AUTORI VARI



 IL PARCO REALE DI RE RUGGERO 
I SOTTERRANEI DI MONREALE SCOPERTI NEL 1di Gaetano Millunzi

         



Il benemerito abate Gravina nel suo volume Il Duomo di Monreale illustrato parlando del parco reale di Re Ruggero scrive quanto segue:
Così si esprime Romualdo da Salerno nella sua Cronica all'anno 1153. fece Ruggiero circuire con muro di pietre taluni monti e boschi, che sono attorno a Palermo ed ordinò che si costruisse un parco assai delizioso ed ameno, folto e piantato di alberi diversi e volle che ivi si chiudessero le damme, i cavrioli ed i porci selvatici. Fece ancora in questo parco un palagio, al quale per sotterranei condotti ordinò che si portasse un'acqua, che scaturiva da fonte lucidissimo. - Quest'ultima particolarità rammentata dallo storico ci mette alla portata di riconoscere senza dubbio il locale vero e unico ove Ruggiero Re fece il suo palazzo; dappoichè questa parte della costruzione del siculo Monarca fu sì grandiosa e così bene eseguita che i secoli non valsero sin'oggi ad abolirla e neppure a deturparla: essa esiste in tutta la sua integrità. L'acqua che scaturisce da fonte lucidissimo vedesi dentro il chiostro annesso al duomo: essa vi entra per sotterranei condotti, riempie un immenso serbatoio sostenuto da archi in tutti i sensi, e ne esce parimenti per sotterranei condotti, senza che si conosca nè la sua provenienza, nè dove vada essa a risortire. Tale opera parve ai contemporanei così colossale che il cronista Romualdo non potè non tramandarlo alla posterità. Ed è meraviglia che i posteri non abbiano cercato di questa fonte, onde avere il locale ove Ruggiero, trovandosi cavata nel mezzo del nostro chiostro, non è più dubbio che ivi il re facesse il suo palazzo, e il chiostro medesimo non dovesse allora fare parte dello stesso. Ma qui ci si presenta una gravissima difficoltà. Il  taglio del chiostro, la sua conformazione, la smisurata ampiezza, in una parola tutta intiera la sua fisionomia esclude l'idea che mai esso abbia potuto essere costruito per servire da cortile ad un regio palazzo: esso è assolutamente, e tale fu sin dalla sua origine, il chiostro di un monastero. A sciogliere tale difficoltà è da dire che il monastero esistesse già anteriormente a Ruggiero tra i boschi. Questi convertì tale locale, allora abbandonato per la recente e diuturna invasione dei Mori, in regio palazzo cavò la cisterna nel mezzo del chiostro e vi introdusse l'acqua per sotterranei condotti. Essendo stato tale locale destinato al profano uso della caccia, il tempio che formava parte del fabbricato, rimase abbandonato e negletto.
Sin qui l'abate Gravina.
Ora ci piace riportare in seguito una relazione dei sotterranei di Monreale scoperti nel 1877, importante per sè, ma più importante ancora in relazione ai criterii dall'abate Gravina instituiti per giudicare delle fabbriche del monastero e del Duomo.
E' il prof. G. B. F. Basile che manda questa relazione al Precursore, Giornale Politico quotidiano di Palermo.

Egregio signor Direttore,

Gli scavi praticatasi nella piazza di Monreale ad occasione dei lavori che ivi dirigo, fecero discoprire lunghe sotterraneee caverne ramificatasi in varie direzioni e delle quali le naturali gallerie succedentisi ricche più o meno di concrezioni calcaree sono invero meravigliose.
Mi pregio accludere alla S.V. Illma con preghiera di pubblicarla la relazione cortesemente fattamene dai distinti Ufficiali del I° Reggimento Bersaglieri Sig. Giacinto Tua e Sig. Cesare Ferrari, i quali arditamente vollero penetrarvi accompagnati dai Signori Bernardo Caruso, Ing. Agronomo Sig. Zerbo, Capomaestro Pitti ed altri.
     Ringraziandola mi dichiaro


Obbligatissimo servo
G. B. F. BASILE

Dall'apertura praticata sulla piazza si scende in un primo ambiente, specie di antro, che misura  dieci metri in lunghezza e che termina in un buco contornato da incrostazioni calcaree. Esso è di tal dimensione che una persona può, stando zitta, internarvisi e si svolge quasi a scala a chiocciola, mettendo in comunicazione la camera superiore con un altra perfettamente sottostante molto più vasta e di forma quasi triangolare.
Ai tre vertici si aprono altrettante gallerie di cui una in direzione sud-ovest, e la maggiore s'indirizza a levante. Il suolo di questa specie di peristilio è quasi orizzontale e spianato, e sottostà di circa otto metri al livello della piazza; il suo cielo ha forma irregolare di volta ed è ornato di stalattili di piccola mole.
La prima galleria è quella di minor importanza: e' difficile ad essere percorsa perchè grandi ammassi rocciosi ne coprono il suolo e la sua altezza è poca. Povera di incrostazioni, s'avanza nella indicata direzione per circa quaranta metri, descrivendo un arco di cerchio di gran raggio, la cui convessità è rivolta ad oriente. Termina in un buco quasi tondo, di mezzo metro di luce ed oltre il quale esistono forse più vaste  ed interessanti cavità. In tutta la sua lunghezza si mantiene quasi a livello della camera triangolare anzidetta.
La seconda galleria, quella di nord-ovest, è una serie di camere che s'internano verso il monte elevando gradatamente il livello del loro suolo sino a quattro metri su quella di distribuzione. Tre sono i principali allargamenti, e nel passare dal primo al secondo si ammira una parete riccamente decorata d'incrostazioni e di stalattiti, di cui alquante già si sono riunite alle sottostanti stalammiti formando vere colonne di considerevole grossezza, le quali, in parte cementate pur anche allo smalto delle pareti, appaiono quasi lesene di mirabile lavoro. La luce, riflessa da tante levigatissime superficie, raddoppia d'intensità ed aggiunge effetto alla bellezza d'una cascatella d'acqua fresca assai e sgorgante  da un orifizio posto all'alto della volta ed abbellito dalle petrificazioni del calcare. Se non che l'acqua contenendo materie in soluzione ed essendo forse riuscita a praticarsi quel passaggio quando le solidificazioni eransi già abbondantemente formate, le compenetrò colorandole d' un bel nero che spicca sul bianco latteo di tutta la zona che lo circonda e dà piacevole varietà a quel quadro per se stesso capace di destare l'ammirazione dell'osservatore. La pura acqua della cascata scende poscia per breve rapida in una galleria sottostante di piccole dimensioni, che ha l'entrata comune colla superiore ed in fondo della quale scorre per  breve tratto scoperto un ruscello che riceve l'acqua sgorgante da piccole aperture del cielo della buca ed il cui letto scavato nelle stalammiti, a foggia di elegante cunetta, presenta gli stessi caratteri di compenetrazione già osservati. Inoltre esso è ricco di ciottoli arrotondati che dinotano la preesistente d' una più forte corrente o di temporanei rigonfiamenti dell'attuale. Anche i ciottoli sono d'un bel nero lucente comunicato loro dalle materie nell'acque disciolte. Rotti essi manifestano l'origine della loro colorazione poichè dal nero superficiale questa passa al rosso gialliccia dell'ossido di ferro e quindi al bigio chiaro proprio dei calcarei di cui si compongono. L'ultima camera della galleria è quasi perfettamente rotonda; il suo cielo ed il suolo stesso sono parte di superficie sferiche di raggio molto differente che s'incontrano, e nella loro intersezione, che è assai più bassa delle altre parti del suolo, scorre acqua, forse la stessa che raccolta in ruscello abbellisce la grotta sottostante alla prima camera.
La lunghezza totale della galleria può essere di cinquanta metri e le frequenti goccie che dal soffitto cadono, dinotano la presenza di numerosi corsi d'acqua interposti fra di esso ed il suolo della città.
Più comodo è l'ingresso alla terza galleria che s'apre come già dissi verso oriente. E' un corridoio il cui suolo è leggermente declive e meno accidentato dei già percorsi. Ciò però non impedisce di dover talvolta procedere carponi imbrattandosi le mani colla viscida fanghiglia che ricopre la roccia. Per circa cento metri vi si avanza sempre ammirando le incrostazioni e le colonnette calcaree che ornano il cielo e le pareti e fasciano talvolta per intero l'antro, formandone anche il pavimento. Ad un tratto però tutto questo cessa ed un nuovo sentimento di vaga inquietudine invade la mente del sotterraneo visitatore scoprendo circa venti metri ove non comparisce traccia di roccia compatta, nè rivestimento di sorta, ma solo roccia disaggregata in cui subito si constata la mancanza della coesione fra le parti minutissime. Tanto più poi si rafforza questo sentimento osservando tracce non dubbie della recente caduta d'una quantità di terra che sarebbe sufficiente a schiacciare l'infelice che ne fosse colto, ed anche a separarlo per sempre dal consorzio umano, che a circa venti metri sopra il suo capo s'agita pieno di vita, ma che non sarebbe forse capace di porgergli in tempo valido aiuto.
Pur la curiosità, la gran madre del sapere, stimola a proseguire, ed appena oltrepassato il passo pericoloso un indistinto rombo che si lascia alle spalle per correre al suono e chiarirne l'origine. Trenta metri appena ed eccoci sull'orlo di un pozzo profondo, ed il rombo fatto più forte e più distinto è prodotto da acqua abbondante che scroscia rotta fra i sassi. Oltre il pozzo s'apre una enorme caverna della forma di grande imbuto, rovesciato sul fianco e chiuso in fondo. A destra in alto quasi adiacente all'entrata sta l'unica uscita dell'antro e solo dopo aver guadagnato l'opposta sponda del pozzo ed essersi aggrappato per le rocce fin sul limitare  della nuova grotta si capisce l'imprudenza dell'essersi avventurati sull'orlo d'un abisso attorno al quale il terreno fangoso cede al peso dell'uomo. Le fiaccole e le torcie gettano una luce che par sinistra in quell'antro e lo spettacolo ricorda le stupende illustrazioni di cui la fervida immaginazione di Gustavo Dorè seppe ornare la magnifica edizione della Divina Commedia.
L'ultimo abbraccio della galleria si svolge ancora per circa cento metri più che mai lussureggiante di cristalizzazioni e specialmente di stalattiti e stalammiti che raggiungono tutte le varietà, giacchè le prime variano dalla forma più semplice di guguglia rovesciata alla più complessa che par drappo svolazzante di cui le innumerevoli pieghe rammentano l'opera d'immortali scultori; le seconde vanno dal tronco di cono con base superiore arrotondata fino al più minuto granulare.
A sinistra a metà lunghezza si scorge una vera meraviglia del genere che è una tavola di circa ottanta centimetri di lato, fissata in un angolo, quasi lastra sottile di marmo. Per ultimo le pareti inferiore e superiore s'avvicinano fino a sessanta centimetri e lasciano appena uno stretto andito per cui penetrando a carponi si giunge in un ultimo e più maraviglioso ambiente dove natura profuse le sue meraviglie e donde si è tosto obbligati ad uscire, giacchè la fatica grande del giungere fin là crea il bisogno di copiosa respirazione che mal si compie in un'atmosfera pesante ed in cui, sebben non si avvertano sgradevoli emanazioni, non abbondano al certo gli elementi della respirazione.
Reca però meraviglia che l'aria possa esser ancor tanto respirabile da non presentare ostacoli alla combustione delle candele alla profondità di circa quaranta metri, mentre l'unica bocca d'onde apparentemente si possa stabilire una corrente. A maggior conferma di tale ipotesi, ed anzi a provare la preesistenza di una comoda entrata, si trovarono nel grande antro e poco lungi dal pozzo due corna di cervo confitte verticalmente nel suolo. Esse sono intatte e presentano tre ramificazioni; la loro posizione, l'esistenza di tutta la corona e della loro radice dinotano che non furon colà trasportate dall'uomo.
Forse l'animale che faceva parte delle numerose mandre allevate nel parco esistente su questi monti fin prima dell'epoca normanna, internatosi per bere vi fu sepolto da una frana; nè recherebbe meraviglia se i resti delle sue ossa si trovassero seppelliti nella roccia disaggregata.
Lo stato attuale di questi avanzi del mondo organico accusa una lunghissima permanenza in queste sotterranee regioni, ove non esiste traccia d'opera artificiale e forse non mai prima d'ora investigate dall'uomo, che se vi fosse penetrato avrebbe certo rotte alquante delle stalattiti, le quali prolungatesi pel successivo gocciolare del calcare disciolto presenterebbero, ancora restringimenti che furono oggetto d'inutili ricerche.
Ai dotti intenditori di scienze naturali spetta lo stigmatizzare  d'insussistenza queste congetture d'un curioso o dar loro il peso di verità scientifiche, ed annunziare le scoperte che più intelligenti e più minute ricognizioni non mancheranno di fruttare.

Da Monreale, 27 luglio 1877.

Tua GIACINTO - Relatore



FOTO ARCHIVIO STORICO COMUNALE "G. SCHIRO'"












"C E L I A"
 di 
A n t o n i o   V e n e z i  a n o 
Salvatore Giaconia - Ritratto di Antonio Veneziano 

Lingua e stile nei versi del poeta dell' Amore

a cura di Salvatore Autovino


Antonio Veneziano è il poeta dell'Amore. I versi dei suoi componimenti costituiscono le pagine più belle della poesia in vernacolo siciliano del Cinquecento. Considerato il "grande" della letteratura siciliana di quel secolo, ben presto fu ritenuto il caposcuola della corrente petrarchista. Spirito versatile e dotto, avido di sapere, l'illustre monrealese diede origine ad una nuova poesia che ben presto lo rese famoso ed a cui si ispirarono diversi siculi poeti. In una lirica nuova per stile il Veneziano cantò il suo amore per Celia, donna misteriosa e affascinante che egli amò perdutamente. Nelle ottave, nelle canzoni d'amore a lei dedicate, dando sfogo ai suoi sentimenti, osannò la sua bellezza e la sua maestosità. La produzione poetica del Veneziano si identifica con una delle voci che parlano il nostro dialetto re diventa quasi il simbolo stesso della poesia siciliana. Egli fu uno dei più raffinati poeti di quel secolo e fu un accanito sostenitore della nostra lingua. Rifacendosi al greco Omero, al latino Orazio, al toscano Petrarca che scrissero le loro opere nella propria  lingua, il Veneziano, fortemente attaccato alla sua terra, nella lingua madre ci ha tramandato le sue belle composizioni in un forbito siciliano tratto dalla bocca del popolo e ripulito di ogni scoria volgare e plebea. Ecco perchè i suoi canti d'amore, proverbi, intermezzi, epigrammi, composizioni burlesche, in lingua siciliana, lo hanno reso famoso e gli hanno conferito un posto di primo piano nella nostra letteratura.
Le sue rime, ricche di originali antitesi, di giochi di parole espressi con leggiadria e naturalezza esprimono i suoi variabili stati d'animo in cui vengono messi in risalto la bellezza della sua donna, la speranza, il timore, la disperazione. In un continuo contrasto tra amore e dolore, tra ideale e reale, il poeta è riuscito a emulare lo stile e la maniera del Petrarca, per cui non a torto è stato appellato il "Siculo Petrarca". I componimenti poetici del Veneziano attestano la profonda e vasta penetrazione del petrarchismo nell'isola. Nell'escavazione di tematiche universali - amore, sdegno, gelosia - il tutto ruota solamente ed esclusivamente intorno all'autore. l a vertiginosa macchina linguistica e teatrale della Celia, il suo capolavoro, costituisce un'invenzione letteraria di così grande rilevanza culturale da permeare ogni altro testo poetico della Sicilia di quel tempo. Per la rappresentazione della grazia femminile il poeta utilizza il canone breve adottato dalla lirica alta e celebra una donna ideale, forse non mai esistita. dai versi trapela uno spasmodico desiderio della donna che ama, una struggente passione che ammalia e lo esalta. Celia è una donna non comune, non solo per bellezza, ma anche per virtù: 




Fui prisu in riguardari la grandizza
di vostra divinissima figura: 
l'eburnea frunti, la deorata trizza,
la vucca cinta d'impernati mura; 
l'occhi, und'amuri cu li Grazii 
sgrizza e spira grazii e amuri a cui v'adura.
Vui siti, donna, specchiu di bellizza,
miraculu di Diu, d'arti e natura.

Egli desidera Celia bramosamente, ma per il ceto cui essa appartiene, gli è impossibile frequentarla per manifestarle il suo amore. Il Poeta la osanna come la divina, la suprema, l'irraggiungibile, la bella in assoluto, esortandola a contraccambiare il suo amore e ad alleviare le sue sofferenze. Preso dalla passione e dal desiderio di averla tutta per sè, dalle rime traspare il suo stato d'animo, ora felice, ora tormentato a volte per gelosia, a volte ritenedo di non essere corrisposto. Spesso, in preda alle proprie riflessioni e alle proprie fantasticherie, non sa se morire per amore o vivere per amare una donna di alta classe, nobile, eccelsa.



La notti in sonnu, durmendu, t'abbrazzu;
criu abbrazzari a tia e abbrazzu lu ventu; 
o chi gran chiantu e gran lamentu fazzu, 
o chi gran pena a lu miu cori sentu! 
Poi mi risbigghiu, la nfingiu e la sfrazzu 
Forsi vigghiandu, passai lu stentu; 
ma non mi servi, su impintu a lu lazzu; 
dorma o non dorma, vigghia lu turmentu. 

Abbagliato dalla luminosità di cotanta bellezza, dalla divina figura di Celia dai dorati capelli, dal roseo colore della pelle, dalla bocca desiderosa di baci, dagli occhi che sprizzano amore, il Veneziano vede in Lei, un'opera d'arte creata miracolosamente da Dio. L'Amore è per il poeta il suo motivo ispiratore. Il forte fuoco che gli brucia dentro diventa sempre più grande e dappertutto egli vede l'immagine di questa donna celestiale che lo brucia per il suo splendore.



Si lu focu chi m'ardi, dintra e fori, 
veni causatu di cui portu amuri, 
non mi giova rimediu, nè paroli, 
la vampa avanza e non manca l'arduri. 
Dunca, non servi lu chiantu a cui mori, 
invanu, occhi, chiangiti tutti l'huri, 
chi si vuliti aiutari lu cori, 
ci vol'autru chi chiantu, alli duluri



nei versi, il vero protagonista è il cuore del poeta con i suoi sogni, le sue speranze, le sue illusioni. In essi è esplicita una passione amorosa in cui egli sente il bisogno di abbandonarsi al fascino della bellezza. Nei momenti più lirici, più felici, si lascia andare al canto con la gioia di chi rinviene la voce più armoniosa dello spirito. Il poeta avverte la necessità di piegarsi ai moti del cuore per osannare la compagna di ogni dolce immaginazione. "Senza un grande amore, non c'è poeta; dove è un grande amore non può mancare un grande dolore". Ed è proprio in questo detto che si configura lo stato d'animo del poeta alla luce delle segrete movenze sentimentali e che geme per un forte sentimento non corrisposto.
La musa del Veneziano è quel particolare sentimento dolce, e talvolta amaro, per il quale il suo animo trova la voluttà di gioire, di soffrire o di piangere. Nelle Ottave diffuso è il bisogno di affetto, di sentirsi amato, di abbandonare l'anima ad una morbida e carezzevole musica, alla sottile dolcezza dei sensi. La contemplazione della bellezza femminile è rappresentata in un'atmosfera di gentile ed aristocratica grazia. Il Veneziano, nella sua poesia, propugnò il ritorno alla più pura imitazione formale del Petrarca. Rifacendosi al cantore di Laura, egli venne incontro al bisogno di rinvenire nella poesia dialettale l'idea di  eleganza, di moderazione stilistica, di limpidità formale. Il suo è un canto vero, un canto vibrato, oscillante, che ha i suoi chiaroscuri. A volte è sereno, a volte si annuvola, in altri momenti si bea, desidera, prega, impreca, si sdegna, si pente, per tornare a pregare. Ma il canto del poeta è uno: è il cuore del cantore. Lo stile della Celia e di ogni altra composizione poetica del Veneziano è puramente classico; è grave, abbondante, scultoreo, sentimentale e un pò troppo carico di erudizione.La classicità dei componimenti del Veneziano è una naturale conseguenza dei suoi studi effettuati sopra i classici greci e latini. la donna amata è celeste e terrena, è una figura rivolta alla sensualità greca, come alla classicità latina e dalla quale traspare un dettato flebile, lusinghiero e mordace adagiato nell'ammirazione delle donne per poi aprirsi al gusto strettamente dialogico con una compresenza di lezioni letterarie e poetiche. 
Ma chi è Celia? Chi è questa donna bellissima che lo ha infatuato? C'è da dire che il Veneziano, nella sua vita movimentata, ebbe ed amò diverse donne. Per loro scrisse diversi componimenti, ma mai si è riusciti a svelare la vera identità di Celia. Gli studiosi che si sono cimentati per risolvere l'enigma non sono riusciti a dare una vera soluzione. Molti hanno visto in Celia la nobile donna Felicia Orsini, moglie del vicerè Marco Colonna, venuto in Sicilia nel 1577, grande mecenate per pittori, poeti, e lo stesso Veneziano godette della sua magnanimità ed è quindi plausibile pensare che a corte il Veneziano si sia invaghito della nobil donna. Essendo Felicia sposata ed appartenete a nobile casta è da supporre che il Veneziano abbia "celato" la vera identità della donna amata per ovvie ragioni. Oggi, a distanza di secoli, sai potrebbero avanzare tre ipotesi, per dare una spiegazione a tale mistero. 
Una prima ipotesi assurda farebbe pensare che il Veneziano, omettendo la lettera "F" e la vocale "i" al nome di Felicia, abbia anagrammato la parola "elica" pervenendo così a Celia.
Una seconda ipotesi porterebbe a considerare che il poeta abbia voluto effettuare una sincope sul nome Cecilia eliminando la sillaba "ci" per arrivare a Celia. 
Una terza ipotesi, forse ancora più assurda, potrebbe essere quella che il Veneziano, proprio per "celare" e quindi nascondere il nome della sua amata, l'abbia appellata Celia per non rivelare la sua vera identità. Qualunque sia  l'interpretazione che ognuno voglia dare alle predette ipotesi, resta il fatto che nella sua opera il poeta monrealese ha lasciato ai posteri uno splendido capolavoro letterario. La sua struggente passione d'amore, i suoi impulsi, i suoi sospiri diventano liriche composizioni in cui l'amore ardentemente desiderato, ma non corrisposto è decantato in ogni forma di sentimento e devozione. Se nei versi esiste una profonda differenza di stile e di tematica, è pur vero che in essi a trionfare è sempre l'Amore. la caratteristica vena poetica fa intravedere il suo pensiero e i suoi versi ci presentano i suoi sentimenti genuini e sinceri. Creatore e casellatore di componimenti talvolta ricchi di doppi sensi, il poeta, quasi in una continua altalena esprime la crescente intensità dell'amore che arde nel suo cuore, fino a consumarlo totalmente. Celia vive la sua realtà di donna con la sua bellezza, la sua sensualità. Ella si distacca dalla Beatrice di Dante, simbolo del Dolce Stil Novo, e dalla Laura del Petrarca simbolo della perfetta beatitudine. Celia sa essere donna passionale, capace di far vivere il poeta nell'immaginazione e nel sogno. Anelante e desideroso di una amore che realmente non ha potuto ottenere, il Veneziano, innamorato pazzo, patisce le pene dell'inferno, ma sa elevarsi con la sua anima a raggiungere un sublime lirismo. L'amore è, e resterà, sempre il grande motivo ispiratore delle sue opere. Paragonandosi ad un povero mendicante affamato va elemosinando qualche goccia d'amore. Ed è proprio nel chiedere amore che egli diventa contemporaneamente protagonista e maestro. Bellezza e Grazia  costituiscono il filo aureo della poesia del Veneziano. L'esattezza del linguaggio, la salda impostazione dei componimenti, la compattezza ed eleganza della struttura, fanno di questo illustre monrealese un grande cantore dell'Amore anche quando, alla fine, stanco e consumato dalle pene e dalle delusioni si accinge a cantare, come il cigno morente, l'ultimo canto.
I suoi sospiri, i suoi lamenti sono stati affidati e riportati a noi in altri due celebri componimenti: la Nenia e l'Agonia.




