MUSICA: ARETHA FRANKLIN

ARETHA FRANKLIN





Emoziona la recente scomparsa di ARETHA FRANKLIN, la <Regina del Soul>.
Nella camera ardente, allestita al Museo di storia afro-americana di Detroit, viene adagiata su una bara dorata con abito e scarpe rosse.
Aretha Franklin (marzo 1942-agosto2018)
è stata una cantante principalmente emotiva, che lega il suo canto, la sua innata musicalità e improvvisazione alla musica e all'esperienza nel jazz e generalmente nella musica nera, diventando così una delle fondatrici, se non probabilmente la principale, della musica soul.
La musica SOUL (musica dell’ANIMA dall’inglese) è una musica popolare afro-americana nata verso la fine degli anni ’50 negli Stati Uniti che affonda le sue radici nel Gospel (sacro)e Rhyhm and blues (profano).


(Libri in Biblioteca)


                  LA MUSICA NERA DAL VECCHIO AL NUOVO MONDO
di Pippo Catanzaro

< Il concetto di schiavitù cioè del possesso ed uso di persone/cose da parte di soggetti dominanti, ha connotato la storia dell’umanità.
…le tematiche legate al concetto ed alla pratica della schiavitù hanno, inoltre, permesso la nascita e l’evoluzione di concezioni religiose che hanno, nel corso dei secoli, condizionato la vita di vaste zone del pianeta.
…Il fenomeno ben presente, … è stato la violenta deportazione delle popolazioni negre dai territori africani.
…L’alibi religioso della <cristianizzazione> di terre lontane popolate da “selvaggi”, permise a spagnoli e portoghesi di inviare, oltre gli eserciti, anche un nutrito stuolo di religiosi e monaci che, alcuni per vocazione altri per punizione, si dedicarono alla evangelizzazione di quei territori anche attraverso l’attività musicale. E se da un lato congrua fu la produzione di carattere sacro, d’altro canto la produzione di carattere profano e popolare- villancicos, calindas, negrillas- non fu certamente inferiore né per numero né per diffusione.
…Molti strumenti che diverranno peculiari della cultura afroamericana, come il banjo e la marimba, saranno il frutto della ibridazione della nuova cultura che andava via via formandosi; specialmente fra gli schiavi negri iniziò a diffondersi l’uso di possedere e portare con sé uno strumento, retaggio della cultura animista africana……per lunghissimo tempo…nel contesto coloniale  …travagliato, i gruppi bandistico-militari, di antica matrice europea, acquistarono rilevanza divenendo …componente non secondaria della storia e della cultura musicale degli Stati Uniti; la costante presenza dei musicisti neri all’interno delle bande militari favorirà infatti, il successivo sviluppo umano e professionale di intere generazioni di jazzisti…..
In un clima di grandi modificazioni sociali, politiche e culturali,,,,negli stati Uniti la cultura musicale ottocentesca si trovò ad accogliere un gran numero di musicisti, spesso dilettanti, di provenienza mitteleuropea…i quali, seguendo un imponente flusso migratorio, si trasferivano nel Nuovo Mondo, sia per motivi economici che politici, divenendo insegnanti e diffondendo la cultura musicale e bandistica europea.
…Nel 1863, sotto la presidenza Lincoln, veniva proclamata l’abolizione (formale) della schiavitù ed alla fine della guerra civile americana, nel decennio che va dal 1865 al 1875, malgrado il razzismo latente, i negri ebbero accesso al voto eleggendo i loro rappresentanti e tentando di assumere un ruolo di maggiore consapevolezza e dignità sociale.
Questo processo evolutivo venne interrotto…. Il movimento schiavista si riorganizzò …e tornò a fa sentire il peso della discriminazione razziale; negli ultimi anni dell’’800…la società negra subì una progressiva disgregazione ed alle numerose comunità nere andarono sostituendosi individui in gran parte emarginati che vivevano di stenti e di espedienti…
La questione… della piena emancipazione ed integrazione sociale dei neri-americani.
…Il movimento delle chiese negre diventò il principale strumento contro la cultura schiavista ed emblematica organizzazione di coordinamento delle attività interne ed esterne alle comunità nere dando, quindi, uno slancio molto importante sia alla pratica che alla didattica musicale negra. Nel contesto di queste attività si afferma la cultura degli spirituals: formazioni prevalentemente vocali di negri cantavano brani popolari armonizzati in maniera colta, riscuotendo il gradimento del pubblico bianco ed attuando una pacifica rivoluzione malgrado gli equivoci e le inevitabili contraddizioni. Ma poiché il negro è sempre vissuto in stretta relazione con la realtà circostante, con i suoi affetti e la sua musica, si passò da una concezione corale, che aveva nei canti di lavoro e negli spirituals un forte veicolo di identità collettiva, ad una pratica individuale e spesso isolata: nasceva il blues.
In un contesto ambientale lontano dai grandi centri urbani, il negro, per evidenti esigenze di mutuo e reciproco sostegno, cerca momenti di aggregazione culturale ed umana che avranno come centro di coagulo forme di luogo-ritrovo in cui la musica popolare nera troverà stimoli, sangue e forza per affermare il suo diritto di cittadinanza. Lop strazio per le inumane condizioni di vita che connota il contesto inizaile del linguaggio blues, si estrinseca attraverso riferimenti tipici della cultura africana…
Attraverso una musicalità esasperata….il blues… diverrà nel tempo, laico tramite per narrare la lucida disperazione, velata di antica e quotidiana ironia, dei neri americani…..
Nonostante le difficoltà geografiche, politiche e razziali, i negri, attraverso varie etichette discografiche iniziarono a diffondere il loro suono ed i loro ritmi usando un nuovo linguaggio dove grande rilevanza veniva attribuita all’improvvisazione…
Il Jazz esplose in maniera abbastanza rapida: gli americani lo scoprirono alla fine della prima guerra mondiale e cominciarono ad apprezzarne il suono…con il jazz, l’America di quegli anni tentava di vincere la scommessa su cui aveva basato il senso della propria fondazione: la frantumazione della barriera che divideva il “colto” dal “popolare”. …Il linguaggio bandistico statunitense, il duplice linguaggio del blues, il linguaggio afro-cubano ed infine il ragtime, divennero elementi la cui mescolanza in una città-laboratorio come New-Orleans, fece deflagare quella miscela esplosiva che verrà poi definita jazz.
La voglia di crescere, di reperire nuovi mercati ampliando ed innovando le tecniche ed il linguaggio era forte e da New Orleans e dai territori del sud, i musicisti iniziarono a migrare verso altre direzioni.
Il jazz si avviava verso una rapida evoluzione per divenire forma d’arte squisitamente americana …esportabile in tutto il mondo.>



