e in quel corrispettivo estetico che secondo Giulio Carlo Argan, identifica nella luce la sostanza spaziale che la rivela. La accompagna la capacità dell'homo faber aperto al nuovo, consapevole di tutte le tecniche, rivolto ad uno slancio costruttivo che mette in opera la progettualità ideale dell'homo ludens; e la attua concretamente. Ecco come spiegare nell'arte di Benedetto Messina la molteplicità delle tecniche usate, la varietà dei canali dai quali discende una materia che impone di volta in volta diversi metodi di lavorazione. E ancora il colore corposo, materico, spatolato spesso: esso stesso medium virtuale tra scultura e pittura. Modellare per "via di mettere" e per "via di tòrre". Mosaicare in maniera diligente, con attenzione e pazienza; trasformare la terracotta in ceramica. E qua e là usare il disegno e le tecniche grafiche: disegno funzionale, disegno come studio, disegno come strumento di didattica. Disegno come progetto e ricerca nella sua duplice essenza di tracciato della mano, ma anche della coscienza e della memoria. Una lezione complessa che discende dalle antiche botteghe del passato e va verso le soluzioni filosofali e tecnologiche del futuro. su queste linee posa e ri-posa il pensiero e l'arte di Benedetto Messina. Nella sua casa della Carrubella, a ridosso del muro antico del Tiro a segno, l'artista vive e opera circondato da un disordine ragionato:che è il suo stesso modo di essere. Gli spazi dell'arte sconfinano con reciproca mutuazione negli spazi della vita. i giardinetti pensili, le pareti i mobili si lasciano invadere da una suppellettile inconsueta. Qua e là occhieggia una delle almeno dieci copie del Tritone realizzate in una varietà di materiali e di dimensioni; cartoni, mosaici, cavalletti,; reperti raccolti nel tempo. Con immutato entusiasmo; con tensione e con slancio che dà senso allo scorrere della vita. E con quell'indomito ottimismo che è la sua forza anche nei momenti peggiori quando con serenità di spirito tralascia gli abbattimenti e si rivolge a Dio lodandolo. Qui tra le testimonianze delle tante opere già compiute abbiamo riscontrato quattro dipinti insolitamente incompiuti che rappresentano singolarmente le quattro stagioni con accenti di più elegiaca poeticità. Non ancora fissati nella ultima definizione figurale, ma quanto basta leggibili per cogliere le annotazioni particolari; e dell'insieme. Vi affiora la sintesi delle esperienze passate l'incertezza del non finito, la rivisitazione di alcuni luoghi del fare dell'artista che ritornano spontanei e insistenti e forse inconsapevolmente il dialogo che l'artista ricompone con la sua vita entro i confini umani del tempo. Con qualche accento autobiografico. Nella rappresentazione dell'estate sembra di intravedere la vigorosa figura di Giuditta, come nelle macchie del cielo dell'autunno ritorna l'impressione sfumata e malinconica dell'alba dal terrazzo. La primavera affiora contro un cielo dove volteggiano gli uccelli ad ali spiegate come gli angeli del battesimo di Gesù; e nell'inverno si affaccia la solitudine smarrita di quelle allegorie dipinte senza la confortante e gioiosa presenza di elementi naturalistici. Dall'immagine raffigurata al simbolo significato: il volgere incessante del tempo nel susseguirsi delle stagioni. In una continuità senza principio e senza fine: come l'eternità. Benedetto Messina la rappresenta e la interpreta nella ricomposizione delle sue parti senza la dialettica degli opposti michelangioleschi dialogati nel Fedone platonico e poi ripetuti nel neoplatonismo rinascimentale. Piuttosto collegando i frammenti di ciò che è transeunte a ciò che è eterno, universale, cosmico. Come nelle tessere di un mosaico ideale; ripetendo il gesto familiare di una pratica quotidiana. Traccia un sentiero che ancora una volta si inerpica dall'umano al divino con quella cifra espressiva che è della sua anima e della mente: congiuntamente rivolte entrambe alla visione dell'assoluto. E approda al mitema primigenio della natura come immagine stessa di verità rivelata; ricomponendo il dissidio tra il mondo pagano e il mondo cristiano.
LE OPERE ARTISTICHE
1947, Monreale - Cortile Barettiere - olio su faisite
1965, Monreale - Paesaggio - olio su faisite
1965, Monreale - "Madonna delle Croci" - olio su faisite
1945, "San Martino delle Scale" - olio su faisite
1959, Paesaggio:Pizzo Calabro - olio su faisite
Colombi
1949, "Due miei allievi"- olio su tela
1958, "Maternità" olio su tela
1973, "I Calabresi suonatori" - olio su truciolato
1965, "Scout suonatore di flauto"- olio su faisite
1965, "Scout chitarrista" - olio su faisite
1970, "Storia della musica"- olio su truciolato
1965, "Il Pastorello"- olio su faisite
1973, "Autoritratto"- olio su tela
1974, "Mia Madre" - olio su tela
1974, "Alba vista dal mio terrazzo"- olio su tela
1953, "Studio per un apostolo (mio padre) - pastello ed acquarello
1950, "Studio dal vero" - tecnica mista su cartoncino
1950, "Studio di mani" - matita grassa
1959, "Allievo nel laboratorio" - pennarello su carta
opere incompiute (olio su tela):
"Primavera"
"Estate"
"Autunno"
"Inverno"
1973, "Giuditta e Oloferne" - olio su tela
1950, "Il pesce verde" - olio su tela
1975, "Festa della frutta" - olio su tela
1947, "In seno ad Abramo" - radice di cipresso
1965, "Volto di Gesù" - maiolica
1965, "Il battesimo di Gesù" - bozzetto - tempera su carta
1974, "Gesù e i fratelli -olio su faisite
1971, Il Crocifisso" - olio su faisite
1973, "Musica Sacra a Monreale"- olio su tela
1973, "L'agnello in cerca del pastore"- olio su tela
1962, "Il buon samaritano" - olio su faisite
1980, "Le tre Grazie" - terracotta
1980, "Maternità" - bronzo
1963, "La predica agli uccelli" - maiolica
1970, "Figlia Antonella" - terracotta smaltata
1975, "Figlia Tiziana"- terracotta
1972, "Figlia Patrizia" - terracotta smaltata
1969, "Figlio Ottavio" - terracotta
1976, "Figlio Fausto" - terracotta smaltata
1980, "I tre Crocifissi - terracotta smaltata
1994-95, "Il nipotino" - bronzo
"Ut unum sint" - bassorilievo in cemento - cm 275x155
1973, "Il Silenzio"- olio su tela
Tratto dal libro <BENEDETTO MESSINA> Città di Monreale (Assessorato Cultura)- Antologica - a cura di Antonina Greco -
presso la Chiesa del Sacro Cuore dic 1997/genn 1998
Progetto Grafico di Sergio Mammina- Monreale
Fotografie di Enzo Lo Verso -Monreale
Fotolito di G. Spedale -Palermo
Stampa Grafiche Renna -Palermo
r.m.