"O fortunati cigni,
poich'murennu morinu cantannu,
nui chi vurriamu tannu
mustrari ultimi affetti, ultimi signi, 
a lu mugghi 'nni manca 
l'afflitta carni travagghiata e stanca." 



L'Amore, e le difficoltà che gli provoca, è il tema dominante del protagonista. Persino nella composizione "Su poviru affamatu pellegrinu" il cnto velato da una ingenua semplicità, un pò alla volta diventa passionale ed erotico, pregno di passioni amorose e ricco di sensualità. Adagiato nell'ammirazione della donna, quest'uomo così contraddittorio e incline ai piaceri del sesso, fa emergere la qualità e le immagini degli affetti del cuore umano in virtù della sua vigorìa fantastica. La poesia del veneziano è nitida ed emerge dalla sua maturità umana e poetica e dalle immagini fissate con gagliardia, sicurezza e commossa intensità. per l'uso raffinato della parola, per la scelta dei temi, per gli esiti stilistici, la trasfigurazione poetica di tanti motivi ispiratori svela una realtà che soggiace al sentimento del tempo e all'amore del poeta per la sua Sicilia. Le liriche del poeta sono dettate da un'ispirazione calda e impetuosa che si traduce in immagini dense di significati in cui appaiono l'eco del mito, la voce del passato e l'essenza della passionalità isolana. Lo stile della poesia del Veneziano è inconfondibile anche nei suoi tradizionali Proverbi. Stigma della cultura orale del popolo, sono stati ideati dal poeta per fissare a futura memoria espressione di verità e di vita. In essi, il poeta, esterna una vera morale filosofica. La vera amicizia e il vero amore vengono dimostrati nei momenti difficili di bisogno e di avversità:




La petra, chi dimustra li carati 
di l'amicizia e di l'amuri anticu, 
è a lu bisognu ed a l'avversitati, 
ed iu pirchì lu provu vi lu dicu. 
Ddà si prova la fidi e la buntati, 
ddà di l'amici si fa lu lambicu; 
carzari, malatij, nicissitati 
scumbogghianu lu cori di l'amicu. 




La poesia del Veneziano abbraccia tutta quanta la complessità della vita umana e i versi rivelano un'autentica e forte sensibilità espressiva il cui filo conduttore è legato dalla seduzione della sicilianità. La sua stessa lingua, come per miracolo, è ferma e decisa, immune dal tempo. Con il suo acume di critico ha propugnato il dialetto siciliano e i suoi scritti si identificano con una delle voci che diviene respiro di determinati sensi che rappresentano il simbolo stesso della poesia siciliana. Con il suo carattere avventuroso, impulsivo e mordace, ironico e burlesco, seppe esternare l'intimo del suo animo nella poesia e tutto il modo di fare della sua vita è racchiuso nei versi: 




Unu su dintra e n'autru paru fori, 
su tuttu mestu e mostrumi serenu, 
a vacca ridi e chiancimi lu cori.




Quella del Veneziano è un'arte delicata, è poesia soave, emotiva, genuina, espressa a volte con dolcezza a volte con asprezza. Ne scaturisce una sorta di paesaggio dell'animo in cui i dettagli dell'esistenza del poeta sono attraversati dalla ricerca della verità, dalla speranza, da un percorso che entra nel cuore del lettore. La sfaccettature della sua poesia sono un susseguirsi di tracciati di presente e passato della vita dell'artista capaci di formare il dalogo animato e interessante, come si evince dal contrasto di seguito riportato:




Cori chianci, pirchì? Pirchì su amanti, 
di cui? D'una spietata e sconoscenti
t'ama? Nun m'ama, e di suspiri e chianti 
mi pasci ogn'ura l'affannata menti. 
L'amasti? Iu l'amai firmu e custanti; 
fusti pagatu? Si, di peni e di stenti. 
Dimmi in premiu, chi avisti? Amari chianti. 
e l'ami? L'amu. E chi nni speri? Nenti!  




Amico del Cervantes con il quale condivise parte della vita per la prigionia in Algeri, ebbe con lui, uno stretto legame di amicizia e un rapporto poetico tale da confidargli il suo grande segreto: il suo amore per Celia. I due, compagni di avventura, poeticamente ispirati e uniti da motivi d'amore e di bellezza, a livello stilistico, hanno in comune numerose affinità e intensificano le somiglianze sia nelle figure retoriche che nelle metafore. Il Veneziano ama celia come il Cervantes ama la sua Galatea. I frutti dell'ingegno dell'autore spagnolo si riflettono, nel suo Don Chisciotte, per l'amore intenso che nutre verso la sua spada, la bella Dulcinea del Toboso, salita al rango di principessa, anzi regina, carica di ogni beltà e di chimerica bellezza. Il Cervantes recepì concetti e strutture del monrealese ed è abbastanza chiaro che entrambi rientrano a pieno titolo in quella che definita: "la tradizione petrarchista". Il Veneziano, soprattutto, per la sua espressione letteraria e per la spiccata evoluzione della sua produzione poetica è da considerare uno dei poeti più importanti tra i classici siciliani. la sua poesia può essere rapportata alla sua vita movimentata. Romantico e innamorato, burlesco e satirico, infelice e disperato seppe esternare i propri sentimenti con versi che posseggono una forza espressiva ed inconfondibile, rispecchianti una innata tendenza artistica e una spiccata originalità. Tutta la poesia di questo insigne poeta può sintetizzarsi nelle parole: Amore, Ansia, Piacere, Trepidazione, Fantasia.



dal Catalogo su Antonio Veneziano - "Sulu e ricotu cu li mei pinseri" - vita e opere di Antonio Veneziano Celebrazioni per il 467° anno dalla nascita 










DAL LIBRO
LA POESIA DI ANTONIO VENEZIANO
O T T A V E
a cura di
Gaetana Maria Rinaldi

La produzione poetica di Antonio Veneziano è in maggior parte costituita dacanzuni, ottave siciliane in endecasillabi a rima alterna. Secondo il più autorevole manoscritto, che si conserva nella Biblioteca Centrale della Regione Siciliana con la segnatura XI.B.6, 289 ne contiene la Celia, il canzoniere vero e proprio del poeta, 313 il Libru secundu di li canzuni amurusi siciliani; 42 sono le canzuni di Sdegnu, 33 quelle Spirituali, di argomento devoto, 32 compongono l’Ottava; infine 100 non recano alcun titolo.
Altre opere del poeta, in metro diverso ma sempre in siciliano, sono i due lamenti, Nenia e Agonia e la trilogia burlesca costituita da Puttanismu, Arangeida e Cornaria.
In prosa italiana è il Discorso sopra le statue della fontana pretoria di Palermo, dottismo <commento> in cui il poeta suggerisce l’interpretazione delle statue che adornano la celebre fontana (e che ora può leggersi nell’edizione fornita da S. Iannone, inserita nel saggio di G. La Monica, Pantheon ambiguo, Palermo, 1987, a pp.77-174); in italiano è ancora il brutto sonetto indirizzato a Miguel de Cervantes, che aveva inviato al poeta 12 ottave in castigliano (la corrispondenza poetica è stata pubblicata da M. C. Ruta, nel Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 14, 1980, a pp. 177-185).
A questi scritti di sicura attribuzione si deve aggiungere una cospicua produzione apocrifa, a cominciare dai famosi e godibili Proverbi (anch’essi in ottave siciliane), fino alle centinaia di canzuni che si trovano nelle antologie manoscritte della poesia siciliana del Seicento.
Dalle opere maggiori, Celia, Libru secundu, Sdegnu e Canzuni, in misura decrescente, è tratta la piccola scelta che qui si offre. Il testo delle canzuni, è quello fornito dal manoscritto XI.B.6 già ricordato, con qualche lieve ammodernamento della grafia e con una interpunzione moderna. …
Gaetana Maria Rinaldi

Cu chiddi soi moduzzi sapuriti
mi spiau un ghiornu cui era lu miu dardu.
Guardatimi intra l’occhi e vidiriti
– ci diss’iu – chi ddà pari per cui ardu!
Guardau, si vitti e risi e – chi criditi? –
suggiunsi un tiru chiù beddu e gagghiardu:
<Guarda chi latru gintili chi siti,
chi rubati li genti cu lu sguardu!.
Celia, 19.
***
Di l’occhi toi lu suli potti tantu
chi in lagrimi squagghiau la carni mia,
 si tornava a guardarmi un autru tantu
comu vapuri e l’airu m’attraia.
O, s’iu chicassi mai tant’autu quantu
nevula d’acqua facissi di mia,
non chioggia d’oru, ma chioggia di chiantu
dintra l’amata turri trasiria!
Celia,22.


Oh, si spinta di collera e di stizza
cu li manuzzi toi mi maltrattassi,
ed iu – chi non sia mai! – fussi sulfizza,
 per puru istintu chi ti mozzicassi,
quantu si saziria la tua ferizza
supra di mia, s’a posta tua sburrassi,
e quanta sarria poi la mia allegrizza
chi cu la morti mia ti risanassi!
Celia, 25


O vera e sula bedda, in cui reluci
quant’essiri bellizza mai potissi,
chi cussì puramenti netta e duci
corpu non fora mai chi la capissi,
 in tia in la sua essenzia reluci
e, quando in tuttu da l’autru spirissi,
 tu, comu luci s’adduma di luci,
 lu mundu di bellizza addumirissi.
Celia, 40.


 Suspiru, tu chi nesci di ddu pettu
und’è lu cori miu chiusu e fermatu,
dimmi chi fa, siddu si sta in dilettu,
siddu chiù pensa a lu miu amaru statu!
E quandu torni a l’amatu ricettu,
com’hai a tornari d’airu accumpagnatu,
per fari un gestu ch’a intrambu sia accettu
in compagia ti porta lu miu ciatu!
Celia, 46


Di propia manu st’opra pinsi Amuri
per farsi adurari iddu per diu:
macinau la bellizza, li coluri;
la grazia per pinzeddu ci serviu.
Poi ki cu milli travagghi e suduri
cussì divina immagini compliu,
ndi fu idolatra com’era pitturi
e ci sacrificau lu cori miu.
Celia, 54




L’ura ch’impressu vidiri m’ingegnu
la facci chi si guarda per disiu,
s’altera e turba e cu negghia di sdegnu
muta la bedda forma chi desiu;
ed iu in estasi vaiu e poi in mia vegnu:
s’è idda e s’iu sugn’iu criu e non criu.
Guarda chi gran contrarietati tegnu,
quando la viu chiù mancu la viu.
Celia, 65


La mia disgrazia tua disgrazia fu,
pacenzia undi rimediu non ci po’,
chi, senza aviri ormai speranza chiù,
perdi ognunu di niu l’intentu so.
Sii costanti, ch’iu quali fui su,
né di l’essiri miu mi movirò;
e, comu non pozzu iu n’essiri to.
Celia,71


Supra li noti fermi di lu cori,
stabili e saudu in non mutarsi mai,
fannu li mei penseri varii cori,
contrapuntandu cui pocu e cui assai;
e tu, memoria, a li vuci canori
ci porti lu compassu e cu iddi vai
cantanddu ducimenti sti palori:
sia benedittaa l’ura chi l’amai!
Celia, 73







Cori miu, in celu propia non ci trovi
signu chi di fermizza ndi conorta:
la luna muta formi in vecchi e novi,
lu suli ha la sua strata dritta e torta
e in ogni stidda varii aspetti provi
chi, girandu, lu celu leva e porta.
Chi sarrà di cui amamu? Non si movi?
Uh uh per nui, chi la speranza è morta.
Celia, 76




Cu duci modi mi lighi e ncatini, tal chi li sensi mei non su chiù soi:
fa’ di mia scheltu, ingrata chi mai fini,
o in atomi risolvimi, si pòi!
E si non basti, st’ossa, carni e vini
Risolvili a lu minimu stissu senza fini
Amirà estremu li bellizzi toi.
Celia, 77



Mi formu di tia un’ecu in ogni locu
e parimi ch’iu parlu e tu respundi.
S’iu cantu o chianti pr’esalari un pocu,
sentu li canti e chianti toi profundi;
s’in sugghiuzzi, suspiri e vuci abbundi.
O fintu beni, o travagghiatu iocu,
m’immaginu fruirti e non viu undi.
Celia, 83





O, si per sorti avissi fattu Diu
reciprocu l’amuri fra di nui,
né cori vostru ci fussi né miu,
ma fussimu vui ed iu unu e nun dui.
Cert’è, ch’ancor chi locu ndi spartiu,
la vogghia e lu disiu nd’uniria chiui:
ora iu senza di vui sugnu senz’iu
e vui senza di mia siti iu vui.
Celia, 132


Si li celesti sferi su girati
di li chiù beddi spiriti e chiù puri,
sferi di lu miu celu, ch’avanzati
 chist’autri celi in forza ed in splenduri,
cui vi duna lu motu? Undi spirati
a un giru d’occhi lu divinu arduri?
Ah, chi ben sentu, non mi lu negati,
chi per vui diventau spiritu Amuri!
Celia, 135


Planeta und’hannu iornu l’occhi mei,
cui di l’aspettu to mi fici fori?
O felici tri voti amanti e sei,
ch’avendu a impeiurari primu mori!
Benchì per sorti e vogghia di li dei
Tu sì in Sicilia ed iu in terra di Mori,
t’aduru cu li spirti afflitti e rei:
zo chi non po’ lu corpu fa lu cori.
Celia, 137





Riveni, si recria e si restaura
undi tu appari intornu lu paisi,
l’airu di lu to gratu oduri ciaura,
ciurisci lu  terrenu chi scalpisi.
Di lu to lustru lu suli s’innaura
E lucindi la luna d’ogni misi:
sulu a la mia fortuna per duci aura
mai veni, o per sant’Ermu a lu caucisi.
Celia, 168



S’iu mutai modu, stilu, abitu e forma,
dati la culpa a la nimica mia,
chi mi s’ha fattu so e, vigghia o dorma,
comu un camaleonti mi varia.
Idda è regula mia, idda è mia norma
E cu la vista affettuosa o ria
Mi muta e smuta, mi forma e trasforma,
e quantu voli vali e fa di mia.
Celia, 180



Mi rudu, mi minuzzu, anzi mi stendu,
com’oru per trafilu assuttigghiandu
 e non m’avvinciu mai, né mai mi rendu,
sempri chiù disiusi l’ali spandu.
Timu chi, comu diventau chiangendu
Egeria ciumi e vuci Ecu gridandu,
iu, mentri pensu e pensari pretendu,
non mi risolva in penseri pensandu.
Celia, 186




Fui prisu in risguardari la grandizza
di vostra divinissima figura:
l’eburnea frunti, la deorata trizza,
la vucca cinta d’impernati mura;
l’occhi, und’amuri a cui v’adura.
Vui siti, donna, specchiu di bellizza,
miraculu di Diu, d’arti e natura.
Celia, 193



Mi sonnai chi vui ed iu, patruna mia,
morti, a l’infernu iamu condannati:
iu, perchì cosa celesti volia,
vui per la vostra tropp crudeltati.
Vui tantu eravu sazia di mia,
chi festa vi paria quantu si pati;
iu, per la vostra vista e compagnia,
stari non mi cridia fra li dannati.
Celia, 222



Venimi in sonnu, poi chi non voi in vigghiu,
puru chi viia a tia, gabbami e fingi,
chi si ben l’umbra indernu abbrazzu e pigghiu,
l’amnti un duci ingannu lu suspingi.
E si burlatu, ohimè, poi mi risbigghiu
E a lu spariri to l’alma si tingi,
purrò laudarmi chiù d’un to assimigghiu
chi di tia stissa, ch’a morti mi spingi.
Celia, 238




Mi gira ntornu la menti un penseri
chi comu senia mai cessa un istanti,
ma cu catusi di doluri veri
ligati a cordi di speranzi erranti,
scindi ed acchiana e torna e scindi arreri
 a lu cori, undi surginu li chianti,
e l’inchi e porta chini di chimeri,
e poi li cala di frutti vacanti.
Celia, 246


Ligami, beni miu, ligami e strinci
cu milli, si non basta un sulu lazzu:
si liga cui la Curti lu costrinci,
si liga cui serra gamba o brazzu.
Si liga in guerra cui si pigghia e vinci,
liga cui è folli e la medulla ha a sguazzu:
ed iu, per lu to amuri chi m’avvinci,
su reu, su infirmu, su scavu e su pazzu.
Celia, 267


Lavati la testuzza, vita mia,
chiù bedda chi non vitti a Febu santu;
ma mi fai ingiuria, ch’essiri vorria
cosa chi ti servissi tanto o quantu.
Sapuni, a li to manu squagghiria;
vacili, appariria la grazia intantu;
o, a nenti a nenti, mi farria liscia,
cinniri st’arsu cori, acqua lu chiantu.
Celia, 287



Gira lu cori comu lignu a tornu
supra dui perni, speranza e disiu;
undi fermu la vista e movu intornu
non scopru umbra di paci, né disviu.
Per tia, ciatu, di morti in vita tornu
E cu tia l’afflittanima recriu,
né mi pari ch’è iornu chiddu iornu
chi lu to suli luciri non viu.
Libru, 10


S’iu t’avia misu in autu a lu zimbellu
fu perchì t’avvinissi zoccu avvinni:
iu l’appassiunatu e tu le beddu,
iu puru puru e tu tutta disinni.
Sapia c’hai mancu fidi d’un ribellu,
sapia chi fraudi e no amuri ti tinni:
cussì comu a la crapa lu sturnellu
suca lu latti e siccacci li minni.
Sdegnu, 32

Su tornatu lanterna, undi si serra
una lucerna ch’ardi in ogni locu:
l’ha fattu Amuri per darimi guerra
e tormentarmi a l’amurusu iocu.
Lu mecciu ch’ardi e ch’a lu focu afferra
è lu miu cori estintu a pocu a pocu,
l’afflittu pettu è lu vasu di terra,
ogghiu  lu sangu e vui siti lu focu.
Canzuni, 1.