Nel 1967 Aretha Franklin riprende una canzone “RESPECT” incisa nel 1965 dal cantante statunitense Otis Redding, che diverrà uno dei suoi più grandi successi.
La versione della Franklin diventa un inno dei movimenti femministi e per l ‘abolizione delle forme di apartheid a danno della minoranza afroamericana: la richiesta di "rispetto" viene allargata all’intera società statunitense.



Il giornale L'ORA



 LIBRI IN BIBLIOTECA...

Era L'Ora 
Il giornale che fece storia e scuola 
a cura di Michele Figurellia e Franco Nicastro




L’Ora di Palermo non fu solo una testata giornalistica. Fu un laboratorio di idee, un luogo di confronto vivace e irriverente, un presidio e uno strumento di battaglia civile, un punto di riferimento culturale e politico in un momento di grande cambiamento sociale locale e nazionale.
Tra il 1954 e il 1975 il giornale L’Ora di Palermo fu diretto da Vittorio Nisticò. Fu un’esperienza di grande valore storico, politico e giornalistico. Il giornale svolse un ruolo riconosciuto di strumento di progresso civile e fu un punto di riferimento per le battaglie contro l’intreccio di poteri e interessi tra la mafia e la politica in una fase di sviluppo e di trasformazioni della società siciliana. Riuscì a dare alla sua identità di sinistra la connotazione di un’apertura verso le forze democratiche. L’arrivo di Nisticò alla guida del quotidiano segnò, infatti, una svolta. Dalla grafica alla selezione delle notizie, la testata subì dei mutamenti tali nella produzione di inchieste, da vederla sempre più vorticosamente impegnata in prima linea nella battaglia contro il fenomeno mafioso in Sicilia. Pubblicazioni regolari e inesorabili di fatti, foto, nomi, collegamenti tra politica e cosche siciliane, Il 19 ottobre del 1958 la Mafia si fece sentire: al sede della redazione saltò in aria. Il giorno successivo L’Ora titolò: La mafia ci minaccia, l’inchiesta continua. Tutta l’Italia e persino una fetta di mondo con il fiato sospeso ormai ne seguivano appassionatamente i dossier e le vicende. La sua capacità di dare alla lettura dei fatti locali un respiro nazionale  e internazionale, riuscendo a suscitare l’attenzione delle grandi testate e l’interesse del cinema e della televisione, gli valse il riconoscimento di essere una prestigiosa scuola di giornalismo e una vera e propria “fabbrica delle notizie”.