Antonino Davide Schiavo (Anthony o Tony per gli Americani) nasce a Monreale nel 1936.
Negli anni '50, frequenta gli studi ginnasiali presso l'Istituto "Guglielmo II°"e, nelle ore pomeridiane, i corsi per Mosaicisti presso la Basilica Metropolitana di Monreale precisamente nel Teatro San Placido del Palazzo Arcivescovile.
Due anni dopo (1952/'53), ottiene il certificato di mosaicista dopo lodevole profitto e con gli insegnanti Prof. Benedetto Messina e Prof. Romano.
Nel 1954, Schiavo parte per gli Stati Uniti.
Lì, inizia la carriera di attività musiva presso lo studio nella Contea di Queens.
E' inevitabile l'incontro con grandi e famosi artisti quali Hans Hoffman, Ben Shahn, Gregorio Prestopino e Lumen Martin Winter dai quali, con capacità eclettica, riesce ad assorbire e far tesoro dell'essenza della loro Arte.
Disegna ed esegue innumerevoli lavori d'arte per chiese, palazzi governativi, ospedali, scuole e residence.
Il suo più grande mosaico, realizzato in collaborazione con Demetrios Dukas, è quello creato per Santa Sofia, imponente Cattedrale Greca in Washington, D.C.
Negli anni '80, contemporaneamente al mosaico, studia e riceve il Bachelor of Art presso The School of Visual Art di New York.
Dall'incontro con Vincent Norrito, nasce a New York nel 1983 la "N Group LTD", dinamica agenzia di pianificazione dei mezzi e di controllo pubblicitario. L'agenzia offre tutti i servizi pubblicitari: dall'analisi dei budget di investimento allo studio dell'immagine aziendale, dal marketing alla realizzazione dei depliant, dalla comunicazione sulle testate giornalistiche fino ai network televisivi.
Nel 1990/'91, presta il suo knoledge ad un programma della Regione Siciliana "That's Sicily", creando una immagine positiva per la Sicilia e per i Siciliani, mediante incontri, mostre e seminars, figurando i grandi talenti artistici Siciliani, sia nella Musica che nell' Arte.
Fra i grandi artisti figurano la grande Ceramista Elisa Messina, Saverio Terruso, Alberto Abate, Alfio Cristaudo, Fabrice Denola, Bobo Otera, Salvatore Pulvirenti, Rosario Tornatore e tantissimi altri artisti, inoltre scienziati e vari Studiosi Siciliani.
Questo per Schiavo è il trionfo personale per la sua amata Sicilia.
Dal 2002 ad oggi continua a creare Mosaico.
Parecchie onorificenze da elencare:
Membro della National Society of Mural Painters
Curatore d'arte musiva presso ART MUSEUM della Università di Princeton
Maestro d'arte musiva della Skowhegan School of PAINTING e SCULPTURE nello Stato del Maine
Unico Siciliano ad avere un Mural in un museo americano.
3 Certificati di "Achievement of Excellence i Advertising" ed altri Advertising Awards of Merit.
(Tony Schiavo)
Hildreth Meière
Simbolo di forza aziendale, originariamente il pannello del peso di due tonnellate, misurava metri 7 x 6, successivamente, per il trasporto e per farlo entrare dalla porta del Museo, circa 4 metri e mezzo x 4 perchè è stato necessario tagliarlo in due pezzi.
Il pannello di mosaico in marmo raffigura Ercole in vela oltre la Rocca di Gibilterra.
L'artista mosaicista Anthony D. Schiavo in un'intervista ha dichiarato di avere lavorato al montaggio originale Prudential con il progettista ed artista Hildreth Meiere http://www.hildrethmeiere.com (Art Deco) e conferma la collocazione definitiva nella nuova sede. Meiere era un tipo distinto, gentile, diplomatico e avventuroso. A partire dagli anni 1910, Meiere ha viaggiato per centinaia di commissioni presso uffici, case, edifici religiosi e governativi sparsi per Rhode Island a sud della California. Tanto intelligente, da lasciare liberi gli altri artisti che realizzavano le scogliere, le onde, tutta l'immagine.
La figlia Louise Meiere Dunn e la nipote Hildreth Dunn che gestisce l'Internazionale Hildreth Meiere Associazione a Stamford, Connecticut, hanno chiesto al Sig. Schiavo di contribuire a spostare le scaglie di marmo che aveva assemblati come un giovane artigiano a Long Island City, Queens, società denominata V. Foscato.
La lastra dapprima è stata presentata, sotto l'occhio vigile del Sig. Schiavo, in un parcheggio di fabbrica nella città nord del New Jersey.
Il marmo utilizzato è stato estratto dall'Irlanda, Italia, Belgio,Turchia ed era nei toni verde, viola, avorio, grigio. Il Sig. Schiavo a proposito dei colori ha fatto sapere che con un bagno di acido delicato e acqua ritornerebbero nuovamente lucidi come nuovi.
Catherine Coleman Brawer, uno storico che sta lavorando su una monografia Meiere con l'autore Kathleen Murphy Skolnik, in una recente intervista telefonica, ha fatto sapere di avere scoperto il diario di viaggio del 1933 con gli appunti relativi a Gibilterra. Note sulle impressioni suscitate da quel paesaggio che poi hanno ispirato il design Prudential.
Art & Design
Two - Ton Hercules Mosaic, Rock Steady in Newark
Hidret M. Dunn
The Rock of Gibratar, shown on a huge mosaic panel designed by Hildreth Meiére for a Prudential Insurance building, was recently rediscovered and moved to the Newark Museum.