dal libro MONREALE CAPITALE NORMANNA 
di 
Giuseppe Schirò


CULTURA E ARTE NEL ‘600

a cura di Giuseppe Schirò

La tradizione culturale (iniziata nel secolo precedente con la produzione poetica di Antonio Veneziano,  l’istituzione, da parte del Torres,  del Seminario come centro di studi e di formazione tra i primi in Sicilia e  l’ ulteriore impulso ricevuto dal Venero)  continuerà ad affermarsi nel ‘600 per arrivare all’apogeo nel secolo seguente. 
Gli arcivescovi incoraggiano efficacemente le scuole. Le materie fondamentali  dell’insegnamento erano la grammatica, la retorica, le lettere e la filosofia. Saltuariamente vi erano cattedre di teologia e di diritto ecclesiastico e civile. L’istruzione era piuttosto diffusa poiché forniti di qualche istruzione dovevano essere i consiglieri municipali, i dirigenti delle numerose associazioni, i commercianti, oltre, s’intende, i professionisti. Anche le autorità comunali incoraggiano gli studi: nel 1644 il pretore e i giurati “per animare li cittadini di andari alli studi” decretano una trionfale accoglienza al giovane Francesco Sanchez che tornava con la laurea in diritto ecclesiastico e civile dall’università di Catania. Prendere la laurea a Catania è tuttavia un’eccezione. Di solito, i giovani che avevano ultimato i corsi, si presentavano al Collegio Massimo dei Gesuiti di Palermo per ricevervi la laurea in filosofia, che valeva pure per le lettere, o in teologia. Presso qualcuna delle famiglie più distinte troviamo anche una piccola biblioteca.  Antonio Novelli, morendo nella peste del 1625, lascia cento volumi per testamento. Il centro di studi più notevole continua ad essere il seminario. Il numero degli alunni raggiunge i quaranta. Fioriscono gli studi teologici. Si inizia la consuetudine di tenere dispute pubbliche, svolte alla presenza di tutti gli studenti, delle autorità e del pubblico. Il sistema era in uso anche nei circoli culturali palermitani. Si distinguono: Pietro Rincione, Giuseppe Dunzo, Giuseppe Lombardo, Giacinto Gaudesi, e i greco-albanesi Giuseppe Stassi, che morirà martire missionario, e il servo di Dio Gaspare Guzzetta, di cui parlerò in seguito. Monreale manteneva rapporti culturali intensi con la capitale ed era partecipe attivamente di tutto il movimento culturale siciliano. In emulazione col seminario, è in quest’epoca il monastero dei benedettini. Nel 1609 i benedettini Vincenzo Barralis e Vincenzo Lucerame  costituiscono la biblioteca che diverrà poi la biblioteca comunale. I benedettini di Monreale avevano stretti legami con quello di S. Martino delle Scale e con quello di S. Giovanni degli Erermiti di Palermo. Tutto l’ordine erano sotto la pressione di istanze riformatrici. Prevale una produzione letteraria a sfondo didattico e moralistico in cui abbonda una serie di “teatri”, “stelle” “soli” “trionfi” spesso privi di originalità. A Monreale si distinguono Mauro Marchesi e Paolo Catania. Con Paolo Catania, i benedettini si inseriscono brillantemente nella corrente letteraria siciliana. La sua opera “Canzoni morali sopra motti siciliani” in 7 volumi lo colloca tra i letterati  più in vista della città di Palermo, dove era assai apprezzato. Ma l’opera letteraria nella  quale esprime il meglio di sé è il “Teatro, ove si rappresentano le miserie umane … in canzoni siciliane in sesta rima”. Il suo scopo è di cantare il mondo fallace ed i suoi inganni, sollecitando insistentemente l’uomo a riflettere su quello che fu, che è e qual è il suo fine. Una sottile e profonda vena di pessimismo permea l ‘opera del Catania, pessimismo che giustifica i suoi insegnamenti  morali e l’etica cristiana. Ma egli è incapace di elevarsi allo stimolo di virtù sociali, incapace di vedere al di là dell’angusto confine politico in cui egli con tutto il suo mondo letterario viveva. I pregi migliori sono quelli letterari, come la finezza nell’uso della metafora e dei simboli del teatralismo barocco dell’epoca, la capacità di rappresentare tipi e personaggi umani e soprattutto la padronanza dell’uso del siciliano, per cui si pone tra i classici della lingua siciliana. Oltre tutto dovette essere forte l’esempio ed il richiamo dello zio Antonio Veneziano, che però supera di molto il Catania per la sua bollente ispirazione poetica. Il Catania è anche autore di una “Cronaca” inedita del monastero di Monreale che sarà proseguita da Giacomo Squiglio e poi con più elevato impegno e migliore fortuna dall’abbate  Del Giudice, dal Tarallo e dal Gravina. Anche i cappuccini nel convento fondato a Monreale  da Ludovico I Torres nel 1580, non trascurano gli studi. In questo secolo si rendono celebri  il p. Basilio e il p. Urbano, ambedue da Monreale.
Il p. Basilio fa restaurare ed ampliare il convento includendovi un noviziato con le relative scuole. P.Urbano fa costruire un locale per la biblioteca che si arricchisce di molti volumi, la maggior parte dei quali di argomento sacro. Il fervore degli studi a Monreale in quet’epoca è attestato anche da altri sempi come Vincenzo Torre (+1694) che Vito Amico dice dottissimo, medico, filosofo, astronomo, e Francesco Baronio Manfredi (1593-1654).  Questi studia nel seminario. Assunto dal Senato palermitano come segretario, diversamente che dal Catania, il Baronio, era convinto che <lo scrittore è ministro della vita civile>, si inserisce con la sua attività di scrittore e di storico nella litigiosa vita politica sicilaina di allora. Perciò scrive la <Vindicata veritas panormitana> per difendere Plaermo contro la pretesa  superiorità di Messina, e poi ancora <Della cronaca di Palermo>, <Palermo glorioso> e i quattro libri del <De maiestate panormitana> che illustra Palermo dal punto di vista naturale, storico e giuridico. Allargando poi il suo orizzonte su tutta la Sicilia, scrive il <Siculae nobilitatis amphitheatrum> in versi e prosa, poi ancora altri versi, epigrammi, la traduzione in versi latini della Celia del Veneziano, composizioni in prosa.
Francesco Baronio Manfredi, arrestato per le vicende della rivolta del maggio 1647, perché pare abbia preso parte alla congiura ordita da Francesco Vairo che lo avrebbe voluto porre a capo della Sicilia come repubblica indipendente, vien rinchiuso nella fortezza di Gaeta, dove muore.
L’arte barocca a Monreale ha esempi assai importanti e significativi. Quasi tutte le chiese esistenti vengono rinnovate secondo il nuovo gusto, come quella di S. Francesco, di S. Castrenze, dell’Odigitria,, della Madonna dell’Orto, di S. Giuseppe, il cui prospetto è tra gli esempi più interessanti del barocco a Monreale.Sopra tutti però emerge, come testimonianza tra le più importanti del barocco siciliano, la cappella del Crocifisso nel Duomo, costruita su progetto di fra Giovanni da Monreale, cappuccino. La decorazione è diretta da fra Angelo Italia gesuita, cui appartiene la decorazione di Casa professa a Palermo. Vi lavorano anche vari scultori, come Giambattista Firrera, Baldassare Pampillonia, Luzio Tudisco, Nicolò Musca, Giambattista Marino e Carlo Rutè.  





MONREALE 

NELLA CULTURA SICILIANA DEL ‘700

a cura di Giuseppe Schirò



Una tradizione culturale siciliana si era sempre mantenuta anche durante il dominio spagnolo. Le lettere, la storiografia, gli studi giuridici avevano avuto sempre dei validi cultori. Ma mentre in Italia e in Europa nuovi movimenti e nuove correnti erano cominciati a diffondersi nel campo letterario, filosofico e scientifico, la cultura siciliana era rimasta abbarbicata alle sue tradizioni: gli studi di storia e di diritto, che erano i più fiorenti, non raggiungevano grandi altezze, limitandosi alla ricerca erudita delle fonti e alla difesa documentata dei privilegi. La vita sociale era ancora imperniata sul sistema feudale e ciò si rifletteva anche nel campo della cultura che, per questo, non ampliava i suoi orizzonti e tendeva a difendere le vecchie posizioni sociali. Erano molto diffuse le accademie, adunanza di dotti in casa di mecenati, allo scopo di promuovere gli studi in discussioni comuni, secondo l’indirizzo che ogni accademia si dava. Dopo i primi difficili decenni del ‘700, turbati dai cambiamenti di governo e dalle incertezze politiche, il governo borbonico si consolida. L’impulso rinnovatore che ogni nuovo governo, appena arrivato, si sforzava di imprimere alla vita siciliana, può finalmente trovare successo e far uscire la Sicilia dal lungo letargo e dall’isolamento in cui da un secolo e mezzo si trovava immersa. Il risveglio della cultura siciliana comincia a notarsi verso la metà del secolo. Le nuove condizioni politiche consentono di intensificare i rapporti con la cultura italiana ed europea. Le accademie allacciano rapporti tra di loro e con quelle che si trovavano in Italia; dotti siciliani fanno parte di varie accademie italiane e straniere e viceversa. Intense sono anche le corrispondenze culturali tra i più colti siciliani ed eruditi e scienziati italiani, francesi, inglesi e tedeschi. Giovani siciliani vanno a perfezionare i loro studi all’estero, specie in Inghilterra. La regia accademia di Palermo inviava i suoi migliori professori a perfezionarsi nei centri più progrediti d’Italia, di Francia e d’Inghilterra. Questo soffio di risveglio porta con sé nuove idee. Si diffonde la cultura francese, penetra l’illuminismo e circolano le opere d’arte di Locke, di Hume, di Hobbes. La nuova situazione è notata anche da italiani e stranieri. Tuttavia manca una profonda comprensione ed assimilazione dello spirito dell’illuminismo, che avrebbe potuto portare una trasformazione o forse un capovolgimento delle vecchie istituzioni feudali, su cui si basava la vita siciliana.
Dopo il Venero, per un complesso di circostanze caratteristiche di Monreale, gli studi nel seminario si sviluppano come non mai. Le nuove idee vengono recepite con entusiasmo; si forma un gruppo di uomini volenterosi e colti che preparano l’epoca d’oro del Testa. Ricordo Emauele Cangiamila, autore di un’opera scientifica che raggiunge grande celebrità ed è tradotta in varie lingue, l’<Embriologia sacra>; Giogio Guzzetta (1682-1756) di Piana degli Albanesi, che svolge un’intensa attività, sia in favore della sua città natale, dove fonda l’oratorio dei filippini di rito greco e il collegio di Maria, sia in favore della popolazione di rito greco in Sicilia. Nel 1734, fonda a Palermo un seminario per i chierici di rito greco. In tutta la Sicilia era ammirato per le sue virtù e la sua dottrina. Vescovi insigni che ebbero una fama pari a quella che saprà conquistarsi il Testa a Monreale, come il Valguarnera a Cefalù e il Gioeni ad Agrigento, ricorrevano ai suoi consigli per riformare i loro seminari e ridestare la vita religiosa e gli studi nella loro diocesi. Ancora Alberto Greco Carlino (1697-1763), monrealese, amico del Guzzetta e suo collaboratore, si dedica in particolare alla fondazione dei collegi  di Maria.  Quello che istituisce a Monreale è come la centrale da cui tanti altri si diffondono, a Cefalù, ad Agrigento, in tutta la Sicilia. Antonino Diliberto, monrealese, insigne cultore della poesia religiosa dialettale, pubblica le sue poesie sotto il nome anagrammatico di Binirittu Anneleru.
Nel 1754, all’età di 50 anni, l’arcivescovo Francesco Testa, fa il suo solenne ingresso in Monreale. 
Era canonico della cattedrale di Palermo e si era distinto con una pubblicazione sui capitoli del regno di Sicilia. Era un uomo di punta per i suoi tempi, un organizzatore ed un suscitatore di energie nuove. Subito egli si occupa degli studi nel seminario. Come rettore egli chiama Vincenzo Pupella, uomo di grande valore e che sa comprendere in pieno le grandi idee del Testa. Sotto la sua guida, il seminario diviene angusto per contenere il numero degli alunni che affluisce. Il Testa provvede col far costruire due altri grandi dormitori, uno sulla cappella e l’altro sulla biblioteca. Ma poiché anche questo spazio è insufficiente, il Testa, adibendo lo stesso palazzo arcivescovile e l’area soprastante, fonda due altri istituti: l’episcopio accoglie giovani di qualsiasi condizione che si avviavano al sacerdozio, il convitto ospita giovani di nobile famiglia, distinti in due camere: la camera degli ecclesiastici per quelli che si avviavano al sacerdozio e la camera dei nobili laici, come convittori. Dei due istituti era rettore il Murena, scolopio piemontese. I giovani dell’episcopio e del convitto dei nobili non frequentavano le scuole dei gesuiti, come i seminaristi, ma avevano scuole proprie, nel palazzo arcivescovile. Il Testa si circonda di dotti monrealesi, come Giuseppe Pappalardo, teologo, Gaetano Romano, giurista, Giovanni Pampalone erudito e conoscitore di varie lingue<studio raro in quei tempi>. Ne chiama anche da fuori come Saverio Romano di Palermo, discepolo di Nicolò Cento, per insegnare Geometria e lingua greca. Il Romano era anche un buon medico. Pure da Palermo è chiamato per insegnare diritto naturale, canonico e civile il celebre Vincenzo Fleres, anch’egli seguace del Cento. Tra le scuole arcivescovili e quelle dei gesuiti si accende una vera e propria gara. Questa situazione si mantiene senza equilibri per oltre un decennio. Gli studi in Monreale erano cosi fiorenti che il seminario, secondo l’affermazione dello Scinà., diviene la scuola non solo della diocesi ma di tutta la Sicilia. Per lo sviluppo assunto dalla filosofia e dalle lettere, Monreale è detta la cittadella della metafisica, la rocca inespugnabile della latinità e l’<Atene> della Sicilia.
Tali affermazioni sono state confortate da più recenti e approfonditi studi. Giulio Natali nella Storia Letteraria d’Italia, non esita ad affermare che il seminario di Monreale <era allora il principale  centro di cultura della Sicilia>. L’equilibrio è turbato nel 1767 quando i Gesuiti sono espulsi dalla Sicilia e devono lasciare anche Monreale. Ma il Testa corre subito ai ripari. Gli alunni del seminario e i giovani monralesi sono fatti affluire nelle scuole arcivescovili. Tra gli insegnanti: Vincenzo Miceli il filosofo, per il diritto naturale, civile e canonico; Ciro Terzo, per la teologia dommatica; Pietro Sardisco, per la teologia morale; Nicolò Lipari, per l’umanità; il Murena per la retorica e l’eloquenza latina; Saverio Romano per la geometria e greco; Secondo Sinesio per l’eloquenza e la poesia italiana. Il Testa era sempre a capo, come animatore di questo movimento di studi, non lesinando i mezzi e dando volentieri ospitalità agli insegnamenti nel suo palazzo, trasformato in un vero cenacolo di dotti e di sapienti. L’impulso dato dal Testa agli studi era un fenomeno che rientrava nella più vasta corrente di rinnovamento generale della cultura siciliana. Patrimonio comune dei dotti che lo circondavano era una profonda formazione umanistica, la quale veniva inculcata  a tutti gli alunni. Ma, salva questa base, possiamo distinguere due indirizzi, quello letterario e quello filosofico.  
Caposcuola dell’indirizzo letterario era il Murena. Questi, nel suo insegnamento <non perdea tempo con discorsi teorici e con ispiegare a lungo i precetti retorici e con speculazioni astratte…inutili per la gioventù… Ma dati pochi e brevi precetti, che alle volte faceva scrivere, alcune volte leggere in qualche libro, si applicava a fare intendere ai giovani profondamente gli autori classici. Mentre facea spiegare un autore, tanto parlava, tanto rifletteva, ad ogni passo, tanto s’infocava e s’accendea dello  spirito dell’autore medesimo, che i discepoli ne vedevano tutte le bellezze e s’accendeano anch’essi del medesimo spirito e si abituavano facilmente ad imitare i classici ed a scrivere in prosa e in versi con proprietà e buon gusto>; <… i ragazzi di tenera età spiegano francamente il Cornelio, il Cesare, il Tibullo e le cose più facili di Cicerone, di Catullo e di Virgilio>; non solo capiscono, ma imitano i classici latini ed italiani, scrivendo lettere, prose, e poesie… con proprietà di espressioni, e con principi di buon gusto>. Cosi a Monreale si formano eccellenti latinisti, perfetti imitatori del migliore stile classico cui potrebbe forse rimproverarsi la mancanza di originalità, ma non la padronanza dello lingua e dello stile.
E’ utile premettere che il ‘700 intende la filosofia con un significato alquanto diverso da quello che oggi lo si dà. La speculazione e lo studio delle scienze erano un’unica cosa, come i presocratici. Filosofo era chi aveva la conoscenza più vasta di molte materie o di tutto lo scibile di allora, della dialettica, della metafisica, della fisica, matematica, storia naturale, scienza politica ed astronomica. In seguito al decadere della scolastica si erano diffuse le idee cartesiane, leibniziane e l’empirismo del Locke. I centri culturali in Italia erano Milano e Napoli. Qui era il primo ministro Bernardo Tanucci, colto ed intelligente mecenate, in amichevoli rapporti col Testa per una certa affinità di idee. La corrente empirica scivola nel sensismo soprattutto ad opera del Condillac che dimora a lungo in Italia. Contro il sensismo ed il conseguente materialismo insorge Vincenzo Miceli. 
Questo giovane professore di filosofia aveva un aspetto di asceta, buono e dolce. Nato il 23 novembre 1734, aveva un ingegno robusto, ma una salute debole. Era uno di quegli uomini che il Testa aveva scoperto. Il Miceli, da sincero credente , sente profondamente l’insoddisfazione per i sistemi filosofici allora in voga: lo scetticismo da un lato e il razionalismo dall’altro gli appaiono come due gravi minacce per la religione che egli vuole difendere. Gli scolastici d’altronde, assorbiti da mille quisquilie, sembrano aver dimenticato la loro funzione. Era necessario procedere ad una nuova sistemazione delle scienze speculative, per conciliare tra loro filosofia e teologia – questione allora assai scottante – per la difesa della religione minacciata dalle sue  fondamenta.
Il Miceli ritiene che il filosofo cristiano deve trattare insieme verità naturali e soprannaturali, deve saper adoperare le stesse armi che gli avversari della religione adoperano per distruggerla. Ed ecco che, appena venticinquenne, egli è già all’opera: <Io ho dunque nell’animo di produrre un semplice ed universale sistema di tutte le scienze non solo di quelle che alla natura si appartengono, ma di quelle altre ancora che sono nel mondo soprannaturale>. Perciò egli cercherà di trarre la quintessenza degli altri sistemi filosofici per costruire il suo sistema. Come il Cartesio aveva posto il <cogito ergo sum> come principio estremo di certezza, così il Miceli fonda ogni sua argomentazione sul <principio di contraddizione>. La prima applicazione di questo principio avviene intorno all’Essere. Il Miceli ha dell’Essere un concetto <positivo> o, direi, <intensivo>, tale cioè che include l’esistere, altrimenti si avrebbe l’assurdo di un Essere che non è. Il passaggio tra ordine logico e ordine reale è superato con l’idea della <dinamicità> o della <progressione>, come diranno i suoi seguaci: l’essere tende necessariamente a realizzarsi.  Credo che il Miceli non abbia potuto definire compiutamente il suo sistema, per la sua morte relativamente prematura a 47 anni. Né d’altronde le sue opere sono ancora tutte pubblicate.