Vittorio Nisticò: "ACCADEVA IN SICILIA" Gli anni ruggenti dell'<Ora> di Palermo


<Comunicare la notizia, ma anche l’emozione>. Era questo, secondo il giudizio di un suo giornalista, la formula dello stile (e del successo) di un giornale sicilaino, antigovernativo per nascita e vocazione, restato nella memoria e nella storia. <L’Ora> quotidiano della sera, era nato a inizio del ‘900, organo della nuova borghesia antiprotezionistica emersa a seguito della fortuna dei Florio; aveva poi attraversato il Fascismo, divenendo, fortuitamente ma inesorabilmente, un centro di viva opposizione fino a che aveva potuto. Ma la stagione di gloria venne nel dopoguerra, dopo la lunga depressione del Fascismo. La Sicilia giocava la carta della sua rinascita, L’autonomia regionale, la riforma agraria, la tentata industrializzazione, il poco di miracolo economico precipitato nell’isola: <L’Ora> ebbe la capacità e l’opportunità di connettersi a quel rinnovamento, divenendo voce di tutti gli ambienti che esprimevano desiderio di novità, e si aggrappavano al giornale come alla fonte di una libertà di parola riacquistata dopo tempi di silenzio vissuti come immemorabili; collocandosi anche nella prima linea della polemica contro la faccia negativa di quel rinnovamento: la nuova Mafia, l’emergere del sistema di potere clientelare, la nascita dei nuovi potentati economici abbarbicati alla spesa regionale e meridionalistica, la resistenza dei ceti feudali. 1955-1975 un ventennio di giornale in mano a un solo direttore, Vittorio Nisticò. Che seppe circondarsi di tre generazioni di collaboratori, rappresentanti forse il meglio dell’intellettualità, oltre che del giornalismo siciliano: e il loro elenco rende semplicemente riassunto di una fetta importante della storia della cultura e della stampa nazionali fino ad oggi. Essi fecero del loro giornale il portatore di due primati. Uno tragico: il maggior numero di giornalisti uccisi nella storia forse della stampa italiana. Uno frivolo: il foglio di informazione più cinematografico. Attraverso gli editoriali del direttore, una cronologia ed un elenco ragionato dei principali servizi giornalistici dell’intero ventennio, questo libro ricostruisce la storia anche più intima dell’<Ora>. Che diventa in realtà, come sempre quando si racconta della vita di un giornale, documento di riflessione del nostro passato, recente e già in pericolo di entrare nella zona grigia dell’oblio. La storia, cioè, attraverso la notizia, ma anche l’emozione.

Nel 1973 al direttore e alla redazione dell’<Ora> venne assegnato dai giornalisti milanesi il tradizionale <Premiolino>, con riferimento all’attività e al ruolo svolto in molti anni difficili: <A Vittorio Nisticò de “L’Ora” che, insieme ai suoi giovani redattori, da molti anni sostiene con coraggio e con un giornalismo tecnicamente molto efficace una battaglia civile quotidiana contro la mafia e contro la collusione fra le forze della criminalità e il sottogoverno, contribuendo a migliorare  il livello sociale e culturale della Sicilia, Con Nisticò premiamo anche il sacrificio e il coraggio di alcuni suoi redattori che, unici nella storia del giornalismo italiano, del dopoguerra, hanno pagato con la vita la coerenza ai loro impegni e l’amore al loro mestiere>.



ed ancora dalle pagine de L'Ora, 


LA SFINGE di Luigi Capuana

STORIE DI PROVINCIA di Nino savarese



ALL'ALBA DEL SECOLO di Napoleone Colajanni



LETTERE ALLA SICILIA di Piero Gobetti



ALTA SOCIETA' di Matilde Serao



RACCONTI SICILIANI di Capuana-Verga-Pirandello

salse, spezie e vino per un banchetto





Libri in biblioteca……


FEDERICO II E LA CULTURA DEL DUECENTO IN SICILIA



SALSE, SPEZIE E VINO PER UN BANCHETTO"
                                                                                            di Marisa Buscemi
pag. 225


