conca d'oro di E. N. della Miraglia






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Emanuele Navarro della Miraglia

LA CONCA D ORO

Un semicerchio di montagne,, una valle che ha circa trenta leghe di periferia e che si stende fino al mare dove Palermo si specchia e si bagna; ecco la Conca d'Oro.

Il nome, di origine antica, e' forse dovuto alla bellezza del paesaggio e alla fertilita' del suolo. Le montagne poco levate, ricordano l Africa, sono biancastre, sassose, ripide. I citisi,i terebinti e gli euforbi, verdeggiano nelle spaccature inaccessibili. Le coste sono piantate a fichi, a sommacco, a vigne, a fichi d' India, ad ulivi. La valle e' un bosco fiorito di aranci, di tutte le piante de' climi caldi, di melagrani, di palme, di muse, di agavi, di nespolo giapponesi e di frassini stillanti manna.

molte sorgenti di acqua purissima sgorgano in diversi luoghi. l ,Oreto, un fiumicello modesto, scorre fra due rive incantevoli. La valle e' circonfusa spesso di vapori candidi che il sole tinge nel modo piu' vago e cangiante, che il vento dissolve o aggruppa in mille forme bizzarre. In certe ore, all' alba o al tramonto, il cielo e il mare si colorano di toni dorati e rutilanti. Le cime aduste delle montagne spaccano precise e nette sul fondo del quadro. L ' occhio resta pensoso e l' anima sogna. I sensi, stuzzicati dal profumo dei fiori d'arancio subiscono impressioni squisite, risentono aspirazioni acri e molli ad un tempo.
Da un lato, la Conca d' Oro e' chiusa dal monte Pellegrino su cui si trova, scavato nel vivo sasso, l eremitaggio di Santa Rosalia. Dall altro lato a pie' del Catalfano, la valle si prolunga e lascia travedere le splendide ville e i bianchi villaggi che sorgono dappertutto, in mezzo agli alberi. Qui si vede la Favorita, una graziosa palazzina reale. La' torreggia la Belmontina, una dimora proprio incantata. Più lungi c’è l’Olivuzza, colle sue logge a balaustri, con le terrazze a colonne, coi giardinetti pensili. Un vecchio castello in rovine si rizza sopra un colle. A diritta sta la Cuba, a sinistra la Favara, nel centro la Zisa – tre stupendi palazzi moreschi. In fondo biancheggiano le case del Parco e la cupola di San Martino – un convento artistico. Poco discosto è Monreale, con le sue torri brune, con le sue rupi grigie, col suo tempio inondato di luce, splendente di mosaici e d’oro. I viali di campagna sono, in gran parte, fiancheggiati di mura. Cosi, l’orizzonte è spesso limitato. Il cuore si sente compresso. Ad ora ad ora, camminando, si vede un cancello di ferro. Ai lati, su due colonne sorgono due vasi di porcellana dipinta, dove fiorisce il geranio. L’aralia, l’aloè, il cacto a forma di lampadario ed a fiori gialli. Dietro i cancelli, i contadini zappano l’orto. O colgono i limoni  e le fragole. Mentre le villeggianti giocano al volano sull’erba, o fanno partire i palloni. Né villaggi, le donne lavano, ginocchioni in riva ai ruscelli e stendono i loro cenci, su lunghe corde, al sole. Le oche e le anitre diguazzano nell’acqua. I fanciulli si chiamano tra loro e corono, soffiando nei bocciuoli di canna, da una punta dell’abitato all’altra. Il macellaio, pingue e floscio, dormicchia, coverto di mosche innanti alla bottega. Il venditore di cocomeri, ritto nel suo frascato. Fornisce per un soldo, ai passanti, da mangiare, da bere  e da lavarsi il volto. Chi passa? Qualche guardiano a piedi, qualche fattore a cavallo. I guardiani vanno mogi mogi, col capo chino e col fucile in spalla. I fattori hanno le selle ad arcioni rilevati, coverte da grandi pelli di montone a lungo pelo. Le carrozze sono scarse, meschine, polverose, tirate da certe brenne consunte cui nulla spinge, né la frusta chiassosa, né la voce dè vetturini, né lo scampanio assordante dè sonagli. Ai carri, il più delle volte, è attaccato un mulo. Sono piccoli, alti, a due ruote. La sala è di ferro lavorato, a trafori, a ghirigori, a filigrane rozze. La cassa è dipinta di giallo, ornata di figure strane: soldati, frati, monache, madonne, dragoni alati e Cristi grondanti sangue. Palermo si stende nella pianura, alle falde del Pellegrino che ripara dai venti nordici. Essa produce una singolare impressione, quando vi si giunge per la prima volta o dopo una lunga assenza. Già, lontano, dal mare, si scorgeva l’isola che, secondo dice Dante, caliga fra Pachino e Peloro. Una densa nuvola di vapori impalpabili la cinge all’intorno e la tinge di colori caldissimi. Lo sguardo abbarbagliato e sedotto, scorge, come a traverso un prisma, la città, le montagne, i villaggi e le ville delinearsi confusamente sopra un fondo di luce ranciata e rossastra. Lo spettacolo è così nuovo, così bello, così attraente, che il cuore batte più forte, commosso da una dolce esultanza. Si è ancora discosti dalla riva, ma nondimeno il pensiero corre impaziente, e indovina, e presentisce le svariate sorprese che l’attendono.