CULTURA MONREALESE NELL’OTTOCENTO

 a cura di Giuseppe Schirò



Con la morte del Testa, il periodo di splendore della cultura a Monreale declina. Gli uomini migliori come lo Spedalieri, il Bianchi, il Sinesio, si allontanano; il convitto dei nobili si chiude. Le scuole del palazzo arcivescovile scompaiono. Nel 1781 muore il Miceli, lasciando un gran vuoto a malapena colmato dall’opera del Mureana, dal Fleres e dai due Guardì, Saverio e Antonio. Ma l’antica disciplina viene meno.
In questo periodo a Monreale non troviamo scuole pubbliche, malgrado le esortazioni del governo borbonico rivolte alle case religiose affinchè aprissero scuole elementari gratuite. A tale scopo anzi il governo, in seguito alla cacciata dei gesuiti istituisce la Giunta di educazione, presto sostituita dalla Depurazione dei regi studi, sotto la quale in diversi comuni della Sicilia, tra cui Monreale, vengono istituite scuole pubbliche di grammatica, retorica, lettere umane, filosofia e geometria. Ma queste scuole non hanno lunga durata.
Il vicerè Domenico Caracciolo, venuto in Sicilia nel 1781, abolisce la cattedra comunale di filosofia di Monreale perché ritiene sufficiente quella del seminario. Poco dopo, per lo stesso motivo, abolisce la scuola comunale di umanità e retorica. Le uniche scuole a Monreale rimangono quelle del seminario.
Nel 1788 il governo istituisce in Sicilia le scuole normali, sotto al direzione di Agostino De Cosmi, il quale era fautore di un indirizzo popolare nella scuola, e che considerava normale l’insegnamento rivolto al popolo, avente per base la lettura, la scrittura, la matematica ed il catechismo e distinto dagli studi superiori, tra cui quello del latino e della filosofia.
A Monreale queste scuole normali vengono aggregate al seminario.
Le cose si trascinano fino a che diviene rettore del seminario Biagio Caruso (1801), da Bronte. Questi aveva ricevuto la sua formazione ai tempi del Testa.
Con lui il micelianismo ritrova vigore: nel seminario per opera Di Saverio Guardì, Giuseppe Bruno e Giuseppe Zerbo; presso i benedettini per opera di Gabriele Gravina; a San Martino per opera di Gaspare Rivarola. Per un momento sembrano tornati i vecchi tempi.
Il Caruso acquista per le scuole del seminario l’edificio dirimpetto l’Arco degli Angeli, dove ancor oggi si trovano le stesse scuole. Riordina ed arricchisce la biblioteca del seminario. In ciò trova il pieno appoggio dell’arcivescovo Benedetto Balsamo il quale anzi, volendo non essere da meno del Testa, adibisce i locali sovrastanti il palazzo arcivescovile per aprire il convitto dei chierici rossi formato da giovani che prestavano servizio nel culto del duomo, indossando proprio una talare rossa Il convitto era diviso in due sezioni: quella dei più piccoli e dei più grandi. I chierici rossi che si preparavano al sacerdozio erano 12, gli altri, poco più di venti, erano convittori. Erano ammessi giovani da tutta la diocesi.
Il Caruso poi, allo scopo di mantenere distinti i chierici dagli altri studenti, si adopera tanto che nel 1819 si aprono regolari scuole comunali.
Queste scuole erano divise in primarie e secondarie. Nelle primarie si insegnava la lettura, la scrittura, gli elementi di calcolo, dei pesi e delle misure. In quelle secondarie, si studiavano belle lettere latine ed italiane, umanità, retorica, matematica e filosofia. Alla base di ogni insegnamento stavano i doveri religiosi e sociali. La vigilanza sulle scuole era affidata ai parroci, al sindaco e ad un ispettore. Gli insegnanti dovevano essere in possesso di regolare titolo di studio.
Ben presto il metodo normale viene sostituito dal metodo di Lancaster, detto anche del simultaneo insegnamento. Proibito il vecchio metodo dell’insegnamento individuale, proibite anche le sferzate, ammessi i castighi umilianti o di disonore. L’esame era annuale. L’insegnamento è affidato a sacerdoti forniti di regolare abilitazione all’insegnamento. Le scuole comunali si pongono subito in posizione di emulazione o addirittura di rivalità con quelle del seminario, quanto al profitto.
I locali non sempre erano confortevoli. Nel 1827 le scuole alloggiano finalmente in un’ampia casa di 15 vani nel quartiere della Ciambra, di proprietà della sig.ra Vittoria Seggio in Caruso, adattata allo scopo dell’architetto Emanuele Marvuglia e data in affitto al comune. Risale a questo periodo l’iscrizione nel bilancio comunale di una voce passiva per le scuole.
Del resto anche il governo da quest’epoca in poi comprenderà sempre più l’importanza della pubblica istruzione e comincerà a stanziare nel bilancio delle somme per questo. Nel 1828, a Monreale, gli alunni delle scuole sono 136. Inutile dire quanto diverso fosse l’orario delle lezioni ed il calendario scolastico: le lezioni andavano dal 3 novembre al 19 settembre!
In quest’epoca abbiamo ben quattro centri di studio: il seminario, il convitto dei chierici rossi, le scuole comunali e quelle dei benedettini con una scuola tecnica moderna e fornita di un laboratorio dotato di attrezzature scientifiche. Ma non si può parlare di una cultura laica, né di molti laici colti.
Inoltre la cultura monrealese di questa prima metà dell’800 è chiusa in se stessa, senza contatti con la cultura italiana ed europea. I giovani studenti sono in realtà pochi, quasi assenti le donne per le quali lo studio è ritenuto superfluo o addirittura fonte di pericoli. I rami del sapere più coltivati sono la filosofia e le lettere. Ma la filosofia era ferma al Miceli come attorno ad un idolo e lo studio delle lettere mirava più ad impadronirsi della forma latina o greca classica, che all’originalità.
Il Balsamo si adopera per introdurre un certo rinnovamento e chiama ad insegnare nelle scuole del seminario Giuseppe Saitta da Bronte e Diego Planeta da Sambuca. Il Saitta riabilita il tomismo facendo declinare per sempre il micelianismo. Introduce lo studio dell’italiano facendolo considerare alla stregua del latino e abbandona i vecchi metodi. Alla sua scuola si formano Nicolò Di Carlo, Nicola Cirino, Giuseppe Vaglica, Andrea Calafato e Antonino De Luca che diverrà cardinale. Il Planeta riforma gli studi giuridici, ma non lascia grandi orme. Quando viene fatto vescovo di Brindisi lascia Monreale. Anche il Saitta, fatto vescovo di Patti, lascia Monreale. Il Balsamo si rivolge ai più insigni uomini di cultura, perfino a Giacomo Leopardi, il quale sarebbe venuto se le condizioni politiche glielo avessero permesso. A venire è invece un letterato padovano, Giambattista Svegliato, il quale prosegue  nella via del rinnovamento iniziata dal Saitta fino a che il colera del 1837 non lo porta alla tomba. Nel 1860 il Prodittatore Mordini emana un decreto con il quale viene estesa alla Sicilia la legge Casati promulgata a Torino nel 1859 relativa alla Pubblica Istruzione. Le scuole elementari dovevano essere in ogni comune e, in quelli con popolazione superiore  a 5000 abitanti, vi doveva essere una scuola per l’istruzione elementare superiore. Queste scuole erano a carico dei comuni, obbligatorie per i due sessi e gratuita. Pochi anni dopo, nel 1863, si aprono a Monreale le scuole ginnasiali. Nel 1904 saranno istituite scuole tecniche. Per quanto riguarda le donne esisteva fin dal 1647 la <badiella> dove le ragazze, sotto la guida di suore, apprendevano oltre al catechismo alcune nozioni, insieme con l’avviamento a lavori donneschi.
Nella seconda metà dell’ottocento le tradizioni culturali del seminario vengono tenute alte soprattutto da due insigni umanisti e letterati monrealesi: Giuseppe Vaglica e Maurizio Polizzi.
Giuseppe Vaglica (1813-1886) dirige gli studi nel seminario, proseguendo nell’indirirzzo dello Svegliato. La sua specialità è il tradurre in latino in cui aveva acquistato una straordinaria facilità e prontezza: era capace di tradurre fino a otto modi diversi gli stessi versi: Traduce gli Inni sacri del Manzoni, i Sepolcri del Foscolo e del Pindemonte, la Basvilliana ed altre opere di autori vari e versi siciliani di Giovanni Meli. Molte cose sono ancora inedite. La sua originalità, più che nei contenuti, è nella forma, impareggiabile. Era un grande maestro ed un grande educatore. Pur avendo riconoscimenti dagli ambienti culturali palermitani, non usciva quasi mai dalla sua casa, che era sita nella piazzetta del Collegio di Maria che prenderà nome da lui.
Un carattere diverso da Maurizio Polizzi (1827-1905) il quale trascorre la sua vita nell’insegnamento. Molti tra i migliori uomini siciliani si vantavano d’essere stati suoi alunni. La padronanza del latino non è inferiore a quella del Vaglica, ma in campo letterario egli preferisce le innovazioni nei metodi e nei temi. Per sua iniziativa nel 1877 sorge nei locali dell’ex monastero dei benedettini il <convitto Guglielmo> per ospitare quei giovani studenti che, provenendo dai comuni vicini, non avevano un idoneo alloggio a Monreale. In filosofia è però ancorato al tomismo avanzante. Ma la figura che maggiormente eccelle in questo periodo è quella del filosofo Benedetto D’Acquisto, arcivescovo di Monreale, che già conosciamo, professore di filosofia all’università di Palermo e autore di numerose opere, tra cui il <Sistema della scienza universale>; un <Corso di filosofia morale>; un <Corso di diritto naturale>. Alcune opere sono ancora inedite.
Il  D’Acquisto si assume l’impegno di ripensare il sistema del Miceli e di superarlo, evitando di cadere nel panteismo da cui il Miceli non aveva saputo guardarsi. Ma, pur avendo delle intuizioni originali e pur sforzandosi di uscire dalla identificazione tra ordine logico e ordine reale, il D’Acquisto non esce dall’ontologismo monistico. E’ fuor di dubbio la sua buona fede ed il suo intento di restare nell’ortodossia cattolica ed in posizioni di difesa della sua fede religiosa.
Il D’Acquisto, pur conoscendo le opere di Kant, non ne subisce l’influsso; si muove in un ordine di idee anteriore alla speculazione Kantiana. Egli non forma una scuola di seguaci e la sua filosofia viene ben presto dimenticata.
 Allo scopo di restaurare l’ortodossia e per combattere le idee modernistiche che si andavano diffondendo, il papa Leone XIII lancia esortazioni allo studio del tomismo. Il modernismo, proveniente dalla Francia, sorto dallo sforzo di adeguare ai tempi il messaggio cristiano, portava però a concepire il domma cattolico come una verità in continua evoluzione, non come qualcosa di perenne e di stabile: la fede veniva vanificata e la chiesa veniva a perdere natura e funzioni. In quel clima di rinnovamento che a Monreale si era creato, il modernismo comincia a infiltrarsi tra il clero. Proprio per reagire a questo pericolo sorge, nel 1882, l’accademia tomistica, che pubblica un periodico <La Favilla>. Varie personalità della cultura monrealese aderiscono al tomismo. Tra queste emergono quella di Giuseppe Fiorenza e di Gaetano Millunzi. Il Fiorenza  (1842-1923) è considerato il più grande ellenista  della scuola monrealese. Sulla scia dei novatori, inneggia agli ideali di libertà in una cantica in onore di Baronio Manfredi. Dopo un decennio di vescovato a Siracusa, si ritira a Monreale e torna all’insegnamento ed anche agli studi storici. Ma in questo campo eccelle maggiormente Gaetano Millunzi nato nel 1859. Egli si propone di illustrare le vicende storiche di Monreale e pubblica una serie di monografie su vari argomenti, servendosi dei documenti degli enti ecclesiastici. Era un uomo dai molteplici interessi. Eccellente latinista, perfetto versificatore , insegnante, professa il tomismo e lo espone nel carme <de materia et forma>, che gli vale il riconoscimento personale e l’amicizia di Leone XIII che intendeva destinarlo ad alti incarichi. Il convitto dei chierici rossi, sotto la sua direzione, raggiunge l’apogeo dello splendore. Nel 1897 vi sono più di cinquanta alunni, provenienti da ogni parte della Sicilia. Sembrano ritornati i tempi del Testa. Una folta schiera di dotti, promana da Monreale portando nei vari campi di attività quella ricchezza morale e spirituale attinta qui: Girolamo Daidone da Altofonte, benemerito di quel comune; Gianbattista Leto poeta colto e delicato: Giuseppe Saitta, professore all’Università di Bologna; Giorgio La Piana, apprezzato professore in una università americana; Vito Lo Duca, latinista, poeta e storico; Giuseppe Sola, professore nel Liceo di Acireale, Giuseppe Caronia, medico e illustre scienziato; Gaspare Crociata, divenuto fra Antonio da Castellammare, cappuccino, scrittore e storico; Pietro Stella, celebre oculista; Francesco Paolo Evola vicario generale di Monreale per lunghissimi anni; Stefano Morello, letterato arguto di versatile ingegno; Andrea Gullo, erudito poliglotta ed insigne latinista; Giuseppe Fedele che con poesia tenera e delicata canta la sua città di Monreale e le bellezze della Conca d’Oro. Insieme con queste figure e con tante alte qui non ricordate, dovrei anche accennare agli altri illustri monrealesi, distintisi pure in questo periodo, come i giuristi Domenico Caruso e Calcedonio Inghilleri; Ludovico Di Liberti, magistrato e letterato; Giuseppe Epifanio rdiologo e scenziato; il generale Francesco La Ferla, pluridecorato al valore militare . Non solo le tradizioni letterarie e culturali ma anche quelle artistiche si conservano con notevole altezza in questo periodo. Nella pittura si distingue Antonino Leto (1844-1913) insigne pittore, vissuto a lungo fuori Monreale: a Roma, Parigi e soprattutto a Napoli , ottenendo molti riconoscimenti. Il teatro mantiene pure belle tradizioni: Domenico Scaduto, nella prima metà dell’800, l’ho ricordato come famoso <puparo>. Un teatro comunale si trovava nella via oggi Garibaldi prima del 1860 e mantenuto a spese del Comune anche molti anni dopo quella data; vi soprintendeva una apposita commissione. Così pure il Comune manteneva una banda musicale che vediamo allogata nei locali dell’ex convento del Carmine fino al 1929, con uno statuto proprio.



CULTURA MONREALESE NEL NOVECENTO

a cura di Giuseppe Schirò


Al 31 dicembre 1975 risulta che i 19.50 abitanti d Monreale centro dispongono solo di 15.408 mq. Per attrezzature scolastiche, per scuole elementari e medie dell’obbligo, con 114 aule per 3.033 alunni. La situazione è più carente per le scuole elementari, dotate di soli 3.570 mq e di 39 aule per 1.812 alunni, contro il fabbisogno di 70 aule, ai sensi di legge. Ciò provoca la necessità dei doppi e tripli turni, con gravi disagi. Superata la scuola dell’obbligo, i disagi si fanno ancor più gravi, per l’assenza di scuole superiori, se si eccettua il Ginnasio dislocato in parte nei locali dell’ex monastero dei benedettini ed in quelli delle scuole del seminario e l’Istituto magistrale nei locali del collegio di Maria. Questo fatto dà origine al fenomeno del pendolarismo di una notevole massa di studenti, che si recano a scuola a Palermo. Per ovviare in parte a questa carenza nell’ottobre del 1978 è stata aperta, ad opera dell’amministrazione comunale, una sezione staccata del liceo Vittorio Emanuele di Palermo, dove sono subito confluiti più di un centinaio di alunni. In quest’ultimo tempo è da ricordare una serie di fatti e di iniziative, nel settore culturale, che ci rivelano una certa mentalità della popolazione monrealese. Sorgono di tanto in tanto circoli o centri culturali che, generalmente, non vivono a lungo. Uno di questi è il <centro monrealese di cultura Pietro Novelli> inaugurato con solennità il 25 aprile 1952, ma della cui esistenza sopravvive solo un pallido ricordo. Intorno al 1960 scompare il convitto Guglielmo, i cui ultimi anni erano stati assai travagliati. Anche altre iniziative, come quella di creare un’opinione pubblica attorno ad interessi comuni, mediante la pubblicazione di un periodico locale durano pochi anni o, al più pochi lustri. Da ricordare <L’avvenire di Monreale>, che esce solo per alcuni anni intorno agli anni 20 e soprattutto <Monreale nostra> che inizia nel 1956, ma supera di poco i te lustri. Forse non ci sono state forti passioni politiche o forti interessi culturali che abbaino potuto generare e far crescere grandi iniziative capaci di superare la diffusa apatia e l’assenza di partecipazione. Diverso è invece il discorso che riguarda le tradizioni artistiche. Qui troviamo maggiore continuità ed un tono assai più elevato.
Non solo emergono notevoli personalità come Antonino Leto, Giaconia, Giuseppe Sciortino, Benedetto Messina, Elisa Messina, e tanti altri che formerebbero un lungo elenco, ma si perpetua e fiorisce una scuola di artisti che, nelle loro opere, attingono ispirazione da Monreale, dal suo complesso monumentale, dalla visione della Conca d’Oro, dall’aria caratteristica della nostra città. Proprio per una esigenza di riferimento alla tradizione locale e per addestrare i giovani al lavoro ed alla produzione artistica, nel solco di questa secolare tradizione culturale, nasce, nel 1959, la Scuola d’arte comunale, che si sviluppa rapidamente assumendo, nel 1962, la fisionomia di sezione staccata per il mosaico, dell’Istituto Statale d’arte di Palermo e quindi, dal 1968, divenendo Istituto autonomo, con annessa scuola media, e con regolari corsi triennali e biennali per il conseguimento del diploma di maturità d’arte applicata. Ne esce una schiera di giovani artisti, come Giuseppe Anselmo, Angelo Cangemi, Nino Renda, Isidoro Villanti e molti altri che onorano Monreale. Si tratta di pittori, scultori, ceramisti che ottengono consensi e successi di critica, non solo a Monreale, ma anche in altre città italiane ed all’estero. Per rafforzare e consolidare queste tradizioni, l’amministrazione comunale, nel 1971, ha accettato la donazione della sig.ra Nora Posabella, titolare della galleria d’arte <Il Vantaggio> di Roma, la quale ha voluto onorare la memoria dell’illustre scrittore e critico d’arte monrealese Giuseppe Sciortino, offrendo un gruppo di opere d’arte di illustri maestri del ‘900 tra cui Ottone Rosai, Carlo Levi, Mario Sironi,, Ardengo Soffici, Domenico Purificato, Filippo De Pisis, Giorgio De Chirico, Renato Guttuso Giorgio Morandi, Emilio greco, ecc. Scopo della donazione è quello di istituire una Civica Galleria d’Arte moderna , che ha trovato posto in un locale prospiciente al Belvedere…
La Galleria Civica costituisce un notevole arricchimento del patrimonio artistico di Monreale ed è destinata a stimolare e energie giovanile ed all’educazione culturale ed artistica di tutta la cittadinanza.
Altre istituzioni aventi precisamente questa funzione sono proprio l’Ente Turismo Arte e Sport (ETAS) e l’Accademia Sicula Normanna, che hanno svolto una notevole attività soprattutto con una serie di mostre ed altre iniziative che hanno contribuito a valorizzare gli artisti monrealesi o a far conoscere ai monrealesi artisti esterni. Un grande influsso ha avuto la settimana di Musica Sacra, giunta quest’anno alla XXIII edizione, organizzata dall’Azienda Autonoma Turismo Palermo e Monreale. La settima si svolge con l’esecuzione dei più famosi componimenti musicali classici, ad opera delle migliori orchestre del mondo: l’arte tocca così il sublime in un meraviglioso intreccio del momento musicale col momento figurativo ed architettonico.

...Quanto detto finora costituisce premessa per la comprensione della realtà odierna e per orientare verso scelte future. Mi sembra infatti che lo studio del passato non deve essere sterile ricerca, appagamento di curiosità o, peggio, momento di rimpianto per realtà che più non esistono, ma momento di conoscenza e di riflessione per orientare decisioni che la vita e la storia ci impongono. 
Abbiamo ereditato dai nostri antenati un complesso di valori e cioè la realtà nella quale ci troviamo;: adesso è nostro compito assumere questi valori e andare avanti. E’ nostro dovere far sì che il futuro sia migliore.


La nostra città sembra protesa alla ricerca di una sua regola di sviluppo, di una sua norma di attività, per segnare, in modo umano e civile, le linee del suo assetto futuro.

GIUSEPPE SCHIRO'
(da "Monreale Capitale Normanna)










A M E L I A    CRISANTINO 

"NELLO STATO DEL GRANDE INQUISITORE. FRANCESCO TESTA ARCIVESCOVO DI MONREALE (1754-1773): UNA PRIMA RICOGNIZIONE*  
*in questo saggio sulla politica monrealese dell'arcivescovo Testa si anticipano alcune ipotesi di lavoro e i parziali risultati di una ricerca in corso, soggetta a precisazioni e aggiustamenti. Viene per il momento privilegiata l' osservazione di alcune iniziative sul disciplinamento dei comportamenti e la committenza architettonica, che offrono un inedito punto di vista sulla storia sociale della Sicilia di quegli anni.

Prof.ssa Amelia Crisantino


Nel  Prospetto della  Storia letteraria di Sicilia Domenico Scinà tramanda la memoria dei meriti culturali di mons. Francesco Testa, che molto aveva operato per la pubblica educazione della gioventù, speranza dello Stato e della nostra Sicilia e che, da arcivescovo di monreale, eresse in questa città un seminario che la scuola divenne, non che della sua diocesi, ma di tutta la Sicilia...lo fornì di abilissimi professori in tutte le scienze. Mons. Testa è fra i protagonisti della storia politico-culturale isolana la cui memoria viene positivamente trasmessa, fra i modelli indicati ai giovani del "partito siciliano": mentre era stabile e generale, perchè dipendeva da privati, e lentissimo era il progresso nelle scienze naturali, l'arcivescovo era stato fra quei pochi("alcuni") che "valsero ad illustrare il clero e le città principali dell'isola". Il primo volume del Prospetto viene pubblicato nel 1824, quando Francesco Testa è morto da quarant'anni e il tempo ha portato una serie di cambiamenti accelerati: a palermo i contraccolpi della rivoluzione francese comprendono due soggiorni della corte, la costituzione voluta da BentinicK, la nascita del Regno di Sicilia, l'estensione all'isola della legislazione del 1820. L'Arcivescovo Testa appartiene a un mondo ormai superato, ma è da ricordare per almeno due iniziative: la raccolta dei Capitula e la riforma degli studi, cioè l'orgogliosa rivendicazione delle prerogative della nazione siciliana e l'operazione di rinnovamento interno, capace di formare i nuovi siciliani. La valutazione di Scinà consegna ai contemporanei  un protagonista del recente passato, l'attenzione verso l'arcivescovo-confermata da alcune pubblicazioni-continua sino ai primi anni '40 dell'800 per poi declinare in maniera definitiva. La storiografia contemporanea ha sottolineato il contesto conflittuale di cui mons. Testa è parte, lasciando ad ulteriori indagini il compito di definirne il profilo in maniera più completa. L'arcivescovo è fra i protagonisti della storia siciliana del XVIII secolo, un riformatore che agisce seguendo due stelle polari: le prerogative della nazione e la gloria di Dio, da coniugare assieme perchè impensabile risulterebbe la loro divisione. Il ripudio della filosofia scolastica e la rinomanza raggiunta dal seminario no esauriscono le sue multiformi capacità di intervento, come Inquisitore Generale per il regno di Sicilia e capo del Braccio ecclesiastico del Parlamento Francesco testa contribuisce a definire il clima culturale del suo tempo. Ma Monreale è la scena in cui si muove da demiurgo, il piccolo "Stato" dove agisce come Abate e Signore e - nei quasi vent'anni in cui governa la ricca diocesi - l'arcivescovo cambia il volto della cittadina. La santità dei costumi, il decoro civile, la preghiera e una moderata attenzione per quanto avviene nel vasto mondo sono i valori che ne improntano la multiforme attività riformatrice; il disciplinamento dei corpi e delle anime ma anche del territorio propongono al Regno un esempio, un modello di virtù religiosa che dal piccolo Stato teocratico si contrappone "naturalmente" a quello di virtù civile elaborato dall'Illuminismo". L'attività di committente urbanistico-architettonico è l'aspetto più immediatamente visibile di un riformismo globale che vuole tracciare una "via siciliana" per la modernità, che rifiuta il laicismo del secolo ma anche l'ignoranza e la superstizione. le iniziative messe in campo per educare il popolo alla morale cristiana si dispiegano sullo sfondo di una "razionalizzazione" del territorio, che mons. testa compie in gran parte con il suo patrimonio personale: sposta due delle porte urbane per includere i nuovi insediamenti, allarga e albera la via principale, porta l'acqua nella parte alta di un paese tutto in salita e costruisce un canale in muratura per consegnare altre acque ai giardinieri di Palermo. L'iniziativa più impegnativa è la costruzione di una spettacolare via-monumento decorata da artistiche fontane, creata per facilitare i collegamenti con la capitale e tutta pensata sotto il segno della bellezza. 
...........