… attraverso un breve excursus storico-alimentare si può giungere al banchetto federiciano simbolo socio-gastronomico di quel sincretismo latino-barbarico cui va anche riannodata la novità progettuale dell’epoca federiciana. Una novità che consiste in due interessanti, inconsapevoli, linee programmatiche da cui si organizza nel tempo l’embrione di altrettante modalità di studio sugli usi alimentari, una più scientifica che si afferma nel XIX secolo, che è la scienza dell’alimentazione, un’altra più legata al piacere del cibo che alla necessità di introdurlo, che è la gastronomia.
Si può affermare infatti che tutte due gli indirizzi trovano la loro origine nel regola sanitaria salernitana, dove ai consigli dietetici di tipo medico si associano anche consigli di tipo squisitamente gastronomico. Dal Flos Medincinae Salemi, che è il frutto della sintesi operata da collaborazione dei docenti della Scuola salernitana di cui era protettrice Santa Caterina, si possono attingere informazioni sui rimedi generali; ama anche sul modo di dar conforto al cervello, sull’opportunità di dormire al pomeriggio, o di che cosa si debba mangiare a cena, quali siano i cibi nutrienti o ingrassanti, le qualità del vino rosso e bianco, i rimedi contro i veleni; sull’uso della birra, su come si debba cambiare l’alimentazione in relazione alle stagioni; ancora, sulla nausea marina, o sull’opportunità di lavarsi le mani e mille altri consigli sulle proprietà terapeutiche, oltre che gastronomiche, di molte erbe. Ed è proprio attorno al XII-XIII secolo che guardando all’alimentazione si osserva una sorta di riappropriazione di un certo modo di alimentarsi della popolazione nella nostra penisola. Ed è veramente interessante come dalle variazioni dell’alimentazione, che certamente non può essere considerata in maniera troppo semplicistica come bisogno legato soltanto all’istinto di sopravvivenza, dalla conoscenza tout court del <modo di mangiare> riflettano numerose informazioni sui più svariati aspetti della vita di tutto un popolo; dall’assetto economico a quello sociale, da quello politico a quello culturale, e se addirittura è vero che < l’uomo è ciò che mangia>, come afferma Fuerbach, è certo che dai cibi che esso consuma è possibile desumere parecchie notizie non soltanto di carattere materiale ma anche spirituale. Si diceva che la conoscenza degli alimenti, e l’uso o il non uso di essi, ha sviluppato una vera e propria scienza dell’alimentazione che avvalendosi di conoscenze molto specifiche di chimica, biochimica, biologia, si afferma soltanto come scienza al principio del nostro secolo. La gastronomia raggiunge prima il traguardo affermandosi nel sedicesimo secolo anche se una civiltà come quella greco-romana conobbe i grandi fasti di una cucina alquanto raffinata (non per niente ancora oggi parliamo di <pasti luculliani>) e ciò fu espressione dell’alto grado socio-economico raggiunto.
Il perno dell’economia e della cultura dei greci e dei romani erano l’agricoltura e l’arboricoltura. La terra coltivata dall’uomo gli offre prodiga messi e frutti e l’ager è fecondo di viti e ulivi e perciò regala prezioso vino ed olio. L’ager, spazio occupato dall’uomo, vicino alla civica proprio perché il cives possa usufruire di prodotti da lui voluti, nati col suo lavoro; un perimetro lontano dal salus, dal bosco, dalla natura vergine e incolta che si contrappone alla civica sede di civilista. Si era ben lontani dai tempi <gastronomici>, si fa per dire, di Galla Placidia, quando i cinque milioni di italiani mangiavano radici e frutti selvatici ed alcuni cronisti dell’epoca riferiscono addirittura