Appena scesi a terra, se si va un poco a zonzo per le vie, par d’essere in una città fabbricata dagl’Italiani, dagli Spagnoli e dai Mori insieme. Il bello e il brutto si alternano, il grandioso e il gretto si confondono, l’opulenza e la miseria si danno spesso la mano. Ogni dominazione ha lasciato la sua impronta sugli edifizii pubblici e sulle case: qui c’è una chiesa che era una moschea; lì si vede un palazzo che ha una specie di patio; più lungi fila di catapecchie, senza luce, senz’aria, come nel Basso Porto di Napoli; dovunque si succedono i balconi di ferro, i veroni di pietra o di marmo, le terrazze su cui fioriscono i gelsomini d’Arabia e gli aranci, le logge di legno tinto, chiuse da grandi persiane verdi dietro cui le signore guardano, indolenti e pigre, come le odalische  dell’arem. Un incanto soave, una magia senza nome spirano dall’insieme e piovono dentro il cuore, ad ogni passo. Le guglie, le cupole, i campanili incrostati di maiolica si slanciano, da tutte le parti, in aria, e splendono di mille raggi rifratti. Il cielo è cosi azzurro, così profondo, così diafano che pare infinito.  Le vie, ora diritte e lunghe,ora sinuose, intralciate, strette, echeggiano di rumori e di voci. La folla è screziata, un po’ troppo popolare forse, un po’ trasandata e sciatta. Le carrozze di affitto corrono, come il vento, e numerose, in ogni direzione. Le donne del volgo passano, portando un fazzoletto intorno al capo e uno sciale di lana, a scacchi od a righe, sugli omeri, gli uomini vanno mogi mogi, o cianciano ad alta voce, tra loro, gesticolando, e muovendo quasi in cadenza tutto il corpo. E i venditori di pesci, di frutta, di verdura, gridano, tenendo una gran cesta e una bilancia in mano, sciorinando la loro roba sui marciapiedi, innanzi alla poste delle farmacie e de’ circoli dove le persone a modo pigliano il fresco e fumano. I friggitori gridano anch’essi, vestiti di bianco e grondanti di sudore, presso i loro fornelli coperti di mattoni verniciati, su cui le caldaie bollono. Le brune acquaiole ripuliscono i bicchieri, nude le braccia fino al gomito, dentro le vaschette di marmo. I preti vanno distribuendo le benedizioni, il tabacco e i numeri, di bottega in bottega. Un uomo, un muezzino,mormora presso la gradinata di qualche chiesa. – La messa!  È uscita or ora ; la messa, o divoti, la messa!
Di tratto in tratto, si vede l’immagine di qualche Madonna, dipinta o scolpita, nelle vie, in un angolo. La gente del popolo s’inchina, si scopre, fa il segno della croce e biscica un’avemaria, passando. Altre Madonne si scorgono nelle botteghe e nelle case dè poveri, della strada.
Verso sera, quando la temperatura diventa fresca, la classe eletta vien fuori e le vie principali si riempio nodi legni più o meno eleganti. La passeggiata ò, per una gran parte dell’anno, la sola distrazione, il solo divertimento di cui si goda a Palermo. Ci si va per passarsi in rivista, ogni giorno, gli uni e gli altri; ci si va per dire alle donne, e per lasciarsi dire, mille tenere cose, cogli occhi. I giovanotti, vestiti correttamente, pettinati, profumati, inguantati, vanno frettolosi innanzi e indietro, nella via Macqueda o nel Cassaro, salutando con disinvoltura a dritta ed a manca. Alcuni guidano due focosi cavalli friulani o sardi; alcuni altri si sdraiano dentro una cittadina, incrociando le gambe su’ cuscini e toccano di quando in quando con la piccola mazza, il cocchiere al fianco, per fargli intendere che bisogna andare in un senso o nell’altro. Le signore che non hanno carrozza, guardano dai balconi o dà terrazzi, punte dal desiderio, rese malinconiche dalla privazione. Le altre si pavoneggiano    dentro un legno, spesso molto bello, ma spesso ancora dentro una carrega qualunque. Ciò che più loro importa è di non mostrarsi in strada, a piedi. Alcune salirebbero nella vettura del diavolo, se il diavolo volesse condurle alla Mariana o al Giardino Inglese. Ah. Se potessi farvi vedere quelle passeggiate splendide! Il Giardino Inglese non ha forse nulla da invidiare all’orto delle Esperidi. Vi si giunge a traverso un lungo e stretto viale piantato di platani, fiancheggiato di aranci, di opunzie, di ulivi e di mandarli. Un monastero, una chiesuola, una casa bianca, una villa sontuosa, sorgono qui, là, più lontano. Da un lato, la campagna finisce al mare, dall’altro lato è chiusa da un cerchio di pittoresche montagne; rimpetto, in fondo, si rizza il monte Pellegrino. Le piante dei tropici, i limoni fioriti, le magnolie, i nespoli del Giappone, le rose, tramandano un profumo che rammollisce i nervi, turba l’intelligenza ed inebria i sensi. E le carrozze sfilano e i pedoni passano. E il fruscio delle vesti, e l’agitarsi dei ventagli, e i sorrisi e i cenni della mano e gli sguardi lunghi ed intensi delle signore infiammano il sangue: la mente si offusca, le idee si confondono, si ha il capogiro. A notte, si passeggia alla Marina. Immaginate uno spazioso viale. A sinistra, un alto marciapiedi decorato, ad intervalli, di sedili, e lambito in tutta la sua lunghezza, dal mare. A diritta, un altro viale meno largo, e poi un altro dove sorge una doppia fila d’alberi di corallo, carichi di fiocchettini rosse. Quindi le antiche mura della città, e su quelle mura un’altra passeggiata vaghissima, tutta piena di arboscelli e di fiori. Infine un lungo prospetto di palazzi vetusti, ornati di terrazzi, di balconi, di cupolini e di chioschi. L’orizzonte è vasto, pittoresco, incantevole. La luna o le stelle rischiarano in modo sorprendente la riva sinuosa e il passaggio lontano. La via lattea vince quasi la luce dè cento becchi di gaz che splendono intorno a una specie di loggia, tutta colonne, dove  un’orchestra suona. ……E frattanto. l'eco ripercuote. in lontanaza. le musiche....