Il 7 maggio 1773 la morte dell'arcivescovo chiude in maniera definitiva un esperimento già esaurito, che non portava frutti. all'ombra della cattedrale normanna Francesco Testa aveva posto le premesse per un progresso graduale, necessariamente lento, dove religione e carità avrebbero risolto i problemi sociali e ristabilito la pace. Il suo obiettivo era la creazione di un uomo nuovo: severo rigorista in religione, solidale nella vita pubblica, amante del decoro e della moderazione. Un obiettivo ambizioso per cui aveva speso ogni soldo delle sue ricchezze e delle  rendite, ogni energia. Dovette contentarsi di nobilissimi funerali e un mausoleo marmoreo offerto dal re, scolpito dallo stesso artista che aveva adornato le fontane della via-monumento.

E presto il piccolo Stato teocratico di mons. Francesco Testa viene cancellato: poco dopo la sua morte, l'arcivescovato di Monreale è associato alla sede di Palermo e le rendite della Mensa vengono destinate alla creazione di una flotta di triremi.
...(segue).  

da "Quaderni MEDITERRANEA Ricerche Storiche"-Collana diretta da Orazio Cancila - Agosto 2010 n. 19 




AMELIA CRISANTINO

Dottore di ricerca in Storia (Storia della cultura, della società e del territorio in età moderna), continua l'attività di studio presso il Dipartimento di Studi storici e artistici dell'università di Palermo. Tra le sue pubblicazioni, il saggio "Della segreta e operosa associazione-Una setta all'origine della mafia (Sellerio, Palermo, 2000). Ha in corso di stampa nella collana dei Quaderni di mediterranea il volume Introduzione agli "Studi sulla Sicilia dalla metà del XVIII secolo al 1820" di Michele Amari, e l'edizione a sua cura degli "Studi sulla storia di Sicilia dalla metà del XVIII secolo al 1820" di Michele Amari.








PRESENTAZIONE LIBRO DELLA SCRITTRICE MONREALESE




 
Aula Consiliare di Monreale

Palermo 1873, apertura dell'anno giudiziario, il procuratore del Re: Una corrente rossa circuisce Palermo, s'avvia per Monreale, a Partinico, e da Partinico per Alcamo si inoltra nel finitimo circondario". Quando ancora il nome mafia non aveva la sua forza di evocazione, un numero vario di associazioni a delinquere, forse non ancora collegate, radicate nella cintura di paesi intorno al capoluogo, discendenti o probabilmente da trascorsi connessi anche alla ribellione armata e all'associazionismo solidale clandestino, assumeva i caratteri della famiglia mafiosa.
Si formava quella che oggi conosciamo come Mafia, in un processo di contagio e di affermazione quasi darwinista di uno stile vincente di rapporti con il territorio lo stato e le classi dirigenti. 
Questo libro studia una di esse, la setta degli Stuppagghieri di Monreale sulla base delle carte del processo intentantole contro nel 1878, in cui forse il primo della serie innumerevole di pentiti descriveva pratiche e rituali quasi immutati fino ai nostri giorni.. Ed è una genealogia della mafia di fortissima efficacia a chiarire quella sorta di promozione statuale originaria, nel miscuglio di bruta repressione e lassismo, accentramento e immunità localistica, avversione e complicità, denuncia e strumentalizzazione con cui fu accolta la Sicilia nell'unità italiana.






Amelia Crisantino

BREVE STORIA DELLA 

SICILIA

Le radici antiche dei problemi di oggi





Prefazione 
a cura di Orazio Cancila


La storia è sempre complessa e, senza timore di peccare di sicula presunzione, è facile sostenere che la storia della Sicilia racchiude un grado di complessità tale da non incoraggiare le operazioni di sintesi. Naturalmente, solo per restare nell'ultimo secolo, non sono mancate grandi opere in più volumi a cui hanno collaborato storici prestigiosi. Ci sono state pure le opere di singoli studiosi, sempre poderose e sicuramente apprezzabili. Ma un libretto agile, svelto e divulgativo nel suo senso più alto, cioè senza smettere di essere rigoroso , decisamente mancava. In un'Italia - e in una Sicilia - dove la storia è spesso materia di scontro politico, c'è voluto quel pizzico d'incoscienza derivante da una forte passione civile per decidere di porvi mano. L'operazione è certamente riuscita. Amelia Crisantino ha ripercorso la storia della Sicilia a partire da alcune importanti categorie storiografiche, utilizzandole come un codice in grado di chiarire il succedersi degli eventi: l'insularità. il ruolo strategico nel Mediterraneo, il rapido sedimentarsi di un'economia che ha il suo punto di forza nel grano e quello debole nell'assenza di manifatture. I temi individuati non costituiscono però dei quadri staccati, a sè stanti, ma sono dei tasselli attraverso cui si dipana l'intera storia siciliana. E il merito del libro sta nell'avere tenuto sempre ben presenti i caratteri e gli interessi che determinano la storia politica, di essere andato oltre la superficie occupata da battaglie e conquiste. Per una "breve storia" non è davvero poco. Il sottotitolo "le radici antiche dei problemi di oggi" è una dichiarazione d'intenti mai persa di vista, il filo rosso dell'intero volumetto, il passato del nostro presente, la ricerca delle ragioni di un sottosviluppo che affonda le sue radici nei secoli: ci sono voluti una competenza eclettica e una forte tensione civile per trovare le risposte, evitando le trappole disseminate dagli stereotipi sulla storia isolana. Per quanto strano possa sembrare, la Sicilia moderna è meno conosciuta dell'isola greca, romana, araba, o normanna. Man mano che ci si avvicina ai nostri giorni, si rafforza l'interpretazione ideologica di una storia osservata con gli occhiali deformanti forniti da quel miscuglio di vittimismo-permalosità-frustrazione, ma anche arroganza, comunemente etichettato come "sicilianismo". Dove, facilmente, tutti quelli che non difendono a oltranza le "glorie" isolane vengono relegati fra i nemici. Amelia Crisantino ha il merito di mostrare con chiarezza quanta malafede alberghi nel sicilianismo, in quello passato e nelle sue più recenti interpretazioni. Una serie di quadri storici consentono al lettore di esplorare panorami molto poco praticati dalla divulgazione: leggiamo di come la Sicilia-frontiera diventi ostaggio della guerriglia nel Mediterraneo, trasformandosi in un luogo remoto che i gesuiti chiamano "le nostre Indie", e di come i viaggiatori riscoprano l'isola quando alla fine del '700 esplode la moda della Grecia classica. Il metro con cui l'Europa colta valuta la Sicilia è quello della decadenza rispetto a un passato glorioso, ma nell'isola sta nel frattempo maturando un risentito rifiuto: invece di lavorare per mettersi al passo con l'Europa, si cominciano a inseguire le glorie passate, si respinge la modernizzazione dall'alto ma non ci si prepara a compierla in proprio. E' la storia dolorosa di una Sicilia che ancora oggi ha bisogno di diradare le nebbie alzate da un autonomismo che sempre coincide con la salvaguardia dello status quo. Questo libro rivendica una tradizione diversa, ne ritrova i protagonisti troppo spesso dimenticati. E così riesce a compiere quell'operazione che si chiede a ogni libro di storia: dare senso e complessità a un presente che sempre rischia di appiattirsi sulla cronaca.





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LA CULTURA DELLA CONCA D'ORO

Nel 1953 nel territorio suburbano di Palermo viene scoperto uno dei più importanti santuari della preistoria europea e mediterranea. Siamo nelle grotte dell'Addaura, dove in età paleolitica un ignoto artista-stregone ha creato un graffito narrativo che rievoca un rito: alcuni giovani sono in piedi, hanno la testa ricoperta da una maschera a becco d'uccello e danzano attorno a due uomini sdraiati per terra. Il ruolo più importante sembrano averlo i personaggi distesi col corpo inarcato, le gambe flesse: sono incaprettati, forse sono acrobati o magari vittime di un sacrificio. Altre importanti incisioni vengono ritrovate sul pendio orientale dello stesso monte pellegrino, nella grotta Niscemi. Nella vallata si scoprono tombe collettive e corredi funerari con caratteri simili, viene avanzata un'ipotesi sull'organizzazione del territori: immaginiamo una rete a maglie fitte, ogni nodo è uno dei piccoli villaggi di capanne che occupano il circondario della futura Palermo. Il Pellegrino è una fortezza naturale, assieme al monte Gallo sembra sbarrare la strada a ogni arrivo dal mare: in quell'epoca lontana le due montagne erano come sentinelle, munite con posti di guardia per sorvegliare le coste sino alla rocca di Cefalù a oriente e capo Gallo a occidente. Proteggevano villaggi sorti in posti ricchi d'acqua, con un fertile entroterra alla spalle, tanto versatili da operare un attento sfruttamento delle risorse ambientali. Il modello insediativo è chiamato cultura della Conca d'Oro da Jole Bovio Marconi, e sembra somigliare a una mitica età dell'oro: una lunga epoca di pace e benessere che si estingue alla fine del terzio millennio a. C., quando i villaggi diventano meno compatti e, per progressivo degrado o violenta sopraffazione dall'esterno, tutta l'area conosce un lento declino.
...

2.4. LA CIVILTA' DELLO SPETTACOLO. GLI ALBORI  
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Il culto della bellezza era la natura stessa a suggerirlo, con la varietà dei paesaggi che si prestavano a fare da scenario. In età greca l'isola inseriva templi e teatri nel grande palcoscenico del Mediterraneo, in un'alternanza di micro e macrocosmo che per i teatri utilizza riferimenti cosmologici come la stella zodiacale a dodici punte. Anche le città possono presentarsi come apparati scenici: i galleggianti dispositivi urbani di Siracusa diventano un fondale, le macchine da guerra di Archimede hanno un impatto bellico ma anche teatrale.
A distanza di secoli gli Arabi sono dominatori che esaltano l'incanto dell'isola, in nome di una bellezza capace di avvicinarli alla perfezione divina. Trasformano le campagne in impianti scenici fatti di terra, piante e fiumi, spazi coltivati a cui sovrintendono esperti paesaggisti chiamati dal Nord Africa. Gli architetti utilizzano la pietra, l'acqua e la vegetazione per creare geometrie destinate a elevare la mente: le due figure predilette, il cubo e la sfera, simbolicamente rimandano alla terra e alla volta celeste.
I Normanni hanno esigenze diverse. Sono un popolo giovane, le manifestazioni spettacolari risentono del bisogno di mostrare la legittima potenza della dinastia. Mantengono molti usi arabi ma riprendono il cerimoniale della corte bizantina, i loro riti sono edificanti e didascalici. La riconsacrazione della Cattedrale di Palermo avviene in un tripudio fastoso, sottolineato dai cronisti che scrivono come i cavalli siano decorati con gualdrappe ricamate d'oro e d'argento, e di quanto siano preziosi i finimenti. L'obiettivo esplicito è di suscitare sentimenti di meraviglia, persuasione, venerazione, gli avvenimenti più importanti con cavalcate e luminarie, che ogni volta meravigliano gli ospiti e per cui Palermo diventerà famosa.
Per l'arrivo di Giovanna, figlia del re d'Inghilterra e futura sposa di Guglielmo II, lo spettacolo è notturno: la sposa è attesa da un corteo preceduto dai musicisti mentre - narra Ruggero di Hoveden nella sua Chronica - le luci erano tante che la città sembrava andare in fiamme ed ecclissarsi al confronto il raggio delle stelle nel cielo. Sono spettacoli che alimentano il mito di una Sicilia favolosa, tanto carica di esotismo da non temere di gareggiare con l'Oriente.
Per la morte dello stesso Guglielmo II, nel 1189, i cronisti raccontano come il pubblico lutto venga accuratamente programmato e diventi anch'esso spettacolo: scarmigliate e coperte di sacchi penitenziali le donne girano in processione per la città, precedute da uno stuolo di fanciulle che al ritmo martellante dei timpani riempiono le vie di tristi cantilene. Siamo lontani dallo spettacolo come passiva fruizione di una festa confezionata altrove: a Palermo, è un potere assoluto la cui sommità si avvicina al Cielo a mostrare la propria forza attraverso la ritualità delle feste.
Nell'isola, dalle monete ai palazzi la mescolanza delle culture produce un autonomo stile di vita. I Normanni ereditano dagli Arabi due paesaggi, destinati a essere tramandati nei secoli come il volto paesaggistico della Sicilia: nell'interno le aride colline destinate al grano, nelle pianure costiere un'agricoltura irrigua e fondi molto frazionati. Vi aggiungono parchi ornamentali ispirati all'ideale del paradiso islamico, e adottano il culto della bellezza come segno del potere anche nella costruzione di quei luoghi di delizie che sono i palazzi reali. Il cronista Romualdo Salernitano è il primo a scrivere del più celebrato, la Zisa, come di un palazzo alto e costruito con arte meravigliosa da Guglielmo I.
Nelle pagine di una altro cronista, Ugo Falcando, Guglielmo è immerso in un voluttuoso ozio quando gli sorride l'idea di arricchire il patrimonio architettonico di una città da tutti amata, dai conquistatori normanni che ne sono ammaliati e dai vinti saraceni che la piangono come la più amara delle perdite. Il re decide di far costruire un palazzo che superi ogni altra opera, e subito il locale melting pot comincia i lavori: architetti e costruttori musulmani, indigeni e nord-africani in meno di due anni realizzano un capolavoro pensato per meravigliare. Il palazzo è circondato da giardini costellati di specchi d'acqua e attraversati da canali, "torri del vento" creano un effetto refrigerante nelle sale decorate; il giardino-paradiso è riprodotto nella sala della fontana, dove l'acqua scorre sino a congiungersi con le acque esterne: la Zisa è un luogo dal forte valore evocativo, una suggestiva rappresentazione dell'eden promesso ai fedeli islamici dove le componenti estetiche, sommate a quelle religiose, conducono all'elevazione mistica.
Nella dinastia regnante la fascinazione per la spiritualità esoterica convive con il gusto del potere, ma il regno normanno è già in crisi. I rinnovati progetti di espansione mediterranea di Guglielmo II - che attacca l'Egitto e le musulmane Baleari e poi, alla guida di una flotta di duecento navi, riesce a strappare Tessalonica ai bizantini - hanno il fiato corto: la Sicilia non regge una competizione economica che trova i suoi protagonisti nei mercanti delle repubbliche marinare, l'isola ha un ruolo coloniale. E rischia di fare la stessa fine degli Stati crociati in Terrasanta, presto divisi tra le colonie mercantili italiane e i cadetti della nobiltà europea alla ricerca di terre.
Guglielmo ottiene l'appoggio dell'impero romano-germanico, in un'alleanza suggellata dal matrimonio fra Costanza d'Altavilla - figlia di Ruggero II - ed Enrico, figlio dell'imperatore Federico Barbarossa. L'unione è un riconoscimento della legittimità della dinastia normanna, sino ad allora contestata dalla corona germanica, e sulla carta realizza la temuta unione fra il Meridione d'italia e l'Impero. Preoccupazioni che forse sembrano eccessive: Guglielmo non ha figli ma è ancora giovane, pare improbabile che alla sua morte il trono possa passare a Costanza ed Enrico.
Ma nel 1189 il re muore senza eredi, lasciando grandi nostalgie per il suo regno subito rimpianto come una mitica età dell'oro. La nuova monarchia in cui la Sicilia si ritrova inglobata schiaccia i possedimenti della Chiesa, suscitando molte preoccupazioni nel papa e nelle città lombarde. Ma anche nei baroni di Sicilia.

AMELIA CRISANTINO







A M E L I A  CRISANTINO

"QUALE FILOSOFIA PER IL REGNO DI SICILIA? 
FRANCESCO TESTA, LA SCUOLA DI MONREALE E ISIDORO BIANCHI"


tratto da MEDITERRANEA Ricerche Storiche- Anno IX - Agosto 2012 n. 25 - Saggi e Ricerche





Alla fine del 1770 giungeva a Palermo il cremonese Isidoro Bianchi, fervido studioso e intraprendente giornalista, chiamato a insegnare logica e metafisica nel seminario di Monreale. Rapidamente si era inserito nei dibattiti e nelle discussioni che si andavano svolgendo attorno a Serafino Filangieri, arcivescovo di Palermo, a Francesco Testa, arcivescovo di Monreale, al vicerè Fogliani, ai benedettini e ai letterati raccolti nell'accademia degli Ereini: così, nell'ormai lontano 1968, Franco Venturi si accingeva a sottolineare l'importanza del soggiorno siciliano di Isidoro Bianchi, accomunandolo ai suoi interlocutori nella battaglia condotta con grande energia e abilità; contro libertinaggio e miscredenza d'ispirazione francese, ma anche contro la tradizione scolastica, contro l'ignoranza e la superstizione.
Isidoro Bianchi entra di diritto a far parte di un'esigua e valorosa pattuglia di intellettuali-riformisti che appare compatta, ma vedremo come al suo interno sia attraversata da rivalità e opposti convincimenti politico-ideologici. Sulla scorta degli studi di Venturi e di Giuseppe Giarrizzo, in questo saggio proverò ad esaminare il soggiorno monrealese di Isidoro Bianchi e la rete dei rapporti che si annodano e per molti versi s'ingarbugliano attorno alle sue iniziative. Sarà utile tenere presenti alcuni dati sulla città e il suo seminario, per chiarire quali sono le condizioni ambientali in cui Bianchi si inserisce. Allo stesso modo la figura dell'arcivescovo Testa (1704-1773) appare emblematica della variegata complessità del quadro di riferimento, da elaborare tenendo nel debito conto come nei primi decenni del XVIII secolo la Sicilia veda sfilare in rapida successione i rappresentanti di diverse case regnanti europee, ed entrare in crisi i vecchi codici culturali spagnoli. 