di fenomeni di cannibalismo. O quando uno dei successori di Clodoveo, re Childeberto vissuto nel VI secolo, vuole scacciare da un terreno boschivo il monaco Carileffo che lo aveva messo a coltura , e che in segno di pace gli aveva offerto del vino. Il re lo rifiutò dicendo che non avrebbe bevuto quel succo volgare: In quei tempi si andavano affermando più gli usi di quei popoli che già i romani avevano chiamato <barbari>, dei Celti, che prediligevano la caccia e la pesca e raccoglievano frutti selvatici, che bevevano birra e non vino e sidro spremuto direttamente dai meli selvatici. Gli animali quali maiali, cavalli e bovi erano in allevamento allo stato brado, una sorta di riserva di caccia, e tutto ciò rappresentava il fulcro della loro rudimentale economia. Così, via via si contrappose anche in Italia alla raffinata civiltà greco-romana tutta improntata sulla agricoltura, dove il mito era rappresentata da Demetra madre che elargisce messi e viti e biondo olio, una civiltà dove il mito celtico è rappresentato da un gigantesco <Porco> nutrito per sette anni col latte di seicento vacche o il mito germanico dove il Paradiso era il luogo dove si sarebbe assaggiata l’inesauribile carne del Saehrimner, il grande Maiale:<Esso, si legge, ogni giorno viene bollito ed è di nuovo intero la sera>.
Un conflitto quindi, uno scontro tra due civiltà che si contrappongono e in tempi di grandi guerre e carestie, che come riporta Montanari furono 29 tra il 750 e il 1100, se consideriamo le grandi carestie che coinvolsero tutta l’Europa tralasciando quindi quelle locali praticamente incalcolabili. Il grande contrasto è dato dal consumo dei prodotti coltivati o di quelli per così dire selvatici. Mentre la cucina antica raggiunse un alto grado di raffinatezza  ed elaborazione, dove la base era costituita da farinate, pane, vino, olio, verdure, latte e formaggio, e la carne rappresentava una minima parte, malgrado certe abitudini che oggi giudichiamo alquanto disgustose come l’uso indiscriminato del garum, la cucina dei barbari, quella che insensibilmente si afferma fino all’XI secolo, è rozza e prevalentemente basata su uno smodato uso della carne e di grasso animale.
Attraverso questo confronto dei due modi di alimentarsi un brevissimo viaggio ci porta all’epoca di Federico II, quando appunto comincia una rinascita in senso lato. La cucina greco-romana era caratterizzata, come già detto, dall’uso del garum come indispensabile condimento. Era il garum un succo assai denso che prodotto dalla macerazione sotto sale delle interiora di pesce veniva mescolato ad ogni sorta di ingredienti: timo, coriandolo, origano, ruta, salvia, cannella, menta, maggiorana, pepe, scalogno, inula, finocchio, ginepro, il silfio e il ligusticum ed altro ancora; tutto veniva pestato e mescolato con olio e aceto e anche con miele, per inumidire il cibo cotto o per essere utilizzato come liquido di cottura. Un uso che oggi giudichiamo disgustoso o addirittura nauseabondo ma che bisogna considerare attraverso una analisi critica, come suggerisce in un interessante saggio l’antropologo Marvin Harris. In Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari egli scrive: <Le differenze sostanziali tra le cucine nel mondo si possono far risalire a condizionamenti ambientali e alle diverse possibilità offerte dalle diverse zone.> E racconta la sua traumatica esperienza di grande bevitore di latte nell’apprendere che i giapponesi ritengono questa bevanda addirittura disgustosa. Quindi si può affermare che malgrado il garum la cucina antica raggiunge un alto livello e conosce il suo culmine con Apicio.