PLAINFIELD, N.J. - A simbol of unshakable corporate strength, weighing two tons, has been cut apart for easy transport. The piece, a 1960s panel of a marble mosaic depicting Hercules sailing past the Rock of Gibratar, was removed two decades ago from a Prudential Insurance office tower in Newark. Recently rediscovered in storage, it has been donated to the Newark Museum, and it goes on view in a central coutyard there this month. In its new niche "no one's going to remove it, hopefully", said Anthony D. Schiavo, a mosaic artist who worked on the original Prudential installation with the designer, the Art Deco artist Hildret Meière. Her daughter, Louise Meière Dunn, and granddaughter, Hildreth Dunn, who run the International Hildreth Meière Association in Stamford, Conn., brought in Mr. Schiavo to help move the marble chips that he had assembled as a young artisan at a Long Island City, Queens, company called V. Foscato. A few weeks ago the slab, which measures about 13 by 11 feet, wa briefly laid out in a factory parking lot in this northern News Jersey town. Under Mr. Schiavo's watchful eye, a team sliced it in two so it would fit througt the museum doors. Stephen Miotto, a mosaic artist based in Carmel, N.Y.,and his assistant Miro Matusek sawed and drilled along a line marked in red crayon. The panel vibrated, and stone dust filled the air. But only a few chips broke free and needed to be repaired. Ms. Dunn, the granddaughter, lay on the damp asphalt to photograph the blades biting througt the mortar. "My grandmother was adventurous too", she said. Beginning in the 1910s, Meière traveled for hundreds of commissions at offices, homes and religious and government buildings scattered from Rhode Island to Southern California. The marble, in shades of green, purple, ivory and gray, was quarried in Ireland, Italy, Belgium and Turkey. Mr. Schiavo said that the palette would glow again after a bath in mild acid and water. He remembers Meière as regal but kind and diplomatic. While the Foscato crew was laying out marble stripes to realize her image of Gibratar cliffs and waves, he said, "She was smart enough to let the other artists decide". At the museum the panel hangs near a cafe and two abstrct 1930s murals that Arshile Gorky painted for a Newark Airport building. In a few months two other sections of the Prudential mosaics will be installed at the Center for Hellenic Studies in Washington. Catherine Coleman Brawer, a historian who is working on a Meière monograph with the autor Kathleen Muphy Skolnik, said in a recent phone interview that she has discovered Meière's 1933 travel diary notes about visiting Gibraltar. "It is somehow thrilling to pass througt that channel, "Meière wrote about the scenery that eventually inspired the Prudential design. Foscato mosaics around New York have been overhauled in recent years. Grids and swervers designed by Hans Hofmann for the lobby at 711 Third Avenue, between 44th and 45th Streets in Manhattan, have beebn restored. Gauzy color blocks from the 1950s, designed by Lucia Salemme, were salvaged at 220 Central Park South and are in storage awaiting a safe new home.
da <UN LAVORO>
di Catherine Coleman Brawer
..........
Dal diario di Meière appunti del suo viaggio attraverso lo stretto di Gibilterra:
"The weather continued to be absolutely perfect, and the day after
Lisbon we passed through the Strait of Gibraltar, coming to the
Rock itself just at noon. For this reason lunch was at eleven, and
later I was allowed up on the very top deck above the chart room
while the boat swung close in to the extraordinary pile. I have
landed there three times before, but was impressed more than
ever with its sheer bulk, and the curious water sheds of masonry
on its Eastern face. It is somehow thrilling to pass through that
channel—to be able to see Africa on your right and Spain,
Europe, on your left. "
Two ton Prudential Rock art preserved
The mosaic is the work of Art Deco artist Hildreth Meière, commissioned by Prudential Life Insurance in Newark, it was one of her last pieces of work before her death in 1961. The New York artist most famous designs are the Art Deco plaques on the exterior wall of Radio City Music Hall.
Removed twenty years ago from the Prudential Insurance office it was rediscovered in storage, and according to the New York Times mosaic artist who worked on the original installation with the designer Anthony D. Schiavo has said that he hopes that in its new niche “no one’s going to remove it.”
February 19, 2013
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Newark Museum103rd Annual Meeting of the Newark Museum Association
Special Program with Dr. Mary-Kate O'Hare, Curator of American Art, will discuss Hildreth Meière's remarkable career and artistry with Louise Meière Dunn and Hildreth Meière Dunn. They will be joined by mosaic artist Anthony D. Schiavo, who worked on the original Prudential installation. |
Anthony Schiavo in front of a mosaic he built and recently restored at its news home, the Newark Museum. Designed by Hildreth Meiere, it was the central panel of a three-panel mosaic depicting Hercules' journej though the Strai of Gibraltar that was commissioned in 1959 for the lobby of Prudential Financial's headquarters in Newark . Anthony Schiavo
SUMMIT - At the age of 24 a young artist built a mosaic. Fifty three years later he has restored it for its new home, the Newark Museum.
SUMMIT - At the age of 24 a young artist built a mosaic. Fifty three years later he has restored it for its new home, the Newark Museum.
On Monday, mosaic artist Anthony Schiavo told the story of the mural designed for Prudential Financial’s headquarters building in
Newark. Consisting of three panels, it depicts the voyage of Hercules through the Strait of Gibraltar. Only the central panel will be in the museum. It features the ship passing the Rock of Gibraltar, while two other panels have columns, representing the Pillars of Hercules. The other two panels have been donated to Harvard University Center for Hellenic Studies, in Washington, D.C.
The piece was designed by artist Hildreth Meière, who provided the drawing or “cartoon” for the mural. “I was the one who executed it physically with my hands," Schiavo said. "As the head designer, I was the one who selected the colors” and applied them. He said he did the work at Foscato Studio in Long Island City and it took about six months to complete. It was installed in Prudential’s lobby in 1960.
It is made of tesserai, tiny marble pieces. He said he used about “13 marbles” in the mosaic, in various shades. The way a mosaic works is “the architect decides where he wants a mosaic, an artist designs it and I will create it for that space.” The mosaic is built by hand, in sections, as determined by the mosaic artist. The panel in the museum is made up of about 30 sections, measures approximately 13 feet by 11 feet and weighs two tons.
The Prudential mural was removed in 1999 from the building and placed in storage. Meière’s daughter and granddaughter found where the three panels were stored and asked Schiavo to restore the panel after it had been cut in half and moved into the museum. He worked on the restoration during the fall.
The mosaic was donated to the museum by Prudential with the support of the International Hildreth Meière Association.
Schiavo, who lives in Summit with his wife, Ada, is 77. Before moving to Summit, he lived in Millburn and before that New York City.
In 2005, he designed and did the mosaic for “Doors to Democracy,” which can be seen in Summit at the Bassett Building 24 Beechwood Road.
In 1971 he used to designs of Gregorio Prestopino to create “The Nymphs” on the Princeton Professional Building, on Princeton-Hightstown Road.
Schiavo will attend the official unveiling of the mural at 11 a.m., Tuesday, Feb. 19, at the Newark Museum, 49 Washington St.
Mosaic - Anthony Schiavo
Anthony David Schiavo, born in Monreale, Sicily in 1936, was intrigued from an early age by the Byzantine mosaics in his hometown cathedral, an 11th century structure. He studied art in Monreale at the Mosaic Institute of Santa Maria Nuova. Of the artists above, Shahn and Prestopino had a significant connection with the Garden State. Schiavo would later collaborate with Prestopino on a mosaic mural near Princeton (shown below).
Doors to Democracy, 2005, 5 by 8 , Bassett Building, Beechwood Road, Summit, NJ. Mosaic by Anthony Schiavo. Photographs courtesy the artist.
"Il significato del pannello (m.2x150) vuole esprimere il concetto che la Democrazia si può conquistare soltanto se si aprono tante porte, ovvero, che occorre tanta pazienza. La persona che mi ha commissionato questo contratto pensa di donare il disegno per realizzare un francobollo"(Tony Schiavo).
The Nymphs
The Nymphs, 1971, mosaic by Anthony Schiavo based on designs by Gregorio Prestopino, 5' x 16' (front), 5' x 8' (sides). Princeton Professional Building, Princeton-Hightstown Road, NJ.