1- Un modello per il Regno

All'inizio del Settecento un'importante pubblicazione aveva ricordato i molti privilegi della città di Monreale, che tuttavia sembrava essere approdata a un presente molto più dimesso: nella prima metà del secolo alle numerose calamità naturali - invasione di locuste, carestie e terremoti - si somma il disinteresse di arcivescovi che spesso non risiedono nella diocesi. Vengono comunque edificate diverse nuove chiese e istituti religiosi, e per iniziativa dell'arciprete Greco Carlino - col sostegno del Senato di Palermo e della Compagnia dei Bianchi -nel 1724 inizia la costruzione del Collegio di Maria e dell'attigua chiesa della SS. Trinità.
Nel 1741 il regio visitatore Giovanni Angelo de Ciocchis registra ogni particolare sui 72 feudi della Mensa arcivescovile, stimando che gli abitanti ammontino a 8.971 anime compresi diaconi, frati e sacerdoti secolari.
Monreale è la più ricca delle diocesi siciliane, nel 1768 l'economista Arnolfini valuta che la rendita dell'arcivescovo ammonti a 70 mila ducati, de quali netti gli rimarranno 40 mila: è una piccola città feudo del vescovo, una città-convento tutta organizzata attorno alle ventidue chiese, ai monasteri, ai conservatori delle vergini, alle congregazioni. Quella che sarebbe stata ricordata come l'epoca d'oro inizia nel maggio 1754 con l'insediamento di Francesco Testa, arcivescovo che cumula nella sua persona anche le cariche di Sommo Inquisitore del Regno, abate della locale congregazione benedettina e, grazie allo status feudale, signore temporale. Testa riconfigura il nucleo urbano rinnovando edilizia e viabilità, realizza una condotta lunga diciotto chilometri per la distribuzione delle acque irrigue e una rete di canali per l'approvvigionamento idrico della zona alta dell'abitato; si risolve in tal modo un secolare bisogno e, sommando particolari tecnici e considerazioni morali, i documenti ribadiscono come attraverso le acque sia arrivato anche un positivo cambiamento dei costumi: ottimamente provvide all'onestà delle donzelle, che ne' luoghi inferiori andavano ad attingerle, e in ore improprie erano necessitate a fare molta via dovendosi portare sino al basso della città. La più impegnativa fra le iniziative urbanistiche dell'arcivescovo coincide con la realizzazione di una strada-monumento ammirata dai viaggiatori, che l'economista Vincenzo Emanuele Sergio portava ad esempio a chi, nella Deputazione del regno, auspicava una politica "siciliana". Il 5 luglio 1772, rivolto all'Accademia degli Ereini, il Sergio magnifica la strada trovando un paragone solo nell'acquedotto casertano di Vanvitelli: l'augusto re Carlo...fece delle imprese che sembravano difficilissime. Uno dei monti a forza di archi per trasportare l'acqua nella real villa di Caserta e ne farà uno per dare il passaggio all'acquedotto. Il nostro mons. Testa, arcivescovo di Monreale, cambiò di sito la grande strada che conduce a quella città sopra un monte alpestre. Tutto ciò si può. Basta che si voglia.>.
Anche per l'organizzazione degli studi Monreale e il suo arcivescovo-signore aspirano a essere un modello. Francesco Testa impersona l'ideologia nazionale di una Sicilia feudale che intende realizzare una versione "autonoma" della modernità, è punto di riferimento per una generazione di nobili vescovi-riformatori che nel giro di pochi anni vediamo al governo nelle diocesi più importanti. A ridosso del suo insediamento avvengono le nomine di Andrea Lucchesi Palli ad Agrigento (nel 1755), di di Gioacchino Castelli a Cefalù (1755), di Giuseppe Antonio Requesens a Siracusa (1755) e di Salvatore Ventimiglia a Catania (1757). Siamo di fronte a quello che Giuseppe Giarrizzo definisce il controllo magnatizio sull'episcopato isolano: attravesro l'opera dei vescovi il baronato propone una propria cultura di governo che, nel caso di Testa, appare esplicitamente ancorata alla difesa dei diritti della "Nazione". Giudicato dal "quasi" contemporaneo Domenico Scinà il seminario di Monreale è scuola non solo della diocesi ma dell'intera Sicilia, dove l'arcivescovo ha chiamato a insegnare abilissimi professori in tutte le scienze.
Siamo di fronte a un quadro tutto sommato coerente: nella maniera un pò sghemba propria degli anni in cui può essere coerente che l'illuminista e massone Isidore Bianchi vada a insegnare logica e metafisica in un seminario siciliano, quasi a dare man forte a un prestigioso arcivescovo che è anche Sommo Inquisitore del Regno. A Monreale l'avversario del fronte riformatore sara Vincenzo Miceli, anch'egli docente nel Seminario, tanto opposto a ogni concessione all'empirismo e tanto assorbito nella contemplazione dell'essere da farsi accusare addirittura di spinozismo. Poichè l'arcivescovo risulta essere il patrono sia di Isidoro Bianchi sia del suo avversario, per provare a dirimere l'intricata matassa delle affinità sottese alle azioni bisognerà tornare indietro: sino agli anni della formazione di Francesco Testa, protagonista dalle molte sfaccettature e dalle appartenenze non sempre lineari.




2. Erede di Mongitore

Discendente di un'antica famiglia della nobiltà pisana giunta in Sicilia a metà Quattrocento, dopo la prima educazione nella natia Nicosia Francesco Testa prosegue gli studi a Palermo: in quanto primogenito è destinato alla carriere del foro, il fratello minore Alessandro dovrà abbracciare la carriera ecclesiastica. individuare i maestri per i due giovani comporta delle scelte di campo. nella capitale gli equilibri appaiono politicamente incerti, l'Apostolica Legazia fa sì che il variare delle dominazioni abbia un'immediata rispondenza nella politica ecclesiastica. Gesuiti, benedettini e teatini, i tre ordini più importanti, arretrano o guadagnano terreno in stretta dipendenza dal variare delle dominazioni; le nomine vescovili vengono fatte da sovrani rapidamente sostituiti da altri monarchi, il risultato è una Chiesa frastornata e depressa.
Nella transizione dal dominio spagnolo a quello di Carlo VI d'Asburgo, a Palermo diventano visibili alcuni episodi-sintomo, da ricondurre a quei piccoli nuclei di riformisti che minacciano il monopolio culturale dei gesuiti: si fondono Accademie che testimoniano una nuova volontà di partecipazione, si riflette sulla necessità di rendere competitivi i giovani aristocratici. La nobiltà riformista, che si presenta come una classe sociale in ascesa, chiede maggiore rigore negli studi e l'abbandono della casistica come metro di giudizio. I Teatini appaiono decisi a rispondere ai nuovi bisogni, aprono scuole dove la filosofia scolastica è ripudiata in nome di un moderno cartesianesimo, insegnano nuove discipline. A loro favore si schierano quelle nobili famiglie alla ricerca di un'educazione che non privilegi il campo teologico-dottrinale, e ai Teatini viene affidata l'educazione dei due ragazzi arrivati da Nicosia: Alessandro viene accolto nel seminario di Messina; Francesco studia legge a Palermo presso la scuola di Agostino Pantò, dove presto avrebbe sostenuto pubbliche dissertazioni con molta sua gloria e profitto degli uditori.
Francesco è quindi a Palermo nel 1718, quando tre rappresentanti della prima generazione educata dai teatini-Giovan Battista Caruso, Giacomo Longo e Girolamo Settimo marchese di Giarratana-fondano l'accademia del Buon Gusto con sede nel palazzo di Pietro Filangeri principe di Santa Flavia, che già nel nome chiarisce le sue appartenenze richiamandosi a Ludovico Antonio Muratori.
Nel 1719 è Agostino Pantò, con la protezione del principe di Santa Flavia, che già nel nome chiarisce le sue appartenenze richiamandosi a Ludovico Antonio Muratori. Nel 1719 è Agostino Pantò, con la protezione del principe d'aragona Baldassare Naselli, a fondare l'accademia Giustinianea, che ha carattere giuridico e in seguito si sarebbe trasferita presso la sede Teatina. Sempre nel 1719 il gesuita Antonio Mongitore risponde con la fondazione dell'accademia dei Geniali, che nel 1730 sarebbe confluita negli Ereini e ospitata nel palazzo di Federico Napoli principe di Resuttano, il cui obiettivo di rivendicare le glorie locali sembra il risultato di un atteggiamento difensivo. nel 1728 un'altra spia del difficoltoso rinnovamento culturale cittadino è la contemporanea fondazione di due collegi dei nobili, con teatini e Gesuiti in aperta contrapposizione e il collegio teatino che esibisce una maggiore severità già nei requisiti di accesso.
Col succedersi delle dinastie diventa evidente come i valori di riferimento di una Sicilia tradizionalmente molto compiaciuta siano ormai inadeguati. La resistenza alle riforme promosse dall'imperatore Carlo VI spinge a prove di forza che diventano perdenti: se ne ha prova nel 1724, quando il contenzioso fra un'Inquisizione rimasta sostanzialmente spagnola e i nuovi governanti si conclude con il rogo di due "eretici", processati nel lontano 1699 e rimasti nelle carceri del Sant'Uffizio per i successivi venticinque anni. L'erudito canonico Mongitore stila un resoconto al solito dettagliato delle tragiche pompe festive che coinvolgono tutta la città, pubblicandolo con tanto di dedica a Carlo VI imperadore e III di Sicilia.
Ma una volta arrivato a Vienna il libro provoca una sgomenta presa di distanze, Pietro Giannone ne scrive al fratello: s'è gravemente ripreso che n'abbiano qui fatto venire esemplari che scandalizzano il Mondo...noi ne sappiamo cacciar tra tanti lutti anche il riso perchè ci serve per mettere in burla i siciliani [i ministri a Vienna]li quali veramente ne stanno confusi e pieni di vergogna. I siciliani a Vienna messi in ridicolo per uno sfarzioso rituale penitenziale che, lontano da Palermo, si trasforma in orrorosa tragedia ed esecrabile abbrugiamento, sono il sintomo del <diverso sentire> che ormai allontana quanto avviene in Sicilia dalla sensibilità degli spiriti colti.
Su questo sfondo, politicamente incerto e culturalmente assediato da quanto va rapidamente maturando sulla scena europea, avviene la formazione di Francesco Testa. Quand'era ragazzo la su a famiglia ha compiuto delle scelte in linea con le posizionio della nobiltà riformista; è quindi coerente che, nel solco di un modello culturale praticato dai rampolli dell'aristocrazia europea, una volta finiti gli studi il futuro arcivescovo compia alcuni viaggi.
Tornato in patria, il giovane Testa sceglie di prendere gli ordini ecclesiastici al posto del fratello Alessandro e ricomincia a studiare. Assieme a Francesco Perlongo e Giovanni Di Giovanni è fra quei giovani che l'archimandrita di Messina Silvio Valenti Gonzaga raddrizzò col suo sapere...li condusse di primo tratto ad apprendere la lingua greca, fonte purissimo di scienza...indicò loro libri utili, e li guidò allo studio delle cose certe e positive. Considerate le scelte familiari e l'educazione ricevuta, pare del tutto ovvio che il futuro arcivescovo di Monreale si schieri con le posizioni del più avanzato "fronte riformatore"; ma così non avviene. Nel 1735 Testa scrive una Istorica narrazione delle feste tenute per l'incoronazione di Carlo III Borbone, che gli ottiene la nomina di canonico della cattedrale di palermo; quando si tratta di entrare a far parte di una delle Accademie cittadine lo ritroviamo fra gli Ereini: probabilmente viene accolto nel 17235, ne diventa corifeo col nome di Lamindo Grineo nel 1740.
Nel 1737, col patrocinio dell'Accademia del Buon Gusto, vien pubblicata postuma la seconda parte delle Memorie istoriche di Giambattista Caruso: all'alta sintesi di storia civile la Deputazione del Regno reagisce con un'intenzione politica proterva, commissionando la raccolta dei "capitoli". Ad ordinare le decisioni del parlamento siciliano che avevano assunto forza di legge è il canonico Francesco Testa, che nel 1741 cura la pubblicazione in due volumi dei Capitula Regni Siciliae quae ad hodiernum diem lata sunt. la motivazione ideologica è  chiarita nell'allegata dissertazione De ortu et progressus juris Siculi che, proclamando la particolare evoluzione del diritto siculo e la sua autonomia "nazionale" sorregge il "sovversivismo baronale": la materia feudale è presentata come quella "maxima et nobilissima illa jurus pars" che, a partire dai normanni, aveva conosciuto un'evoluzione rispetto al diritto franco e anche a quello napoletano. I diritti feudali sono il nucleo originario e fondante della "nazione siciliana": il canonico Testa appoggia la tesi del "commilitonismo" del gesuita Mongitore e del giurista Carlo di napoli, concordemente sostengono che in Sicilia il feudo e la monarchia sono nati con la conquista normanna. I baroni erano stati "commilitoni" del re, al di là delle periodizzazioni dinastiche, la civiltà isolana si è mantenuta fedele alle sue radici. I diritti feudali sono eterni, inalienabili: il punto centrale del conflitto è sulla natura dei beni feudali e i loro "diritti di sovranità", che non cedono dinanzi ai diritti del sovrano e anzi li sopravanzano inibendo ogni progetto riformatore. Il canonico Testa ha riconfigurato la propria posizione in senso conservatore alla raccolta dei Capitula si aggiungono altri significativi episodi. Nello stesso 1741, in nome di una "regolata devozione" si apre un'aspra polemica fra Ludovico Antonio Muratori e i difensori del <voto sanguinario>; testa si colloca fra i seguaci del canonico Mongitore che ne è il più acceso fautore, nel suo ruolo di canonico-censore approva l'opera del francescano Ignazio Como scritta contro le tesi del Muratori. Nello stesso 1741 Giovanni Di Giovanni - anch'egli canonico della cattedrale, allievo dell'archimandrita Valenti Gonzaga e autore nel 1736 del De Divinis Siculorum officis - accoglie l'incarico dell'arcivescovo di palermo e lavora al progetto del Codex diplomnaticus Siciliae, dove raccoglie distinguendoli in tre classi (geni, dubbi e supposti) tutti i monumenti che riguardano la Sicilia cominciando dall'era volgare sino 'a suoi tempi...tutte le carte pubbliche in somma, che servir potevano ad illustrare l'epoche varie della nostra storia.
Lo studio del Di Giovanni affronta l'idea assai diffusa che la fondazione della Chiesa palermitana sia di origine apostolica, dovuta a S. Pietro: convinzione che esalta l'autonomia disciplinare e giuridica della Chiesa siciliana, libera dal diritto pontificio dell'investitura. In realtà il dilemma di fondo coincide con una questione epistemologica che attraversa molte indagini erudite: poichè il metodo storico applicato alle glorie isolane rischia di mostrarne la fragilità, bisogna arrendersi alla <guerra mossa con le armi della scienza>, o proteggere le glorie e l'onore della patria?
Palermo appare divisa fra i molti che difendono la tradizione e i pochi che l'osservano con spirito critico.
Intanto, le conclusioni a cui il Di Giovanni perviene con l'aiuto della filologia apostolica della Chiesa palermitana. Nel 1743 il primo dei previsti cinque volumi è pronto per la stampa: Francesco Testa è uno dei due canonici censori, lo lascia passare nonostante sia ormai su posizioni distanti da quelle del Di Giovanni. ma l'altro censore si preoccupa di mostrare il volume a Mongitore e, scrive Scinà, ecco venirgli incontro la persecuzione. L'anziano canonico gesuita ne prese sdegno e rancore, perchè cose ne riscontrò ch'erano ingiuriose, a suo immaginare, alla chiesa palermitana e alla gloria di Sicilia: sebbene malandato si reca in Senato, presenta uno scritto contro Di Giovanni e poco dopo muore di apoplessia. Subito si sparge la voce ch'è morto di dolore, Di Giovanni non esce di casa perchè esposto non fosse alle pubbliche villanie>; l'arcivescovo o il vicerè non osano difenderlo, furono di nascosto, e non senza accorgimento, inviate alcune copie del libro in Napoli, in Roma e in Firenze... e si cominciò ovunque a celebrare l'opera.
La rivista fiorentina Novelle letterarie, diretta da Giovanni Lami, apre una campagna di stampa schierandosi contro la mentalità antiscientifica preponderante a Palermo, il Di Giovanni raccoglie molti consensi intorno alla sua opera. Non si hanno notizie sulle reazioni del canonico Testa, ma l'orazione funebre per Mongitore viene recitata da un contrito Francesco Testa alla presenza del senato palermitano. E' un momento critico, Testa passa in rassegna le molte doti dell'estinto e pubblicamente prende le distanze dal suo antico compagno di studi: ripudia quel metodo scientifico che assieme avevano appreso alla scuola dell'archimandrita Valenti Gonzaga - il quale appoggia la pubblicazione del Di Giovanni - e, riferendosi a Mongitore, dice: da canonico difese egli con vigore e dottrina essere la medesima [chiesa palermitana] di fondazione apostolica, contro chi sconsigliatamente le contendesse un sì incontrastabile segnalatissimo pregio. La scelta è compiuta. Francesco Testa è il simbolo erede di Mongitore, a lui si associa il fratello che in politica sostiene le ragioni dei più "intransigenti" fra i baroni.
Nalla testimonianza del biografo Sinesio, fra quanti cercano la compagnia del canonico Testa si distingue il potente Baldassare Naselli e Branciforti principe di Aragona (1698-1753): Pretore di Palermo nel 1737, Presidente della Giunta di Sicilia a Napoli nel 1748. A lui Testa deve l'incarico - nel 1744 - di promotore fiscale della Suprema Inquisizione nel Regno, nomina che lo promuove fra i personaggi più in vista della Chiesa palermitana: ha da poco pubblicato le Meditazioni per gli esercizi spirituali del clero, dove argomenta su dignità e obblighi dello stato ecclesiastico senza dimenticare l'importanza di una buona formazione culturale; è inoltre Deputato di pubblica sanità, si ispira al trattato di Muratori Del governo della peste per scrivere un Relazione istorica sulla peste messinese del 1743, ricordata dallo stesso Muratori negli Annali d'Italia. Per questo scritto Francesco Testa sarebbe stato definito "muratoriano", anche se viene il sospetto che queste ideali appartenenze siano il risultato di circostanti contingenze.
Nel frattempo a Palermo sembrano tramontare i propositi  "eroici" della monarchia. Nel 1746 è accolta la richiesta del parlamento siciliano, che offre un donativo straordinario di 400 mila scudi in cambio dell'abolizione dell'ufficio del Magistrato di Commercio istituito nel 1739. Svanisce così il programma mercantilista che avrebbe consentito di riformare dall'interno l'ordinamento giudiziario, esautorando di fatto gli antichi tribunali e la stessa giurisdizione feudale.




3. La Scuola di Monreale

Dal 6 maggio 1748 all'aprile 1754 Francesco Testa mantiene la carica di vescovo di Siracusa, perseguendo iniziative che possono considerarsi un preludio alla sua politica monrealese: nel 1749 fonda l'Accademia Sacra e nel 1750 quella degli Anapei, istituisce il Convitto dei nobili, amplia il Seminario. La differenza è nel minore prestigio della sede di Siracusa rispetto a Monreale e nella relativa povertà di quella sede vescovile; ma il raccoglitore dei Capitula già lavora a un "riformismo teocratico" che si presenti come cultura "nazionale" della Sicilia feudale, e, anche a Siracusa agli interventi sul territorio corrisponde una riorganizzazione degli studi. Non appena insediato a Monreale, Testa introduce nuove materie; nel 1756 oltre ai cinque tradizionali insegnamenti che si tenevano presso la scuola gesuitica - teologia scolastica, teologia morale, filosofia, umanità e grammatica - troviamo anche cattedre di retorica, greco, geometria, diritto naturale, civile e canonico, le cui lezioni vengono tenute nel palazzo arcivescovile in attesa di definire nuovi ambienti resi necessari dall'accorrere degli allievi. Testa segue la lezione di Valenti Gonzaga nel creare la cattedra di greco e la moda circa la vaghezza delle cose matematiche per quella di geometria; è parte dello spettacolo novello dei vescovi alla ricerca dei matematici, da Palermo porta a Monreale Saverio Romano per assodare e pulire l'istituzione letteraria di quel clero. Il Seminario punta a innalzare il livello degli studi chiamando docenti di prestigio. L'abate Secondo Sinesio, segretario e poi biografo dell'arcivescovo, era torinese ed era stato chiamato per insegnare teologia morale; da Palermo, dove nella sua casa teneva lezioni di filosofia e diritto civile, era arrivato Vincenzo Fleres: avrebbe insegnato diritto ma era conosciuto come divulgatore del filosofo Christian Wolff, quindi sospettato di colpevoli cedimenti alla filosofia moderna: Il latinista Murena era savoiardo, Testa l'aveva conosciuto a Palermo e portato con sè a Siracusa e poi a Monreale, e bastò quegli solo a fondare una scuola purissima. Il seminario la scuola divenne non che della sua diocesi, ma di tutta la Sicilia, il luogo dove si elabora un modello di virtù religiosa da contrapporre al laicismo del secolo. La ricostruzione di Scinà è l'inevitabile punto di riferimento per i giudizi successivi, Giuseppe Giarrizzo avrebbe inserito Testa nella seconda generazione degli "eruditi del buongusto" e sintetizzato:

il ripudio della scolastica, l'interesse per la sana eloquenza, lo studio della liturgia e della teologia morale, il vasto impianto umanistico, un'ars critica di spiriti cartesiani: son tutti caratteri della personalità intellettuale di Testa, e debbono fornire la misura autentica del suo impegno nell'organizzazione degli studi a Monreale. 