L’identificazione di Apicio fra l’altro non è nemmeno certa ma si pensa che debba trattarsi di quel gavio Apicio nato nel 25 a.C., famoso per i banchetti e per i corsi di culinaria che amava organizzare per i giovani seguaci. E’ chiaro comunque che l’importanza di questo trattatello risiede più che nella precisa identificazione dell’autore, nella possibilità di un raffronto con i <gusti> passati e futuri. Se è possibile affermare che vi fosse già a quell’epoca una <coscienza > bisogna pur riconoscere che vi era una certa cura nella scelta degli ingredienti nel tentativo di raggiungere quell’armonia di sapori che sta alla base della vera ricerca gastronomica che soltanto così diventa scienza e che come tale tarda ad affermarsi, bisogna infatti aspettare, come già detto, il sedicesimo secolo. Dalla <buona> cucina greco-romana si passa impercettibilmente attraverso secoli di invasioni barbariche ad epoche in cui procurarsi il cibo, anche un minimo sostentamento, diventa un problema . la maggior parte di terreni furono abbandonati e con essi le coltivazioni e si giunse all’assenza di un vero e proprio ordinamento socio-economico. Via via che la società si riorganizzava si costituiva una sorta di <economia domestica> basata sulla costituzione di un rigido ordinamento ormai feudale dove una elite molto ristretta, posta all’apice di una piramide costruita da una moltitudine di lavoratori, che si dovevano accontentare di poco, si affermava come classe dominante. Si raggiunge questa <organizzazione> durante il 1000.
E’ soltanto tra il 1000e il 1300 che la situazione socio-economica dell’Italia comincia ad avere una lenta ripresa grazie soprattutto al ritorno all’agricoltura e quindi anche l’alimentazione ricomincia ad avere un indirizzo più sano, con l’introduzione dei prodotti dell’orto, oltre la carne che ha dominato l’alimentazione di tutto l’alto medioevo. Certo una ripresa lunga e difficoltosa segnata da guerre e carestie. E’ per lungo tempo che il ricordo della fame subita segna il modo di alimentarsi della popolazione: un modo dove la quantità prevale sulla qualità, magiare vuol dire potenza, potenza vuol dire mangiare molto, è un circolo vizioso che domina la scena tragica memoria degli stenti patiti. A questo proposito è significativo l’aneddoto riportato dallo scrittor  Liutprando di Cremona nell’Antapodis. Vi si dice che Guido da Spoleto doveva essere incoronato dal vescovo di Metz re dei Franchi ma che essendo giunta la <cattiva fama> delle sue abitudini molto parche gli si preferì Eude, gran mangiatore.
Non solo il potens deve mangiare ma deve mangiare carne; cosicchè si produce una profonda divaricazione tra il desinare dei meno facoltosi che fra l’altro <fanno peccato se si fanno preparare cibi più raffinati di quanto richiede la loro condizione>, e quello dei ricchi. Possiamo tra l’altro affermare che esisteva a quei tempi una vera e pro0pria <dieta monastica> dove il consumo del cibo veniva strettamente correlato alle scelte ideologiche dei religiosi che si basavano soprattutto sulle rinunce a carattere rituale (il venerdì non si mangia carne, durante la quaresima nemmeno e così via), rinunce variabili per intensità e individualmente in relazione al grado di ascesi che vuol essere raggiunto, che è direttamente proporzionale alla privazione-rinuncia che include ovviamente il cibo. Infatti questo, non legato soltanto al bisogno della sopravvivenza ma anche al gusto e quindi al piacere diventa peccato; così si deve introdurre di regola l’indispensabile per vivere e nell’ottica della rinuncia meno dell’indispensabile. Così le <diete monastiche> (almeno ufficialmente) non erano molto ricche. La carne era messa al bando, forse collegata al desiderio sessuale o forse perché come scrive Montanari: <L’eden era vegetariano. Dopo aver creato l’uomo e la donna, Dio assegnò loro per sostentamento ogni pianta che fa seme, su tutta la superficie della terra, e ogni albero fruttifero, che fa seme>. Quindi è proprio nei conventi che rinasce la coltivazione dei campi e quel modo di alimentarsi non soprattutto di carne dei barbari ma una alimentazione varia dove i vegetali hanno una parte importantissima. E quindi la ricerca del cibo idoneo alla rinuncia diventa ricerca gastronomica che porta i germi di un nuovo modo di concepire il cibo. La distinzione dei vari tipi di alimentazione in relazione alla condizione socioeconomica non è certo tipica soltanto del medioevo, anzi c’è da dire che forse non è questo il periodo delle più grandi differenze; si verifica comunque in ogni epoca una distinzione tra cucina ricca e cucina povera, più simile