Schiavo also did restoration work in New Jersey, including the restoration of a large second century Roman mosaic floor, The Drinking Contest, owned by the Princeton Museum, as well as other panels from the same place and time. Schiavo continues to work and live in Summit, New Jersey. His mosaic mural Doors to Democracy was created in Summit in 2005. (KNO, Spring 2010) Information courtesy the artist.
Anno 1971 - (CATTEDRALE GRECA ORTODOSSA SANTA SOFIA DI WASHINGTON)
Pantocratore con Serafini e Cherubini e i quattro Evangelisti
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Tony Schiavo partecipa a questo progetto che comprende la realizzazione del Pantocratore, Serafini, Cherubini e gli Evangelisti racchiusi nei triangoli. Altri mosaici attorno sono stati fatti in Italia a Spilinbergo 25 anni fa'. Questo suo lavoro e' stato fatto 42 anni fa'. In pratica, per 15 anni gli unici mosaici erano solamente i suoi. Man mano che hanno raccolto i finanziamenti hanno continuato ad altri lavori. Quando lui era già coinvolto nella pubblicità.
Questo pannello, 4m x 3.50m rappresenta la " MENORAH ", il simbolo Ebraico realizzato per una Sinagoga nel Long Island, contea di New York .
Progetto THAT' S SICILY
Nei primi anni novanta Tony Schiavo e un gruppo di lavoro in collaborazione con la Regione, promuovono la Sicilia in America, in diverse città, nel campo dell'arte visiva, della musica, poesia, archeologia facendo conoscere e divulgando l'aspetto culturale e più interessante dell'Isola con Poster, locandine, manifestazioni varie, articoli su famosi giornali e quotidiani NewYorkesi come il New Times e il New York Magazine.
In questa circostanza, importanti sono state le varie esposizioni della ceramica di Elisa Messina, e quelle della pittura del famoso pittore Saverio Terruso.
TRA I RICORDI
Questa foto rappresenta un momento molto importante per l'Artista Tony Schiavo: quando ha insegnato a dipingere secondo lo stile del mosaico a bambini di 8 e 9 anni in una scuola vicino casa.
Questa foto rappresenta un momento molto importante per l'Artista Tony Schiavo: quando ha insegnato a dipingere secondo lo stile del mosaico a bambini di 8 e 9 anni in una scuola vicino casa.
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Dedicato
all'Artista monrealese
E l i s a M e s s i n a
...Certe scelte portano, inevitabilmente, a percorrere strade più difficili di altre, i cui elementi però, risultano alla lunga, più gratificanti. E' questa la filosofia che, nel mio lavoro di ceramista, mi ha tenuta lontana dalle tentazioni delle facili soluzioni, dal successo conquistato a buon mercato.
Ho scelto di essere me stessa, con tenacia ed ostinazione, derivando da questo mio impegno, un consenso che è stato anche, sollecitazione a fare sempre meglio e di più
Elisa Messina
la figlia M. Grazia Bonsignore
La sua attività ha inizio nel 1961 quando fonda, all'ombra delle torri centenarie, il laboratorio e la scuola di ceramica.
Dalle sue mani, nascono visi di donne, vasi antropomorfi, sculture, piatti ispirati ai rosoni normanni dell' abside. La sua intensa sicilianità si ritrova nelle espressioni delle figurine dei mestieri, nelle illustrazioni della giara di Pirandello, nel giallo odoroso dei suoi limoni, nel rosso inebriante dei melograni.
Donne modellate su vasi a lucignolo, espressioni intense e sognanti che si ritrovano nelle bocce, nei piatti smaltati, nei dipinti ad olio. Assieme ad esse, le colombe, a gruppi, accostate a vasche e conche di diversa foggia, solitarie, a volte adornate da piume immaginarie, sempre uniche testimoni della ricerca di pace, di candore.
Il blu che affiora sui piatti e vasche ed ancora su brocche e samovar, su piccole tazze decorate, create negli anni settanta.
Straniti gruppi di giocolieri, piccoli omini sovrapposti, dai visi tondi, le braccia rivolte verso l'altro, a volte reggono un filo...a volte il filo è spezzato, come le braccia delle Donne di Elisa, metafora della condizione di "impotenza" della donna siciliana dei primi anni Sessanta.
I fiori, protagonisti delle sue prime creazioni, i vasi panciuti, le alzate, i lunghi candelabri blu o prugna arricchiti da tralci di lilium o piccole margherite.
In omaggio alla tradizione presepiale siciliana e napoletana, Elisa ha creato i suoi pastori, figure di intensa espressività, realizzate interamente a mano, in terracotta e tessuti antichi, che rinnovano nei suoi estimatori, il piacere di collezionare.
la Sacra Famiglia, il re arabo sul cammello, il moro genuflesso, lo zampognaro, il pastore che porta in spalla la pecorella ed il suo carico di formaggi, la portatrice d'acqua, la vecchina col fascio di legna, sono alcuni dei personaggi che si possono ammirare nella sua bottega
LE OPERE ARTISTICHE DI ELISA
"Dalla terra nasce ogni terraglia, dal fuoco, dall'aria, dall'acqua nasce ogni forma dell'informe, dal miscuglio l'ordine, la bellezza dal bisogno, l'armonia dal necessario.
Amore e pazienza muovono il mondo, muovono mano, intelligenza, creano il piano e il fondo, il pieno e il vuoto, il concavo e il convesso".
Così, Vincenzo Consolo in "Nottetempo, casa per casa", ricorda come l'uomo ha sfruttato tre dei quattro elementi dei quali, secondo la tradizione, si compone l'universo, e sono i tre elementi di cui l'uomo fin dalle origini si è servito per la terracotta.
Elisa Messina, l'artista...a un tiro di schioppo dalla montagna della Moharda, nel cuore della Conca d'Oro, dove affondarono le mani i primi figuli di quest'arte, ha ripreso i segreti e, con una abilità professionale custodita chissà in quale gene, ne tramanda da decenni l'incanto.
Evidenti nei suoi smalti i segni della civiltà arabo-normanna che, nel suo laboratorio situato nell'antivilla, a pochi metri dall'antica torre della fornace, della Cattedrale di Monreale che custodisce la più vasta superficie musiva del mondo, impronta istintivamente il suo operare, ridando alla ceramica pulsazioni vitali, modulazioni inedite. Sono lucerne, vassoi, piatti, forme germinanti dal rapporto immediato con la natura, oggetti della vita familiare, personaggi del mito e della tradizione cristiana, mattonelle e anfore che si connotano per sobrietà e autenticità di lavorazione ed esprimono una "linea"che dice del suo talento e della sua personalità, senza ostentazione.
Sculture, dipinti e disegni completano la pratica creativa di questa artista che con acuzie folgorante, attraverso il colore declina nei toni più ispirati e fantasiosi la bellezza e la grazia femminile di trasparenze rare e fascinose. Una sfida e un atto d'amore che Elisa Messina, la cui arte è conosciuta ed apprezzata in Italia e all'estero, porta avanti con gusto nuovo plasmando l'impasto terroso che il fuoco vetrifica e non fonde, dando vita e colore.