Raccolta di Proverbi di A. Veneziano

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RACCOLTA
di
PROVERBI
SICILIANI
in ottava Rima
di
ANTONI VENEZIANU



Tintu cui fervi ad un patruni ingratu
 
Guai pri cui lassa chiddu chi c’è datu

Stultu cu cerca risposta d’un mutu

Infami cui a lu mali sta ostinatu 
 
Miseru cui nun ha riparu o scutu 

Scuntenti cui d’amuri è travagghiatu 

Tintu cui cadi pri chiamari  aiutu 

Vidi, e taci si beni aviri voi 

La cosa nu la diri si nun sai

Vogghini chiù pri li vicini toi

Chi non pri cui nu  lu vidissi mai 

Ama l’amicu cu li vizii soi 

Porta rispettu a locu undi stai 

Nun fari cchiù di chiddu chi tu poi

Cui voli focu assai porti assai ligna

Lu mugghi è stari sulu a la tua vigna

Chi cui sta sulu di nuddu si lagna

Lu mottu anticu lu modu m’insigna 

Cui ioca sulu sulu mai s’incagna 

L’omu com’omu và cu lu cumpassu

E cerca sempri bonazza e riddossu 

E cui và in fretta cadi stancu, e lassu

La navi nun ha pedi e fa gran passu

La lingua nun ha ossu e rumpi l’ossu

La tila si tessi senza spola 

Lu tronu li cosi auti rumpi, e scala

Tuttu lu munnu è comu casa nostra 

A lu nnimicu la corda ci at isa
A la tua porta mal’omu nun trasa

Nun dari mai lu piru pi cirasa

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