quindi a quella monastica, più per necessità che per scelta. Dove la sostanziale differenza tra le due è determinata dal fatto che la cucina povera sfrutta le risorse locali e si tramanda come patrimonio familiare, soprattutto in linea femminile, quella ricca è invece frutto di ricerca e sperimentazione che utilizza anche e soprattutto materiali esotici. E’ chiaro che il tipo di cucina prevale in epoca di regressione economica, dovendosi considerare l’altra un genere di lusso. Cosicchè proprio l’epoca barbarica, dimentica della raffinatezza della <cucina antica>, si accosta ad una cucina più tradizionale, più semplice la cui unica distinzione è data dalla quantità. E’ facile tra boschi non coltivati procurarsi grandi scorte di carni di ogni tipo, infatti vengono descritti i convivi degli Unni, dei Visigoti, dei vandali come orge di carni arrostite. La ripresa di un certo <gusto gastronomico> torna appunto con i banchetti nel basso medioevo dove persiste la connotazione delle grandi quantità di cibo, soprattutto carne, affiancata da un certo gusto della sorpresa nella presentazione dei vari piatti. Un banchetto tipo medievale non aveva meno di 18 portate. Alla voce carne si intendevano molti tipi di essa: cervo al pepe, spalla di cinghiale, orso farcito, pavoni arrosto e cigni arrostiti, polli al lardo e capponi con salsa garofanata, poi la caccia: lepri, conigli, gru, aironi,fagiani, colombi e cosi via e dolci al miele, focacce confetti, torte, pane speziato, e frutta che spesso veniva offerta all’inizio del pasto. Ancora Biancomangiare (petto di pollo, datteri, fichi, melograni) e la <cubaita>.
Il banchetto è luogo di socializzazione, è luogo dove si può ostentare la propria ricchezza e potenza. Cosicchè il fulcro della casa medievale anche nell’epoca federiciana è la sala ricca di stoffe  e splendente di luci dove il signore può mostrarsi in tutto il suo sfarzo. Nemmeno alla corte itinerante di re Federico <meraviglia del mondo si può parlare di una arte culinaria, anche se già in quegli anni il gusto e gli usi alimentari cominciavano a d avviarsi alla rinascita. Anche se erano stati ripresi molti metodi di cottura, ritornava infatti l’uso degli umidi, già acquisito in epoca romana e perduto in seguito, il cibo era prevalentemente cotto sul fuoco previa lessatura e la preoccupazione più grande rimaneva quella delle enormi quantità come retaggio barbarico. Tutto è stato preparato nelle ampie  cucine da esperti e timorosi cuochi, preoccupati di rendere saporite le carni selvatiche che alla corte di Federico erano sempre fresche e di giornata. L’aglio, il rosmarino, il timo, la salvia e quant’altro possa consegnare ai signori un adeguato companagiu.
Federico gusta soltanto i cibi più raffinati che venivano anche da molto lontano. La sua frugalità era dovuta ai consigli medico-dietetici di Teodoro.Si dice che mangiasse una sola volta e che si sottoponesse a lunghi periodi di digiuno non certo per motivi religiosi. Federico per essere potente non ha bisogno di mangiare; egli è imperatore consacrato da Dio ed è lontano il tempo i cui suoi stessi avi dovevano affermare la loro mal tollerata potenza anche attraverso il consumo smodato della carne. Egli rimane a guardare e permette che alla sua corte si diano ugualmente festosi banchetti dove alle grandi quantità di carne si aggiungono una grande quantità di aromi e spezie. Un uso, anzi un abuso, che non corrisponde affatto, secondo alcuni autori, ad una raffinatezza gastronomica quanto ad una vera e propria necessità di sofisticazione di merce quasi vicina alla putrefazione . Quindi grande protagonista dei banchetti federiciani è l’enorme fiamma che lambisce lunghi e carichi spiedi e accoglie nella brace morente grandi ricettacoli per la cottura delle verdure e di legumi. Sfilano davanti alle dame abbigliate con audaci abiti ornati di candidi ermellini e ai non meno vanitosi cavalieri vestiti di seta e raso, ampi e pesanti vassoi d’argento colmi di ogni sorta di cibarie; vere e proprie piramidi di frutta: carni dorate e fumanti cervi, cinghiali, caprioli contornati di oche, pernici e volatili d’ogni genere che il primo servitore presenta e taglia davanti al signore. Seduti davanti ai bassi tavoli, <banchetti>, i convitati mangiano a due nello stesso piatto, usano pugnali e coltelli o prendono il cibo con le mani che frequentemente risciacquano in catini portati dai servitori. I piatti sono d’oro alla corte di Federico che siede ammantato di porpora e d’oro e tutto è innaffiato generosamente dal vino, la bevanda più consumata a quell’epoca. L’ubriachezza è quasi uno stato normale; il bere è il