La severità e la selezione degli allievi sono le basi su cui si regge l'ambizioso progetto, gli esami di ammissione appaiono rigorosi. I concorrenti devono scrivere sotto dettatura una prosa italiana, da tradurre in latino e consegnare in busta chiusa. L'esame orale di latino - sostenuto - alla presenza di mons. Testa, del rettore e dei deputati agli studi - è su qualche libro di latino scelto pure da mons. arcivescovo che, di proprio carattere, fa un notamento di bene o mediocrioter, onde ognuno riesce nella spiegazione del latino. L'ambizione di forgiare il nuovo sacerdote punta a eliminare ogni influenza esterna, l'arcivescovo teme la corruzione del mondo ed esita prima di concedere i rari permessi ai giovani convittori:<non si mandavano mai gli alunni a casa, salvochè avessero bisogno dell'aria nativa perchè malati.
Comincia "il rinascimento letterario in Monreale", alla scuola del Murena crescono ottimi latinisti e all'arcivescovo brillavagli l'animo di candida gioia nel vedere i palermitani lasciar la capitale e venire a Monreale per apprendere il latino: "candida gioia" che ci riporta nella Palermo dove Teatini e Gesuiti aspramente confliggono per aprire un collegio dei nobili, e la competizione va oltre le motivazioni oggettive perchè, scrive Marcello Verga, non si notano sostanziali differenze metodologiche fra i due collegi, ed <è difficile indicare il senso delle diverse scelte operate dai nobili palermitani e delle province dell'isola nell'iscrivere i propri figli al collegio teatino o quello gesuitico.
A Monreale siamo molto lontani dal piglio deciso mostrato da Giovanni Di Giovanni che, chiamato a dirigere il palermitano seminario dei chierici, ritira i seminaristi dalle scuole dei padri gesuiti e riforma gli studi ottenendo, grazie all'antico maestro divenuto segretario di Benedetti XIV, la facoltà di conferire la laurea in filosofia e teologia. Piuttosto, il seminario monrealese è la scuola d'eccellenza dei gesuiti, offre docenti di grido e quelle peculiarità di rigore negli studi che ormai si richiedono a una scuola per giovani nobili.
Grazie alla permanenza di Isidoro Bianchi, Monreale verrà giudicata come il centro forse più attivo col Testa dell'opposizione intellettuale alla politica culturale della Compagnia: ma ad essere cambiata è proprio la Compagnia. Non siamo più di fronte ai gesuiti combattuti dai primi oppositori filo-teatini, sono mutati gli equilibri e anche i protagonisti. dopo tanto battagliare le scuole dei gesuiti hanno finito per arrendersi all'invasione della filosofia moderna. Nel 1754 il padre Vespasiano Maria Trigona, forte della sua autorità di provinciale dell'Ordine e dell'appoggio del padre generale Ignazio Visconte, impone alle scuole siciliane un nuovo "ordo studiorum" che abbandona la filosofia scolastica per un programma di assoluto eclettismo, col quale si dice di riunire il meglio della filosofia antica e della moderna. Monreale, dove si amavano i padri platonici e si frugavano i libri degli scolastici per trovare, come diceasi, l'oro nel fango, appare perfettamente in linea con le nuove direttive.
Nel seminario monrealese l'insegnamento della filosofia riflette il tergiversare di chi cerca una mediazione; troviamo Saverio Romano e Vincenzo Fleres, allievi del precursore Nicolò Cento il quale, con l'autorità che gli concedeva il suo sapere geometrico, aveva per primo e non senza coraggio divulgato a Palermo le dottrine di Leibniz, che andavano a sostituire  l'interesse per Cartesio. La nuova filosofia aveva il pregio di far conoscere in maniera elegante il regno fisico della natura e quello morale della grazia, regolando il primo con le leggi delle cause finali a cui obbediscono i corpi, e il secondo con le leggi delle cause finali a cui obbediscono le anime. Erano due sistemi autonomi ma entrambi governati da Dio, considerato come Architetto della macchina dell'universo e come monarca della città divina degli spiriti. La filosofia leibniziana, armonizzava una teologia razionale della natura con una teologia morale della grazia: ma dava luogo ad aspre polemiche, che forse derivavano dal fallimento del tentativo di riforma moderata che s'era richiamata al buon gusto del Muratori. Si aggiungevano poi le tensioni derivanti dalle appartenenze massoniche, formalmente proibite col regio editto del 10 luglio 1751 ma che sembravano continuare ad operare in forma appena celata. la massoneria siciliana diventa visibile nel 1756, quando un giovane ardito Tommaso marchese Natale da Palermo, ammaestrato dal Cento, osò mandar fuori in versi toscani la Filosofia leibniziana, la cui vicenda fa da trama ad alcune fra le più godibili pagine di Scinà. Il poema divulgava Leibniz in una cornice ricca di simbolismo massonico, era una via tanto più pericolosa, quanto più facile ed amena: per questo impauriva i gesuiti - nel poema sono quell'insana turba/sol di tenebre amica che il mondo annebbia di fantasmi e fole - che chiamarono in aiuto il tribunale dell'Inquisizione accusando l'autore e il suo poema di deridere le cose sante. Furono accontentati, il 27 febbraio 1758 un editto del Sant'Uffizio proibiva la diffusione e il possesso del libro, lo stampatore Valenza e altri della sua tipografia finivano in carcere; l'autore era acremente ripreso e anche spaventato dalla vista e dalle minacce degl'inquisitori , le copie del libro già stampato erano distrutte, di sicuro bruciate.
La denuncia e la condanna dell'Inquisizione sono gesto di aperta denuncia e sfida del fronte degli antichi, il sommo inquisitore Francesco Testa emette una condanna che è contro Leibniz ma si risolve in un rifiuto della filosofia moderna. la proibizione accresce l'interesse per l'opera, la popolarità dei nuovi filosofi investe chiostri e seminari, in maniera che gli stessi gesuiti, se presto non fossero stati spenti, sarebbero divenuti anch'essi wolfiani scrive Scinà. Ne segue un rinsaldarsi del vasto fronte antigesuitico, che si permette sfide per niente camuffate: è da notare, che nel giorno medesimo in cui il Natale fu spaventato dalla vista e dalle minacce degli inquisitori, i p.p. cassinesi di San Martino difesero in Palermo, nella loro chiesa dello Spirito Santo e in una pubblica conclusione, il sistema del Leibnizio.
Nella sua Autobiografia il benedettino  salvatore Maria Di Blasi - antiquario, storico e bibliofilo in contatto tutti gli attori di questa storia, senza dubbio fra i protagonisti di quegli anni - avrebbe ricordato: <si era in quel tempo [1758] accesa in Palermo una strepitosissima insurrezione contro l'opera stampata, ma impedita di pubblicarsi con ritirarsi tutti gli esemplari e fin portarsi alla nostra santa Inquisizione del degnissimo e dotto signor marchese Tommaso Natale.
La pubblicazione e la condanna dell'opera di Tommaso Natale fanno risaltare differenze ormai inconciliabili fra il "fronte degli antichi" e gli audaci "novatori", che mostrano di non essere estranei allo spirito di Voltaire quando cominciano a usare l'arma dell'ironia per mettere in ridicolo gli avversari.
Nel 1761 Antonio Lucchesi Palli, il massone principe di Campofranco, inaugura nella sua casa una accademia di letteratura frequentata da "compagni della galante conversazione": la definizione richiama i contemporanei libertini europei, e in una società di intolleranti religiosi suona come una sfida irridente. Per quell' accademia il poeta Giovanni Meli scrive una sorta di manifesto in versi, un poema intitolato La fata galanti dove, con esplicito riferimento a Tommaso Natale, il filosofo Leibniz è compagno dell'autore nel viaggio a lu Celu che si conclude con la vittoria dei "galanti" sui "pedanti".
I "compagni della galante conversazione", e in genere coloro che si riconoscono nel raggruppamento antigesuitico, estendono l'ambito delle controversie spirituali per arrivare alla politica. Praticano Leibniz coniugando il tema della grazia sufficiente, proprio della teologia giansenista, con una misurata pratica religiosa; sul terreno del diritto e della politica accolgono il moderato illuminismo delle teorie di Christian Wolff, utilizzando come raccordo tra le questioni religiose e quelle etico-giuridiche: il sistema wolfiano poteva svilupparsi verso una concezione dello Stato come monarchia assoluta e illuminata, non semplice garante delle istituzioni tradizionali ma organismo al di sopra delle singole parti, capace di promuovere il benessere e la felicità dei sudditi. Negli stessi anni in Italia e fuori d'Italia...[avviene] la fusione tra riforma giurisdizionale, tradizione giansenisteggiante e sempre più prevalente volontà di trasformazione economica e politica, insomma tra riforma religiosa e riforma illuminista.
A Palermo la battaglia per la diffusione dei nuovi orientamenti filosofici e la riforma degli studi teologici vede ora in primo piano i benedettini, nuovi potenti nemici a cui si aggiungono francescani e domenicani. La cultura siciliana, raccolta in chiostri e seminari, appare assorbita nell'impari compito di una verifica dei presupposti teoretici del conoscere e dell'agire; ma non tutti si muovono nella stessa direzione. nella scuola di Monreale sta maturando l'esempio più significativo della reazione contraria: Vincenzo Miceli, allievo di Fleres, progetta una nuova sistemazione delle scienze speculative senza mai dimenticare l'obiettivo di conciliare teologia e filosofia per meglio proteggere la religione. Miceli reagisce a quello che vive come un assedio. Se i filosofi moderni mettono in discussione i dogmi della religione e sono insofferenti alla metafisica, lui si prepara a resistere: è un filosofo cristiano, vuole conoscere le armi degli avversari e utilizzarle per respingere gli attacchi. A venticinque anni scrive la Prefazione o saggio istorico di un sistema metafisico, che sarà pubblicato postumo solo nel 1864:

io ho dunque nell'animo di riprodurre un semplice ed universale sistema di tutte le scienze non solo di quelle che alla natura si appartengono, ma di quelle altre ancora che sono nel mondo soprannaturale. Un sistema vale a dire non solo d'ontologia, cosmologia, psicologia, teologia naturale, diritto naturale, etica, politica, economica; ma eziandio di tutta la teologia rivelata, e di tutti gli oggetti materiali della fede e della legge divina, che appellano Cristiana; e questo appoggiato ad un solo principio di conoscere il vero: in cui le verità di nuova luce si aspergeranno , ed una assoluta certezza conseguiranno; di quelle cose che sono false ne apparirà chiaramente la ripugnanza, e delle grandissime difficoltà colle quali si sono finora sostenuti gli errori ed impugnate le verità, farassi vedere l'insussistenza:

Miceli deve la sua fama a questo testo introduttivo, dove promette di condurre alla cognizione della teologia rivelata e riflette sulle difficoltà sempre affrontate dai filosofi. Il monrealese indica la soluzione nella Idea del Sistema che, partendo dalla natura della cognizione dell'Essere, porti il lettore alla ragion della rivelazione, dei misteri della Chiesa cristiana e del suo ordinamento gerarchico e liturgico.
Miceli persegue l'obiettivo di creare un'ortodossia mistica, ponendosi in una posizione del tutto estranea, al secolo illuminista; la ragione rimaneva lontana dalla sua teoria, in ogni argomentazione il filosofo partiva dalla convinzione che nessuna sapienza umana può condurci sino al punto in cui ci ha condotto la divina, fornitaci dall'insegnamento cristiano, guardato nella sua integrità dalla chiesa che è detta cattolica.
Il nuovo edificio filosofico era un sistema difensivo:serviva a migliorare e correggere le altre teorie, voleva opporre dighe ideologiche per contenere le moderne filosofie pronte a invadere le scuole siciliane. Era quindi parte non piccola del compito di rifondazione religiosa della società che i vescovi si assumono in Sicilia, dove Francesco Testa - anche per il suo ruolo di Sommo Inquisitore - ricopre un ruolo centrale.
Nel 1765 Vincenzo Fleres si ritira dall'insegnamento nel seminario, l'arcivescovo ne assegna la cattedra al Miceli: Monreale è chiamata l'"Atene di Sicilia" e "cittadella della metafisica", in tanti arrivano per studiare la nuovissima filosofia. Ma le idee del sistema miceliano non furono tali da potercene interamente lodare>, scrive il canonico Millunzi incolpando i tempi tribolati se egli fu troppo tenero del Leibniz e del Wolfio. E Vincenzo Di Giovanni, che pure fu un devoto "miceliano", aggiunge che il novo sistema era allora più confidato alla mente degli scolari che a pubbliche scritture: sì che il Miceli ebbe caldissimi favoreggiatori, ma non men tenaci oppositori specialmente in Palermo. da questi dissensi derivò forse che gli scritti del Miceli restassero inediti, e se non distrutti difficili da avere per le mani: onde quel non so che di misterioso per cui da tutti si parlava del sistema miceliano, da pochi s'intendea; e chi ne era apologista sviscerato per qualche teorema sentito dimostrare, chi ne era ubbioso, se non avversario, per condanna sentita farne ai non pochi che s'ebbe nemici la scuola  che si diceva idealista o spinoziana del Miceli.
I tempi non andavano propizi al nome e alla fama di lui, sintetizza Scinà.
A Monreale gli studi prendevano forma speculativa e astratta, ma già a Palermo quelle speculazioni <non ebbero mai voga, anzi il riso o la noja moveano. Si parlava del Miceli come di uno che dava nel fanatico, e occultava sotto il mantello della religione lo spinozismo. La diffusa conflittualità fra "antichi e moderni", che nella Palermo del giovane Testa aveva visto i teatini schierati compatti contro i gesuiti, aveva cambiato volto: con la sua ortodossia mistica il sistema miceliano aveva il dubbio merito di mettere d'accordo molti avversari  e anche lo scolopio Giuseppe Guglieri, già docente a Urbino e prefetto degli studi a Monreale, professore di matematica e fisica e anche forbito latinista molto stimato dall'arcivescovo, pubblicava un compendio di filosofia universale dove sembrava che il principale obiettivo fosse l'opposizione alle dottrine miceliane.
nel 1767 l'espulsione dei gesuiti dalla Sicilia chiarisce ulteriormente simpatie e appartenenze. Monreale è direttamente coinvolta, il canonico Gaetano Millunzi avrebbe riepilogato la vicenda con parole che non davano adito ad alcun dubbio: nel dicembre 1767 i gesuiti erano barbaramente costretti a partire dai loro collegi





A M E L I A   CRISANTINO
Fiabe Siciliane
Dalla raccolta di Giuseppe Pitrè






dal quotidiano La Repubblica







IL RESTYLING DI PITRE'
LE FIABE SICILIANE
RIVEDUTE E CORRETTE
di Salvatore Ferlita

Una madre vedova ha tre figli: due femmine, che filano con lei, e un maschio. Si chiama Peppi e non ha un lavoro. Un giorno, stanco di non sapere come buscare il pane, saluta affettuosamente la madre per andarsene spesso per il mondo e cercare un lavoro. L'allontanamento da casa innesca una serie di avventure e disavventure: Peppi trova un lavoro che gli consente di sfamarsi. Ma poi non gli basta il pane messo a sua disposizione pure in abbondanza: ha bisogno di denaro e le cose cominciano ad andare per il verso giusto, ma fino a un certo punto. Si tratta di una delle più note fiabe siciliane allineata da Pitrè nella sua monumentale raccolta di novellistica popolare come scrisse più volte Italo Calvino. Una fiaba che Amelia Crisantino ha selezionato, assieme ad altre, traghettandole dal dialetto siciliano dell'Ottocento alle sponde di una lingua italiana cristallina e felicemente affabulatoria. Il risultato di questa operazione è il volume uscito in questi giorni per i tipi di Di Girolamo, "Fiabe siciliane. Dalla raccolta di Giuseppe Pitrè" (316 pagine,12 Euro), con cui l'editore trapanese sarà presente alla fiera internazionale del libro di Francoforte. Torniamo a Peppi. La fiaba inizia con la sua scelta di andare in cerca di fortuna, di perdersi per il mondo. Insomma Peppi è un picciotto che deve emigrare per affermarsi. Questa condizione di partenza, sono parole di Calvino, concide con la condizione obbligatoria del proletariato meridionale, dell'emigrante. Siamo in presenza di un racconto realistico, di realismo del Sud, che poi vira in direzione del picaresco, dell'avventuroso: per ottenere la mano della principessa. Peppe deve superare diverse prove. In soccorso gli viene un bue, che a un certo momento viene ucciso in modo sacrificale. Si tratta di un mito regressivo, si chiede Calvino, di restaurazione, oppure si tratta del mito profetico di un nuovo patto con gli elementi? Peppi infatti chiederà un favore direttamente al Sole. Da un racconto che sembrerebbe di due soldi si irradia una potenza ermeneutica spiazzante, che consente di riavvolgere il nastro della mitologia isolana, o anche di scompaginarlo. Da questa intuizione ha probabilmente preso le mosse Amelia Crisantino per dar forma a questa raccolta, provando a ridare linfa alla scrittura di Pitrè, pensando magari a un pubblico di giovani lettori, da mettere al riparo dal profluvio disneyano di principesse e principi. Ma anche gli adulti non saranno delusi, dal momento che potranno rendersi conto della varietà dell'universo novellistico, di certe sfumature politicamente poco corrette. Come quelle che riguardano l'universo femminile: basti pensare a "Caterina la sapiente", in cui le ragazze - scrive la Crisantino - distanziano l'uomo che, nel vano tentativo di sottometterle, si rifugia nel suo ruolo socialmente riconosciuto. Per non dire che la più dotata narratrice orale dalla cui viva voce Pitrè registrò i suoi testi fu Agatuzza Messia, bambinaia e probabilmente balia del medico. Colei che mi vide nascere e mi ebbe tra le braccia come egli stesso ebbe a scrivere:  Il raccontare fiabe è stato per secoli un'arte femminile, e talvolta convoglia uno spirito di rivincita delle donne verso il predomino maschile, chiosò il solito Calvino: da leggere questo proposito è "La pancia che parla". Ora che la Crisantino ha prestato la sua voce a queste storie, il cerchio si chiude. In nome, verrebbe da dire, in onore delle donne.