Il valore quasi divino che l'uomo fin dall'antichità ha affidato alla ceramica, polvere d'argilla mista ad acqua, prova forse in questa mistica nascita una sua spiegazione e trova nelle opere di Elisa Messina una testimonianza che evoca le parole della Genesi:
"E l'Eterno formò l'uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale, e l'uomo divenne un'anima vivente" .
Pino Giacopelli
"... e chiude tra labbra sottili il suo infinito silenzio..."
Elisa Messina: l'attirano gli ori, i fondo-oro, le aureole, in questo simile agli uccelli (la gazza) e gli angeli; e, su tutto, il temporale d'oro della sua Monreale, musivo, nel quale sgrana gli occhi, il Cristo, terribile, e chiude tra labbra sottili il suo infinito silenzio.
L'oro di Elisa è la tela medesima: la texture laminare ed effusa.
Lucido e leggero come seta, tarlato e tenero come un antico specchio.
Schermo chimico: alchemico della memoria.
Esso ri-vela (la natura più profonda dell'oro dev'essere misterica) un passato d'innocenza e terrori: un temps mort favolosamente, che n'est rien d'autre que nos gestes.
Nient'altro che il gesto, qui appunto, delicato e finale, di dipingerlo.
Retournat vers l'invers, riconosciamo così con Elisa l'oro dell'infanzia, che contiene tutte le immagini, fuorchè la nostra.
Un oro metamorfico (filosofale?), che, di volta in volta, si fa segno - le filet mince e nero, che percorre (come il desiderio) un corpo nudo di donna: tutto il corpo che vede e che non vede;
monile e abito per anatomie imprevedibili;
signore scosciate e incappellate tra le caldane dei rossi e zitelle consumate da febbri rosaviola;
luna: una macchia di cielo più densa, rossa verde grigio oro: l'occhio del fulmine rimasto a contemplare il sereno e l'intimità delle donne;
sedia e divano e finestra chiusa dall'azzurro: la stanza plaga del tempo;
putain rispettosa, vestita e svestita, in attesa (l'offerta quotidiana di Eva in un paradisodeserto), cui è rimasto, solo gioiello, una griglia di luce alla finestra;
giovani innamorate in perpetuo ascolto di deliziosi uccelli muti;
fanciulla che tiene la sua anima in grembo: in forma di colomba;
padre e madre (il ritratto di famiglia), seduti, in posa, con in mezzo una figlia di ectoplasma;
amante che si muta in nano e cappello e vola intorno al capo dell'amata;
saltimbanchi che crescono inutimente l'uno sull'altro, come albero, ma senza frutto;
cavallo ecologico e uomini creati dalla costola della donna (la genesi rovesciata), mezzobusti, decollati o interi, che intonano a bocca chiusa il lamento di vivere, suo e d'ognuno.
La metamorfosi aurea dell'infanzia (essa forse adombra anche l'odierna impaurita innocenza del mondo) continua dentro e oltre la pittura di Elisa en pluma di memoria, en magico trasporte, perchè non si spiega per sempre e per tutti quel nostro primo, dolcissimo fuoco pieno di cenere.
G. F. Alliata
Nell'aprile dell'anno 2003, durante l'inaugurazione dell'apertura del Museo-Atelier di Elisa Messina, di fronte al Duomo di Monreale, la giornalista Simonetta Russotto nella sua intervista chiede all'artista:
- A cosa si è ispirata più spesso, nella sua arte?
- "Sicuramente alla mia terra - racconta Elisa Messina - ai suoi colori sempre forti e vivi, ma anche al sole che da sempre la riscalda. Non avrei potuto creare, se attorno a me non ci fossero stati i suoi raggi, che con la loro energia mi hanno accompagnata".
- Quali sono le tecniche di lavorazione e i colori rappresentativi?
- "La tecnica è molto spesso, quella detta a "lucignolo"- dice ancora l'artista monrealese - si realizza con budelli di argilla attorcigliati. I colori, sono sempre stati la mia passione, studiare le loro reazioni chimiche una volta messi in forno, vedere la loro trasformazione ed ogni volta creare nuove sfumature. Uso molto spesso il blu, l'azzurro, il giallo e l'arancio, che sono poi le tinte della Sicilia".
- Cosa ha in serbo nel futuro artistico?
- "Vorrei tornare al mio primo amore, la pittura. Prima di dedicarmi alla ceramica, infatti dipingevo, non mi dispiacerebbe riprendere questa passione"
Esposizione delle opere di Elisa negli spazi della Civica Galleria d'Arte "G. Sciortino" - ex Monastero dei Benedettini - "Santa Maria La Nuova"
Si attende l'arrivo dell'Artista per iniziare l'inaugurazione della sua esposizione artistica
(al centro, la seconda figlia dell'Artista monrealese, Lilly Bonsignore)
Il Sindaco Avv. Filippo Di Matteo accoglie l'Artista Elisa Messina con l'omaggio floreale
Gli elogi più grandi e sinceri
un abbraccio da parte di tutti noi
mariagraziabonsignore@gmail.com
r.m.
Primo Anniversario
dalla scomparsa
dell'Artista
ELISA MESSINA
Mostra Personale
presso
la
Chiesa degli Agonizzanti
Il Sindaco Avv. Filippo Di Matteo tra le due figlie di Elisa Messina: sul lato sinistro Maria Grazia, sul lato destro Lilly Bonsignore.
PERSONALE DI PITTURA DELL'ARTISTA MONREALESE
GIUSEPPE SCALICI
NEL DECENNALE DELLA SCOMPARSA DEL PROF. GIUSEPPE SCALICI, RISPONDENDO ALLE SOLLECITUDINI DI ARTISTI ED AMICI, LA FAMIGLIA SCALICI, IN COLLABORAZIONE CON L'ASSESSORATO ALLA CULTURA DEL COMUNE DI MONREALE, HA VOLUTO ALLESTIRE UNA PERSONALE NELLE SALE DELL'EX MONASTERO DEI BENEDETTINI. CIO' AL FINE DI FAR CONOSCERE ALLE NUOVE GENERAZIONI UN "UOMO" PRIMA CHE UN "PITTORE", LE CUI QUALITA' MORALI E INTELLETTUALI RESTANO TUTT'ORA UN MODELLO DI RIFERIMENTO IN COLORO CHE LO HANNO CONOSCIUTO, OLTRE CHE PER RICORDARE UN ARTISTA CHE HA FATTO DELL'ECLETTISMO E DELL'APPLICAZIONE LE CHIAVI DI INTERPRETAZIONE DELLA PROPRIA ANIMA.
ex Monastero dei Benedettini
Giuseppe Scalici nasce a Monreale il 20/01/1940, si diploma al Liceo "G.Meli" di Palermo. Si laurea in Lettere classiche presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo. Negli anni '60 diviene Presidente dell'Azione Cattolica presso la parrocchia di San Vito in Monreale. Negli anni '70 la sua vena artistica che si può definire eclettica, poliedrica, si concentra sulla pittura partecipando a numerose mostre e concorsi ottenendo risultati lusinghieri.