vizio del tempo tanto che gli astemi vengono considerati degli eccentrici. Questa abitudine rimane per tutto il medioevo, anzi viene addirittura consigliato nella regola sanitaria salernitana dove si legge: < Si tibi serotina noceat potatio vini, hora matutina rebibas, et erit medicina> (se hai avuto fastidi dal bere della sera precedente, al mattino bevi e questa sarà la medicina). I vini attinti dai coppieri con catini d’argento, a corte, scivolano nelle coppe spandendo intensi e inebrianti profumi dovuti alla aromatizzazione del vino che veniva migliorata attraverso l’aloe, l’issopo., il mirto. L’assenzio. E sono aromatiche le spezie che intridono le carni ad invitare ancora e ancora al bere e ancor più forti  <le salse> che accompagnano il pesce che viene anche normalmente servito insieme alla carne. Si parla di un banchetto dove fu servito un asinello arrosto farcito di uccelletti, anguille ed erbe aromatiche. Tra le salse, avevano una assoluta preminenza l’agresta e la camellina.
L’agresta ha una base acida che viene preparata in anticipo (il nostro salmoriglio). La base acida può essere rappresentata dall’acetosa o dal limone o succo d’uva verde. La camellina è invece a base di cannella, zenzero, garofano, pepe e vino aspro, oppure si miscelava con la stessa agresta. Sono salse che vengono messe prevalentemente nel pesce, per lo più anguille, seppie, polpi, sarde, tonno e gamberi. C’è fra l’altro da considerare che motivi di carattere religioso ne favorivano il consumo  e d’altra parte le acque pescosissime erano una riserva inesauribile di cibo soprattutto per le classi meno abbienti. Il piatto festivo del popolo era la galimafree probabilmente qualcosa di molto simile anche al tempo di Federico II: una sorta di zuppa che conteneva carne trita, pollo, lardo, vini, spezie, agresta e camellina. Purtroppo del periodo, come della maggior parte del medioevo, non si dispone di fonti scritte sui pasti consumati di consueto, ma rimangono le descrizioni dei pasti festivi. Solo dal trecento, infatti, compaiono, oltre le traduzioni di Apicio, che costituiscono una fonte autorevole per quanto riguarda la cucina antica, nel 1306 un Tritè ou l’on enseigne a faire et à appareller et assaissoner toutes le vivande selon divers usage de diverse pays  e soltanto nel 1310 possiamo considerare il primo vero gastronomo Guillaume Turel detto Taillevent. Si può comunque pensare che il pane, insieme con il vino, costituisce il principale alimento dei poveri. In Sicilia era pane di frumento mentre l’orzo veniva usato per il bestiame. Bisogna qui fare una piccola sottolineatura riguardo al pane che veniva fatto con qualunque farina: di miglio, di orzo, avena, farro, spelta, panico, sorgo e segale, che attraverso, che attraverso il fungo infestante procurò tanti malanni. Più comunemente le farine meno adatte alla panificazione venivano adoperate al nord d’Italia per farne palmenta. Ancora si usava il formaggio duro e molle che era ritenuto alquanto pesante alla digestione; inoltre da verdure  e probabilmente dal <malcoquinato>. In una grossa pentola si mettevano a bollire interiora e carni secondarie; testa, ventri, piedi di vari animali,  e che venivano venduti dagli scrifizari, più per evitare al bere che per vero nutrimento. Non certo piatti d’oro o d’argento alla mensa dei poveri, come nei banchetti all’ombra dei lussureggianti giardini dei ricchi, ma piatti di legno o tutt’al più di peltro e non certo pasticci di caccia, o vino di Cipro, alle carestie, alle epidemie e alla generosità dei ricchi. Così villani e cittadini ammirati e timorosi vedono passare Federico che cavalcando, alle spalle una nuvola di densi e stuzzicanti profumi, si sposta con la sua corte da castello in castello ed è seguito da dame appena velate ed eunuchi e dal suo amatissimo serraglio dove è possibile ammirare un elefante, la giraffa, e un leopardo che tiene al guinzaglio e così consuma una esperienza unica al mondo come uomo e come re. Tra poesia e guerra, vivendo nel lusso, abbigliato da porpora e d’oro ma proteggendo il misticismo povero dei francescani, tra filosofi e scienziati, scienziato egli stesso e studioso del volo dei falconi tanto da poterlo considerare oggi anche sotto la veste di etologo, un lontano Lorenzo, egli scrive infatti il trattato della falconeria, in guerra come crociato, in lotta con i papi, egli incarna una delle umanità più contrastanti della storia medievale; odiato e idolatro, il re bambino dà ordine che gli preparino le violette candite, che riteneva cariche di forza terapeutica, per il suo arrivo, mentre accarezza il suo inseparabile falcone.