Agli inizi degli anni '80 proveniente dall'istituto Maria Adelaide di Palermo si trasferisce a Monreale presso il ginnasio sede distaccata del Liceo Vittorio Emanuele II ed è protagonista insieme al Prof. Rocco Campanella dell'Istituzione del Liceo Classico "Emanuele Basile" dove insegna Lettere Classiche sino al pensionamento Giugno 1995. Nell'ultima parte della sua vita si avvicina alla poesia su tematiche principalmente intimistiche non disdegnando quelle sociali e di protesta.
Viene a mancare il 10/03/2003 all'età di 63 anni dopo aver lottato con forza e dignità contro un male incurabile, proprio mentre stava per dare alle stampe la sua prima raccolta di poesie "Riflessioni in itinere".
Christian Rohfs, un pittore impressionista morto nel 1938, formatosi sulle esperienze di quel naturalismo tedesco sensibile al paesaggismo della Scuola di Barbizon, così scriveva ad un critico: La creazione artistica viene da un istinto molto intimo? La ragione ha solo la funzione di un servo, cioè, di mandar via gli invitati che si comportano rumorosamente e quelli sconosciuti.
Senza voler prendere le cose dall'alto e venendo, con semplicità, a parlare di Pino Scalici, riteniamo di poter dire che i suoi quadri sono la trascrizione istintiva che l'animo gli detta.
L'osservatore, nelle opere di questo giovane artista, vi scopre da solo una testimonianza di amore per l'arte.
Pino Scalici realizza, con singolare attitudine inventiva, paesaggi che, pur potendo coincidere con immagini reali, hanno i contorni e i confini inafferrabili dello spazio segreto della sua anima alla ricerca di un ordine interiore.
Pino Scalici è portato a credere soprattutto a quello che si può vedere e questo perchè è probabile che egli pensi che la percezione e l'acutezza della visualità, il rapporto tra l'opera e chi guarda, comprendano insieme l'illimitatezza temporale e spaziale.
In fondo, anche se l'osservatore dispone, apparentemente, di pochi elementi, è chiaro che lo Scalici si cimenta in un tema che a lui (docente ordinario di lettere) deve essere congeniale: il rapporto tra l'uomo e lo spazio, l'immensità.
Dipingere per lui non è, pertanto, solo un fatto istintivo ma è anche il senso di un impegno culturale ed esistenziale molto importante.
Nelle sue opere perviene ad esiti notevoli con concettuale sottiglienza e con sobrie ascendenze documentate dalla pittura, la quale è ad un tempo compatta e conclusiva ed anche e soprattutto fresca e umorosa.
Per questo le sue opere recano il segno di una dedizione all'arte e ad una disciplina magistrale: nella evocazione irreale e pur fedele del paesaggio, nella trepida fermezza cromatica che ne precisa i particolari e li trasferisce in una accezione poetica, nelle volate impennate del colore, che talvolta si accende di toni surreali, per confermare il calibro di un assestamento più che ottico, memoriale e affettivo. Un tema, si diceva, che non impegna l'artista in immagini da reportage, ma che sollecita ad un vedere più profondo; e tutto questo con il fare spontaneo e durevole di quella cultura sorgiva e popolare che viene a saldarsi con un risvolto più intellettualmente elaborato. Il risultato è apprezzabile: perchè ha un riscontro nella verità per la quale tutti hanno cuore e occhi.
SANTO DI BIANCA
Mostra d'Arte
COMUNE DI MONREALE
dal catalogo di Nicolò D'Alessandro
"ANTOLOGICA DI OPERE DAL 1962 AL 1989"
GIOVANNI LETO, Artista monrealese
Christian Rohfs, un pittore impressionista morto nel 1938, formatosi sulle esperienze di quel naturalismo tedesco sensibile al paesaggismo della Scuola di Barbizon, così scriveva ad un critico: La creazione artistica viene da un istinto molto intimo? La ragione ha solo la funzione di un servo, cioè, di mandar via gli invitati che si comportano rumorosamente e quelli sconosciuti.
Senza voler prendere le cose dall'alto e venendo, con semplicità, a parlare di Pino Scalici, riteniamo di poter dire che i suoi quadri sono la trascrizione istintiva che l'animo gli detta.
L'osservatore, nelle opere di questo giovane artista, vi scopre da solo una testimonianza di amore per l'arte.
Pino Scalici realizza, con singolare attitudine inventiva, paesaggi che, pur potendo coincidere con immagini reali, hanno i contorni e i confini inafferrabili dello spazio segreto della sua anima alla ricerca di un ordine interiore.
Pino Scalici è portato a credere soprattutto a quello che si può vedere e questo perchè è probabile che egli pensi che la percezione e l'acutezza della visualità, il rapporto tra l'opera e chi guarda, comprendano insieme l'illimitatezza temporale e spaziale.
In fondo, anche se l'osservatore dispone, apparentemente, di pochi elementi, è chiaro che lo Scalici si cimenta in un tema che a lui (docente ordinario di lettere) deve essere congeniale: il rapporto tra l'uomo e lo spazio, l'immensità.
Dipingere per lui non è, pertanto, solo un fatto istintivo ma è anche il senso di un impegno culturale ed esistenziale molto importante.
Nelle sue opere perviene ad esiti notevoli con concettuale sottiglienza e con sobrie ascendenze documentate dalla pittura, la quale è ad un tempo compatta e conclusiva ed anche e soprattutto fresca e umorosa.
Per questo le sue opere recano il segno di una dedizione all'arte e ad una disciplina magistrale: nella evocazione irreale e pur fedele del paesaggio, nella trepida fermezza cromatica che ne precisa i particolari e li trasferisce in una accezione poetica, nelle volate impennate del colore, che talvolta si accende di toni surreali, per confermare il calibro di un assestamento più che ottico, memoriale e affettivo. Un tema, si diceva, che non impegna l'artista in immagini da reportage, ma che sollecita ad un vedere più profondo; e tutto questo con il fare spontaneo e durevole di quella cultura sorgiva e popolare che viene a saldarsi con un risvolto più intellettualmente elaborato. Il risultato è apprezzabile: perchè ha un riscontro nella verità per la quale tutti hanno cuore e occhi.
Prof. Pino Giacopelli
Chiostro dei Benedettini di Monreale
La preghiera
Una luce biancastra
dai colori di morte
illumina la piazza,
brulicante di teste
con fronte, occhi, bocca
in supplichevole preghiera.
Mani nervose
scorrono i nodi
di un rosario interminabile.
Piedi nudi
calpestano
cocci di bottiglia
taglienti,
sanguinando.
Devozione
superstizione
paura
desideri insoddisfatti
angosce senza perché
tutto è in Lui.
SANTO DI BIANCA
"Nel Duomo di Guglielmo
sopra gli ori dei santi e dei profeti
la termite insidiosa rode legni.
Non lontano dal duomo
Santo appresta
pietre sculte e disegni
nello studio che dà sulla stradetta
colorata di panni stesi al sole.
Le sue opere portano memoria
dei capitelli delle geminate
colonnine del chiostro,
di rovine riverse a Selinunte, di meandri a spirale sugli antichi
sepolcri di Sicilia.
Con occhio vitreo
un'ùpupa crestata
sorveglia immota.
Nella forma conclusa d'un pesante
marmo polito,
avvolta come corpo che riposa
s'indovina agitarsi tutta viva
la speranza puledra che conduce
da memorie remote a vita nuova."
MARCO BONAVIA
ANNO 1983
.....Cfr. Post
Mostra d'Arte
di
S I LV I O G U A R D I'
"L E F I L I G R A N E"
...Cfr. Post
8-22 Settembre 2012
ex Monastero Guglielmo II
Inaugurazione Sabato 8 settembre ore 17:00
COMUNE DI MONREALE
Provincia di Palermo
COMUNICATO STAMPA
LA FILIGRANA RIELABORATA DALL’ARTISTA SILVIO GUARDI’ DA SABATO IN MOSTRA ALL’EX MONASTERO DEI BENEDETTINI DI MONREALE
Sarà inaugurata sabato alle ore 17.00 la mostra “Le Filigrane” dedicata all’artista monrealese Silvio Guardì organizzata nella splendida cornice dell’ex Monastero dei Benedettini alla presenza del sindaco Filippo Di Matteo e dell’assessore alla Cultura Lia Giangreco. La mostra, curata in tutti i suoi particolari da Rosalba Madonia del settore Cultura del Comune e da Giorgio Guardì, sarà presentata dal critico d’arte e drammaturgo siciliano Aurelio Pes,
il quale ha dichiarato che queste opere in esposizione rappresentano una rievocazione di questa antica pratica della filigrana rielaborata magistralmente da Silvio Guardì su tela e su carta, con lo scopo di rendere l’invisibile o anima delle cose, palese agli occhi di tutti.
Queste opere fanno parte di una collezione privata che è stata spesso esposta in molti paesi europei.
TUTTI I GIORNI FERIALI DALLE 9.00 ALLE 19.00
FESTIVI 9.00- 13.00
Ex Monastero dei Benedettini "Santa Maria La Nuova"
Artista monrealese
dal catalogo di Nicolò D'Alessandro
"ANTOLOGICA DI OPERE DAL 1962 AL 1989"
Antonino Nacci, pittore e scultore, nasce a Monreale nel 1938.
Giovanissimo si trasferisce a Sciacca per insegnare presso l'Istituto Statale d'Arte e per un breve periodo, negli anni settanta, vive a Biella dove frequenta i circoli culturali del luogo. Importante il rapporto con il critico Albano Rossi che lo accompagnerà per tutta la sua vita artistica e con Fiamma Vigo, una delle più importanti galleriste italiane che abbiano promosso nel mondo l'arte astratta italiana dagli anni trenta agli anni settanta, che espone le opere del Maestro, nelle sue gallerie di Firenze, Venezia, Roma e Milano.
Antonino Nacci può essere considerato uno dei pionieri dell'arte materica-segnica in Sicilia. Grande sperimentatore, trae spunto e aderisce a diverse correnti pittoriche: astrattismo, informalismo, arte povera. La sua produzione artistica raggiungerà la piena maturità negli anni ottanta. Negli anni cinquanta e sessanta protagonisti della sua ricerca sono i materiali poveri: sacchi di tela, juta, ceramica, fil di ferro, carta, filo e colore che l'artista impagina in composizioni plastiche. La sperimentazione prosegue e con essa la ricerca di un linguaggio che sia "altro". Aderisce alla corrente delle astrazioni "geometriche", ancora ritagli di juta, ma questa volta la materia viene lavorata in "collages".
La sua pittura si fa ideologica nel periodo storico che vede i movimenti studenteschi del '68, la grande rivoluzione culturale, la guerra nel Vietnam e la sua arte diventa "grido di protesta" nei confronti delle ingiustizie del mondo. Ancora "collages", ma questa volta realizzati con ritagli di giornali che raccontano del mondo che sta cambiando e del mondo che non vuole cambiare.
Gli anni settanta si aprono con una nuova produzione artistica/concettuale: la "sabbia" diventa arte. Quella sabbia che Nacci raccoglie, amalgama con colla vinilica e poi stende sulla tela con decise spatolate ed infine incide, dando vita al suo mondo onirico. L'effetto è straordinario. La materia sporge dalla tela, disorientando l'osservatore che non può non toccare, la comprensione passa attraverso l'esperienza sensoriale del tatto.
Dapprima le incisioni sono segni rupestri su un manto di sabbia monocromo, poi il racconto si fa più emozionante; la "sabbia" si anima di ambientazioni e figure fiabesche coloratissime, frutto di un cambio netto della sua tavolozza. Un mondo a noi sconosciuto, un mondo ermetico ma che tuttavia trasmette serenità e pace, un mondo ideale cui tendere ed aspirare.
Infine, nella produzione dell'ultimo periodo, la pace sembra persa. I colori della tavolozza diventano il nero e il rosso intenso e il mondo stagione geometrica più sofferta, ma non meno intensa ed affascinante.
Il racconto, ahimè, volge al termine. Ci rimane da porci una domanda che putroppo non troverà risposta: cosa sarebbe stato dopo? Antonino Nacci muore a Sciacca nel luglio del 1989. Aveva cinquant'anni. Le sue opere sono presenti in molte collezioni pubbliche e private.
Dapprima le incisioni sono segni rupestri su un manto di sabbia monocromo, poi il racconto si fa più emozionante; la "sabbia" si anima di ambientazioni e figure fiabesche coloratissime, frutto di un cambio netto della sua tavolozza. Un mondo a noi sconosciuto, un mondo ermetico ma che tuttavia trasmette serenità e pace, un mondo ideale cui tendere ed aspirare.
Infine, nella produzione dell'ultimo periodo, la pace sembra persa. I colori della tavolozza diventano il nero e il rosso intenso e il mondo stagione geometrica più sofferta, ma non meno intensa ed affascinante.
Il racconto, ahimè, volge al termine. Ci rimane da porci una domanda che putroppo non troverà risposta: cosa sarebbe stato dopo? Antonino Nacci muore a Sciacca nel luglio del 1989. Aveva cinquant'anni. Le sue opere sono presenti in molte collezioni pubbliche e private.
ANDREA NACCI
Gli anni della contestazione e l'impegno ideologico
di Nicolò D'Alessandro
.....Cfr. Post
Gli anni della contestazione e l'impegno ideologico
.....Cfr. Post
OGGETTI E SCULTURE IN CERAMICA
Civica Galleria d'Arte Moderna
"GIUSEPPE SCIORTINO"
MONREALE 22 Ottobre / 10 Novembre 2011
"GIUSEPPE SCIORTINO"
MONREALE 22 Ottobre / 10 Novembre 2011
ex Monastero dei Benedettini
GIOVANNI LETO, Artista monrealese
All'indomani della II^ Guerra Mondiale, pittori, filosofi, poeti, letterati iniziano già ad offrire il ritratto dell'uomo contemporaneo.
Il rifiuto della rappresentazione naturalistica accomuna quanti scelsero la libera interpretazione dell'apparenza, obbedendo alla volontà di far conoscere le proprie emozioni, i tanti perchè, al di là della loro esistenza fisica.
La Sicilia partecipa attivamente agli interscambi filosofici ed estetici e ciò, fa sì che artisti siciliani mostrino molta attenzione sui molteplici aspetti dell'arte che è universale.
... La mia "anima", all'età di dieci anni circa, è segnata da una foto voluta da mia madre che mi ritrae in calzoni corti e bretelle a bordo di una Vespa, che non mi appartiene, e fingere di guidarla.
E' una foto che nell'immaginario di mia madre doveva servire a nascondere la realtà di stenti che la mia famiglia viveva ed è proprio nel posare per questa che passo da un'età candida e spensierata ad una condizione in cui, anch'io come mia madre, avverto un senso di vergogna della povertà, e in più, un senso di pudore, quasi una colpa, per la passione che ho per la pittura, una passione sempre più costosa.
Sono sentimenti iniziali che mi fanno sentire gli ori musivi tardo-bizantini dell'imponente Duomo di Monreale, a ridosso del quale sono nato (nel quartiere Ciambra), come eccessiva, impietosa, ostentazione di sfarzo, posto lì a sottolineare, per contrasto, la miseria circostante.
accanto a questo sentire, fondamentale è, nella mia infanzia, l'anima che ho ricevuto da mio padre: uno "compagno" che poneva innanzi tutto il Partito, ovvero il bene comune anche quando questo era, sempre più spesso, a scapito del bene della famiglia.
Nei momenti in cui mia madre si lamentava per la vita di stenti che era costretta a vivere a causa delle sue idee, lui coglieva l'occasione per insegnarmi che, per difendere i valori in cui uno crede, diventa necessario, qualche volta, fare delle rinunce.
...La storia dell'Unità a casa mia è lunga:
una volta letto, era ripiegato in quattro ed usato a mò di paletta per ammazzare mosche e fastidiose zanzare; mia madre poi, il cui odio crescente per quel giornale era infinito, quando non lo gettava direttamente nell'immondizia, ne riduceva, spesso rabbiosamente, i fogli in torce (quasi come oggi faccio io)per accendere i fornelli: Per me che con quel giornale ero stato allevato, diveniva invece, dagli anni Sessanta, lo strumento che, con i suoi contenuti, mi permetteva di tramutare il mio senso di vergogna della povertà in passione per le lotte civili, e poi, dall'ottantacinque, materiale quasi esclusivo con cui realizzare le mie opere...i fogli di giornale selezionati per tipi di carattere tipografico che vi sono impressi, per tipo d'immagini, di colore e digrana, sono proprio i miei umori tattili oltre che visivi a guidarmi.
Inizio attorcigliando uno per volta i fogli di giornale, riducendo in pieghe le notizie e i caratteri di scrittura che questi contengono, sino a caricarli di altri significati. Poi li dispongo sulla superficie dell'opera, stretti tra loro per lo più orizzontalmente, a formare quasi una muraglia e/o, assecondando le forme che pian piano scaturiscono dai loro accostamenti. La manualità connessa a queste operazioni mi conduce oltre lo "specchio di Narciso", a sentire anche fisicamente la materia. la fase successiva consiste nel lacerare, strappare, rendere penzolanti qui e là, quei cordoni di carta ravvolti che, nel loro insieme, mi appaiono ancora rigidi o poco manipolati e sofferti. E' un lavoro che coinvolge quasi tutti i sensi, a tratti lucido, misurato, "da vero architetto di discariche", a tratti istintivo.
In alcuni momenti mi ritrovo ad avere in mano più cordoni di carta, pronti come frecce di Cupido ad essere incollati simultaneamente sulla superficie, o come astrali della mitologia, diretti a squarciare il cielo. Più cresce l'opera e più i gesti diventano rapidi, convulsi, indirizzati a ricavare sentieri che s'inerpicano, scrimoli, orli penzolanti. Non si tratta di un procederre per accumulo (l'accumulo sa di operazione disordinata e distratta), semmai d'accostamenti suggeriti, dalla "logica del cuore".
Appena l'ultimo cartoccio e gli altri materiali trovano posto e la materia nel suo insieme si presenta corposa, eppure silenziosa, svuotata quasi dei suoi significati iniziali, immersa in una luce "atea", come alla fonte d'ogni possibile citazione, è il segnale che l'opera è conclusa.
(da un'intervista di Anna D'Elia)
Giovanni Leto
Artista monrealese
Artista monrealese
"OPERE RECENTI"
[Cfr. altro Post sull'Artista in data 19 Giugno 2012]
contemporarya r t e
PANCALDI
“MARILYN FOREVER”
Per i cinquanta anni dalla scomparsa avvenuta innaturalmente nella sua casa a Brentwood, Los Angeles (CA) (1.06.1926 / 5.08.1962)
UNA MOSTRA PER L’ESTATE
Come consuetudine siamo all’appuntamento estivo. A seguito delle precedenti esposizioni dedicate ai cinquanta anni dalla scomparsa di Norma Jane in arte Marilyn Monroe realizzate presso la pinacoteca di Forlì al Palazzo Albertini “Marilyn Monroe 1962 – 2012 L’arte e il mito”ed in questa sede “Norma Jane detta Marilyn Monroe” viene esposta la cartella delle dieci Marilyn nella versione Sunday B. Morning ed una rassegna di ventiquattro opere formato 24x24 tutte ugualmente incorniciate che in sequenza simboleggiano i fotogrammi della pellicola fotografica. Questa rassegna costituisce una preview di un progetto più ampio che verrà riproposto in altra sede dedicato appunto alla Monroe attrice.
A & C –Dario BREVI – Tommaso CASCELLA – Chérif&Geza (KRM) – Angelo COLAGROSSI – Jakob De CHIRICO –Paolo DOLZAN – Piermario DORIGATTI –HECTOR & HECTOR – Paul KOSTABI –Mojmir JEZEK –
Mauro MAGNI – Enrico MANERA – Lucia MARCUCCI –Renato MENEGHETTI – Antonio MURGIA –Maria MURGIA –Ugo NESPOLO–Mirko PAGLIACCI – Lamberto PIGNOTTI –Massimo SANSAVINI–Croce TARAVELLA–Serge UBERTI
e
Giovanni LETO
GIOVANNI LETO - "Marilyn, Baciami di nuovo" - carta e acrilici su legno, cm 24x24
Roma 00191 via Antonio Serra, 78
063336798pancaldiarte@hotmail.comme-ve
15,30/19,30 lu-ma app.to