RITROVARE LE FIABE

Per la prima edizione delle Fiabe novelle e racconti, nel 1875, la Gazzetta di Palermo scriveva: Il dottor Pitrè ha pubblicato quattro volumi di porcherie. Molto tempo dopo, lo stesso Pitrè avrebbe ricordato quei clienti rispettabili che gli chiedevano come mai si fosse persuaso a diffondere pagine così imbarazzanti: era un medico, curava le loro figlie. Perchè si metteva a correre dietro storie di mammedraghe e principesse incantate? Nel 1875 il palermiatno Giuseppe Pitrè aveva 34 anni e con fervore si dedicava a edificare la "demopsicologia", la nuova scienza da lui stesso battezzata che aveva il compito di studiare la psicologia del popolo: come ogni psicologia che si rispetti, anche quella del popolo era da rintracciare con un paziente lavoro di scavo. Bisognava fare in fretta, prima che l'accellerato scorrere del tempo cancellasse la memoria e con essa ogni traccia di un'esistenza diversa. Giuseppe Pitrè sentiva la responsabilità storica della sua missione ed era esigente con se stesso. Come programma di vita aveva scelto una massima operosa, nulla dies sine linea: nessun giorno senza scrittura, senza avere lavorato a un tassello, del grande mosaico. Era uno studioso in tutte le sue fibre, ma per vivere faceva il medico e aveva un'incredibile capacità di lavoro che lo avrebbe sorretto per tutta la vita. Anche la carrozza che lo portava dai suoi pazienti era ingombra di fogli e taccuini d'appunti: c'era sempre un libro a cui stava lavorando, sempre incalzato dall'urgenza di registrare il patrimonio culturale del popolo prima che svanisse. La sua prima pubblicazione risaliva al 1863, quando ad appena ventun anni aveva pubblicato il Saggio d'un vocabolario di marina italiano-siciliano; nel 1870 lo troviamo segretario della "Società per gli studi del dialetto siciliano" e nel 1871 debutta la Biblioteca delle tradizioni popolari che avrebbe chiuso le sue pubblicazioni col volume numero XXV, nel 1913. I quattro libri delle fiabe che costituiscono i tomi dal IV al VII e, come tutti gli altri, danno voce a una Sicilia inedita e per qualche verso poco rassicurante, che promette di avere in serbo molte sorprese.
Pitrè inseguiva il tesoro di una sapienza antica e profonda ma, come accade quando si va alla ricerca dell'inconscio, non sempre quanto emergeva era in linea con le attese "politicamente corrette" dei suoi lettori. Nel 1875 le ricerche sulla cultura popolare avevano assunto una valenza addirittura politica perchè, nello Stato da poco compiuto, la Sicilia costituiva già un'emergenza e in tanti si interrogavano sulla sua diversità. A Palermo c'erano state prove plateali di disaffezione, come la rivolta del settembre 1866 col suo seguito di Commissioni d'inchiesta, scandali, leggi speciali per un'isola sempre riottosa. Di lì a poco sarebbero arrivati Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, a indagare le radici storico-sociali della violenza diffusa e della mafia; nel marzo del '75 Pasquale Villari aveva inviato la prima delle Lettere meridionali, sulla camorra, che nel segnare la nascita del meridionalismo tracciava un ritratto drammatico e completamente diverso dall'oleografia tradizionale sul Sud d'Italia. Quindi il folklore non era un campo neutro, le tradizioni non avevano tutte la stessa dignità. Potevano nutrire l'evolversi di una collettività povera ma ben avviata verso territori infidi, difficili da assimilare per uno Stato che voleva dirsi moderno. I folkloristi si sentivano in prima linea nel difendere l'onore della patria siciliana. Non appena Costantino Nigra, studioso di canti popolari piemontesi, constatava che il Meridione aveva prodotto solo canti lirici e che mancava di una tradizione civile, ecco che nelle vesti di abile falsario Luigi  Capuana provvedeva a ritrovarne addirittura centinaia: poi pubblicati da Lionardo Vigo nelle sue Raccolte e utilizzati per rivendicare alla Sicilia un primato civile oltre che linguistico. I contenuti della "patria siciliana" erano infatti sempre eccelsi anche se appena inventati, senz'accorgersi che così-invece di superarle-aumentavano le distanze. Del tutto diverse sono le esigenze da cui muove la ricerca di Pitrè, che si propone di registrare la voce del popolo con scrupolosa fedeltà. Lo studioso è attento a ogni aspetto, nei quattro volumi delle Fiabe sorveglia soprattutto la lingua adoperata. Pitrè intuisce che la lingua è parte essenziale del patrimonio culturale del popolo, che i nomi hanno la stessa dignità degli oggetti e sono anch'essi vivi e fragili: amorosamente affannato li fotografa in tutte le loro varianti, annota le differenze fra le parlate, s'ingolfa nei riscontri fra le diverse versioni di una stessa storia, ha come sommo desiderio il riuscire a codificare una grammatica siciliana e teme solo le oscenità, che in maniera violenta svelano l'irriducibile essere "altro" della mitizzata cultura popolare. Le Fiabe sono frutto del momento storico in cui vengono pubblicate, quando alla lingua e alle tradizioni è affidato l'impegnativo compito di favorire la lnascita delle diverse identità nazionali. Nel 1812 era stato pubblicato il primo volume della raccolta dei fratelli Grimm, la loro Prefazione iniziava con la malinconica constatazione che "forse era arrivato il momento di metterle per iscritto; coloro che devono conservarle, infatti, si fanno sempre più rari": parole da cui affiora un sentimento di precarietà comune a tutti gli studiosi di tradizioni popolari. Ispirato dai fratelli Grimm, nel 1850 Alexander Afanasyev cominciava il censimento dell'enorme patrimonio di fiabe e racconti popolari russi. La Sicilia aveva avuto la sua prima raccolta per iniziativa di una donna. Tra il 1868 e il 1869 Laura Gozenbach, nata a Messina da una famiglia svizzera trapiantata in Sicilia al seguito del padre agente di commercio tessile, aveva raccolto novantadue fiabe pubblicate nel 1870 a Lipsia, in una versione tedesca da lei stessa curata e con le sue ultime due in dialetto siciliano: erano le fiabe della sicilia ionica, la sua fonte erano state le donne che prestavano servizio nelle case della ricca comunità straniera. Dunque anche il popolo siciliano aveva mostrato d'essere protagonista del folklore, ma nel 1875 le Fiabe raccolte da Pitrè non piacquero-almeno in Sicilia-perchè risultavano inadeguate alle urgenze ideologiche di quegli anni: mostravano troppo e al contempo non abbastanza, spesso mancavano di una morale socialmente accettabile e non erano edificanti. Tutte cose che non c'era alcun bisogno di "mettere per iscritto", visto che sembravano inventate apposta per dare ragione alle critiche sulla pochezza morale della società siciliana. Pitrè era in fondo un outsider, circostanza che ci riconduce alla scarsa fortuna di uno studioso che ha fotografato la Sicilia come nessun altro, che è stato onorato nelle dichiarazioni d'intenti ma poi ignorato: dai difensori dei molteplici primati isolani perchè non allineato, da altri per certe ingenutià. Come quando si produsse in un colorito ritratto del prototipo del mafioso, quasi fosse un tizio a metà fra il guappo e il paladino, fornendo un'autorevole definizione minimizzante a molteplici pretesi seguaci in malafede. Tranne pochissime eccezioni, come la storia di Colapesce, le sue Fiabe sono state dimenticate per ignavia o per oscuro riflesso istintivo. Hanno avuto un momento di gloria intorno al 1955, quando sono state un magnifico terreno di caccia per Italo Calvino che nelle Fiabe italiane le ha valorizzate: ma troppo spesso il grande scrittore ha lasciato spazio al mestiere, finendo per riscriverle. Le fiabe che qui si pubblicano sono solo una parte delle "tradizioni" raccolte da pitrè, altre che per problemi di spazio non vengono inserite sono altrettanto belle e significative. Le ho scelte senza essere sorretta da competenze specialistiche, lasciandomi condurre nell'universo della narrazione orale dove la magia è di casa. La loro tradizione dal siciliano del 1875 ha posto un problema di lingua e di stile; ho cercato di essere fedele ma senza tentare alcuna operazione filologica, di mantenere la cadenza del parlato e la vivacità del lessico. La società che emerge da queste narrazioni è fluida, con poche inibizioni, affida le sue speranze di riuscita al caso felice che cambierà la Sorte: elemento che forse rimanda alla funzione subalterna di chi narra, o forse a tutto un agire sociale per qualche verso soffocato dalle necessità di una Storia che, per la Sicilia, si sviluppa dentro un ritmo determinato dall'esterno, soprattutto donne, nella Prefazione ai quattro volumi Pitrè le colloca fra il popolo minuto e privo affatto d'istruzione. sono donne della sua cerchia familiare o vicine di casa nel palermitano quartiere Borgo, lo studioso ricorda in particolare tre nomi: la cieca Rosa Brusca che da giovane era stata tessitrice; Elisabetta Sanfratello di Vallelunga detta Gnura Sabedda, domestica; Agatuzza Messia, cucitrice di coltroni d'inverno che era stata sarta. La sua narratrice-modello è la Messia, di cui Pitrè delinea un ritratto molto efficace: ha settant'anni e un vero talento, ha parola facile, frase efficace, maniera attraente di raccontare, ottima memoria. si esprime con tutto il corpo: si alza, gira intorno per la stanza, s'inchina, si solleva facendo la voce ora piana ora concitata, ora paurosa, ora dolce, ora stridula, ritraente la voce dé personaggi e l'atto che essi compiono. E' una popolana, non sa leggere ma sa tante cose che non le sa nessuno, e le ripete con una proprietà di lingua che è un piacere sentirla. da giovane è andata col marito a Messina, vi è rimasta per qualche tempo e, fra le comari che mai s'erano spostate dal loro vicolo, aveva portato la sua esperienza da viaggiatrice. All'origine della vocazione di Pitrè per le tradizioni popolari c'è questa donna:
la Messia mi vide nascere e mi ebbe tra le braccia ...ella ha ripetuto al giovane le storielle raccontate al bambino di trent'anni fa. Nelle fiabe di Agatuzza Messia troviamo poca magia e molte avventure, ragazze intraprendenti cancellano lo stereotipo sulla passività delle siciliane e diventano protagoniste. Ci sono mogli e figlie che, in caso di bisogno, vengono murate in casa per meglio custodirne l'onore, ma rimangono in primo piano; può capitare che siano loro a suggerire la temporanea soluzione a uomini condizionati dal giudizio di altri maschi, senza perdere molto della loro potenziale autonomia. Ne Il Pappagallo che narra tre racconti è il pappagallo del titolo a narrare alla protagonista, che ha suggerito al marito di chiuderla in casa ed è indecisa se uscire, di una ragazza che si permette di dire "io parto" addirittura a un re: ma, come in un gioco di specchi deformanti, glielo racconta per convincerla a non uscire. In alcune storie possiamo trovare femminili negative, ma accade soprattutto se il narratore è uomo. Altrimenti, come avviene in Caterina la sapiente, le ragazze distanziano l'uomo che, nel vano tentativo di sottometterle, si rifugia nel suo ruolo socialmente riconosciuto: Giocatrici d'azzardo come Bianca Cipolla, eroine romantiche come L'imperatrice Rosina o l'omonima protagonista di Malvina - che esce dal suo palazzo col bastone e le due conchiglie dei pellegrini per Santiago di Compostela- le donne tracciano il profilo di un diffuso protagonismo che risalta come una delle più intriganti chiavi di lettura delle fiabe raccolte da Pitrè. Le narratrici parlano di mammedraghe ma dicono molto altro, anche la lunga durata di quelle mancanze che nella Sicilia dell'800 soffocano la vita: come quando l'assenza di strade rotabili fuori dall'abitato porta a immaginare terribili pericoli, l'appena ricordata Malvina addirittura sente gli striduli versi dei selvaggi chesi nutrono di carne umana. e per ricordare quant'era prezioso il grano troviamo che dai capelli di Caterina, protagonista de La figlia di Biancofiore, il miracolo compiuto da una fata lascia cadere oro, diamanti, pietre preziose e chicchi di frumento. Naturalmente molti elementi rimandano al canone delle fiabe classiche, da assumere però con qualche cautela. Ne L'infanta Margarita c'è lo specchio di Biancaneve, ma in Ninetta e il ramo di dattero Cenerentola s'è trasformata in una fantasia che diventa gioco di parole, Ninetta è la più smaliziata delle Cenerentole: nessuno la maltratta, non ci sono matrigne nè ingiustizie; è solo una ragazza bella e calcolatrice ben attenta alle sue strategie. Sono storie raccontate da donne e sui motivi della maternità indugiano volentieri le fiabe qui pubblicate: il desiderio di un figlio ritorna nelle protagoniste più diverse, nemmeno le mammedraghe o le sirene ne sono immuni. In Sole, Perla e Anna troviamo l'amore materno che, in un tripudio di sentimenti viscerali, si trasforma in delirio criminale; in Sfortuna è una madre a compiere il sacrificio più grande, allontanando la figlia perseguitata dalla Sorte. nelle Fiabe di Pitrè non rintracciamo le tensioni a cui nel 1884 avrebbe dato voce il modicano Serafino Amabile Guastella  con Le parità e le storie morali dei nostri villani, che hanno il loro protagonista nella miseria contadina e realizzano, per dirla con Leonardo Sciascia, un "antivangelo". L'universo narrativo di Pitrè ha inizio con le donne di casa e di rado riflette le tensioni di un mondo contadino che riamne estraneo ma, quando si mostra, è veritiero: in Peppi sperso per il mondo, definita da Calvino uno dei monumenti della narrativa popolare italiana, riconosciamo la questua per il lavoro, i contratti-capestro, la solidarietà del vecchio animale e la necessità del suo sacrificio. In Peppi il miracolo è un frutteto, cresciuto in una notte nella Sicilia del latifondo; la prova da superare coincide con l'arare una grande estensione di terra, mentre sullo sfondo i nobili oziosi vivono di scommesse e puntigli. La grande varietà di motivi narrativi include il surreale gioco di parole de La gatta e il topo, racconti dove l'amore è protagonista come La sorella del conte e altri dove, con grande disinvoltura, vengono raccontate anche le vicende più truci: Sarinella sembra un abbozzo di sceneggiatura horror, Fra' Genipero è un film splatter di quelli con effetti così forti da diventare caricaturali, dove la tensione si libera in una risata. Ci sono le fiabe moderne come Tippete nappete, che prende in giro la moda "rivoluzionaria" di dare nuovi nomi agli oggetti consueti, e ci sono le fiabe che lasciano riemergere motivi antichissimi, dove strappare un ciuffo d'erba consente di accedere al mondo "di sotto": così avviene ne Il cespuglio della rapa selvatica, con il protagonista Vincenzo che ottiene capacità magiche di tipo sciamanico dopo un periodo di iniziazione. Vincenzo è un briccone, un ladro: riesce a vincere il vecchio Patri-Drau, in una lotta generazionale dove il discepolo uccide il maestro dopo essersi appropriato dei suoi poteri. Non è il solo imbroglione- protagonista, è in buona compagnia. La truffa sfuma nella prova di abilità e furbizia in Tredicino, è ferocemente punita ne La figlia di Biancofiore, trionfa come istinto predatorio in La borsa, il mantello e il corno fatati. Ho riportato tutte le storie di Giufà, che non sempre sono aneddoti innocui con un semplicione per protagonista. In Giufà e il canta-mattina  ad esempio, un disturbatore viene eliminato e la madre, che dovrebbe impersonare un sano principio di realtà, non si scompone più di tanto e risolve la faccenda camuffando l'omicidio. Solo Colapesce ha una provenienza diversa rispetto ai quattro volumi delle Fiabe, Pitrè vi dedica uno studio a parte che merita un rapido cenno. La storia dell'uomo capace di resistere sott'acqua senza respirare è molto antica. Nel tardo XII secolo il poeta provenzale Raimon Jordan scrisse di un certo Nicola da Bari, negli stessi anni la notizia fu ripresa da un canonico inglese che ne riferì come di una leggenda già popolare. in seguito sono in tanti a tramandare  storia dell'uomo- pesce, che viene conosciuta in tutto il Mediterraneo ed è spesso arricchita di particolari. fra i sicilaini il primo a scrivere è il frate domenicano Tommaso Fazello, nella seconda metà del Cinquecento, che spiega la capacità di rimandare a lungo sott'acqua con una particolare struttura dei polmoni. La storia di Colapesce rimane sempre ambientata nel mare di Messina, in quello Stretto pieno di correnti che per la mitologia era sorvegliato da Scilla e Cariddi. Negli Studi di leggende popolari in Sicilia e nuova raccolta di leggende siciliane (Torino 1904) Pitrè riporta 23 versioni letterarie e 18 popolari. Ho scelto la n. 8 delle varianti popolari. 
                                                                 AMELIA CRISANTINO





GIUSEPPINA TURRISI COLONNA
La poetessa femminista che incitava alla rivolta

Ritratto di una palermitana animata da impeti risorgimentali che spingeva le donne alla ribellione

di AMELIA CRISANTINO


Le donne siciliane dei secoli passati spesso ci sorprendono. Scivolano fuori dalle caselle stereotipate in cui per pigrizia le rinchiudiamo, spargono attorno a loro indizi contraddittori e restano in attesa di qualcuno che sappia raccontarne la storia. Quando la Sicilia viene inclusa nell’itinerario del Gran Tour, le notizie sulla società e quindi sulle donne si moltiplicano senza smettere d’essere discordanti. Negli anni settanta del diciottesimo secolo Houel incontra a Girgenti due nobili signorine che sanno leggere ma non scrivere, per evitare che segretamente possano comunicare con gli uomini. Ma poi negli stessi anni Brydone è solo il più famoso fra quanti  raccontano di donne con molta più libertà che nel resto d’Italia, e della serale passeggiata alla marina – l’odierno Foro Italico – a luci spente per meglio favorire “gli intrighi amorosi” in un’atmosfera così libertina che cent’anni dopo Giuseppe Pitrè ancora sene diceva mortificato.  A rimediare, molto lontano da questa libertà di costumi  si viveva nella Sicilia della seconda metà dell’Ottocento, quando la politica diventa l’interesse predominante. Allora le donne tornano a essere lo sfondo su cui agiscono le passioni degli uomini, lo ogni tanto qualcuno riesce a venie avanti e diventare qualcuno.
E sto si fa notare Giuseppina Turrisi Colonna, una poetessa dalla vita breve. Nata a Palermo nel 1822 muore di parto nel ’48: è una ragazza di ottima famiglia, educata a sviluppare i suoi talenti. Proprio questa è la sua prima originalità. Giuseppina e  la sorella Annetta vengono cresciute per partecipare al mondo ed esserne protagoniste. E’ una poesia postuma, pubblicata per la prima volta nel 1878 e intitolata “Alla Madre”,a lasciarci intravedere quel privilegiato sentimento della maternità in cui Emilia Colonna  educato le sue figlie: gli ideali che ha loro trasmesso: l’amore, l’arte e la patria per Giuseppina e Annetta sono pane quotidiano. Ragazze nobili ma lontanissime dal modello dissipato che comunemente si associa alla nobiltà siciliana, sono entrambe allieve di Giuseppe Borghi, arrivato a Palermo mentre le dispute fra romantici e classicisti erano particolarmente accese e che grande successo ottiene con le sue lezioni sulla Divina Commedia. Su sollecitazione di Borghi che ha portato la moda dei manzoniani “Inni sacri”, Giuseppina compone anche lei alcuni Inni. 
Ha solo 14 anni e però già scalpita, i suoi “Inni” sono lontani dalla cristiana rassegnazione che in genere trasmettono: scrive di Giuditta liberatrice del suo popolo e si esalta nel rievocarne le imprese, sotto le apparenze del  componimento di genere la sua è già poesia civile. All’inizio è solo una ragazzina ben educata, ma ci mette poco a mostrare vero talento e sviluppare una “poesia eroica” che al maestro è del tutto estranea. Così, rifiuta di tradurre Anacreonte, perché troppo delicato: preferisce i tormenti di Byron, il suo coniugare assieme poesia e vita  immolare sull’altare della libertà. Nel  1911, a soli 19 anni, Giuseppina Turrisi Colonna, pubblica il suo primo volumetto di poesie. Per lontanamente immaginare lo stato d’animo della giovanissima poetessa dobbiamo considerare un elemento  che con la poesia c’entra ben poco e ricordare che nel 1837 il colera aveva provocato migliaia di vittime in tutta la Sicilia soprattutto a Palermo. Un panorama di desolazione circonda i sopravvissuti, al punto che ricordare il tempo degli antichi eroi non è solo un gioco letterario, è quasi un rimedio, serve a trovare la speranza. Giuseppina indica dei modelli, vuole scuotere le coscienze e scrive di Aldryda che nel 1174 ha guidato gli anconetani suoi concittadini alla liberazione contro i tedeschi e i veneziani.  Scrive di Giovanna d’Arco e sogna di imitarla, di svegliare “le sicane  menti”. L’amore che tutta la pervade è soprattutto per la patria che dei suoi figli ha bisogno di risorgere. Altre donne troviamo tra i suoi riferimenti poetici soprattutto Gaspara Stampa Vittoria Colonna: concorrono a disegnare una costellazione femminile che ha la forma delle scelte consapevoli dove Giuseppina scrive per tutti ma soprattutto per le altre donne. Che strattona e bistratta che incalza e spinge a reagire perché vorrebbe vederle forti e audaci. E lei ci appare tormentata dal presente,che giudica privo di ogni orgoglio. Nel 1843, da Parigi le chiedono un componimento da inserire nel “Parnaso Italiano dei poeti contemporanei”. E’ un prestigioso riconoscimento, scrive un’ode “Alle donne siciliane” dove la “caduta funesta” della Sicilia che ha smarrito la via della grandezza e perduto ogni splendore si risolve in un appello alle donne. “L’ardire dei Sicani si rifonda in noi” e Sorgete o care e nella patria stanza/per voi torni l’ardire e la speranza”. Solo le donne possono e devono risollevare le sorti della patria. <Né trastullo né servo il nostro sesso>: l’educazione dei figli è per Giuseppina un altissimo compito, coincidendo con la formazione dei futuri cittadini. Così, la “somma virtù delle donne molto più di quella degli uomini è necessaria a una patria che ha bisogno di una nuova linfa per i suoi figli. E questa tensione, la continua <ambizione per il trionfo del suo sesso> -come scrive Francesco Guardione che fu il suo unico biografo – è qualcosa di veramente nuovo nella società siciliana. Nel mondo di Giuseppina Turrisi Colonna anche la femminilità è eroica, lontana da ogni civetteria. Lei corrisponde con altre poetesse, la sorella Annetta si afferma come pittrice e ricercatrice, c’è una consapevolezza di cui abbiamo smarrito il filo. Al punto che, ai nostri stessi occhi, le donne siciliane sono rimaste appiattite su un modello impoverito e muto. Ma Annetta che studia chi sono le altre pittrici prima di sé e riscopre un’allieva di Pietro novelli, la dimenticata Anna Fortino modellatrice in stucco e cera, e Giuseppina che scrive e sviluppa il suo poetico, impetuoso femminismo sono figure vive e originali, lontane da ogni stereotipi. Giuseppina scrive articoli sul polemico giornale palermitano “La ruota” e nel 1846 trascorre l’estate a Firenze, dove con Le monne pubblica un secondo volume di poesie lodate dai critici. E’ fra i primi a superarvi  il soffocante concetto di “patria siciliana” e continua a rivolgersi alle donne, da cui attende un risorgimento morale perché diventi possibile quello politico. E sogna un’Italia unita, senza per questo nemmeno per un momento credere in papa Pio IX perché l’Italia non può rinascere <nelle tenebrose sale del Vaticano>. La sua vita e quella della sorella sembrano solo all’inizio di una storia ancora tutta da creare, ma ormai la tragedia incombe. E nel 1848 muoiono entrambe, a tre giorni di distanza l’una dall’altra: Annetta di tisi, Giuseppina nel parto del suo primo figlio. Entrambe ancora ragazze, sorelle maggiori da ritrovare.


da  “La Repubblica” di Palermo del 7 marzo 2008 






"QUANDO INTERNET NON C'ERA: 
LA RAPPRESENTAZIONE DEL TERREMOTO"

di AMELIA CRISANTINO


Nel gennaio del 1968 un forte terremoto colpì la Sicilia, ventuno paesi furono rasi al suolo. In quella drammatica circostanza gli inviati dei giornali divennero protagonisti, c'era ancora l'eco del miracolo economico ma loro denunciarono il dramma dei paesi distrutti dopo essere stati svuotati dall'emigrazione.
La mutazione antropologica provocata dai mezzi di comunicazione di massa era di là da venire, ma da Palermo la televisione mostrò il salvataggio di una bimba rimasta sotto le macerie: la sua sorte divenuta spettacolo commosse milioni di persone, sgomente dinanzi a tragedie più grandi di loro. In quel panorama di desolazione l'apparecchio televisivo dominava incontrastato con le sue immagini in bianco e nero. 
Quasi mezzo secolo dopo, la simultanea trasmissione di innumerevoli immagini e commenti ha messo all'angolo l'informazione dall'alto. Oggi giornalismo è diventato partecipato: il lettore prende parte e diventa protagonista, produce immagini, posta link, lancia commenti che possono raggiungere una vasta platea ed essere rilanciati diventando virali. Una mutazione antropologica, appunto: che rischia di lasciare su uno sfondo divenuto piatto, indifferenziato, un passato per definizione sempre lontano. Sono i rischi della più compiuta forma di democrazia oggi esistente, quella di internet. 
I giornali cartacei hanno un vantaggio rispetto alla realtà virtuale dei social: si possono rileggere. La tragedia del Belice rivive grazie alla costruzione di immagini mentali che ricreino nel lettore i sentimenti vissuti dal cronista. 

Il terremoto del Belice 
Il gennaio del 1968 fu molto freddo, la neve cadde abbondante. Il 14 del mese molti paesi di montagna erano isolati e continuava a nevicare. Era una domenica ovattata, silenziosa. Forese tranquilla, sino alle prime scosse di terremoto.
La terra si mosse alle 13,28 e alle 14,15. Due scosse leggere. Nella valle del Belice la paura, quella vera, iniziò con la terza scossa delle 16,48. Poi la notte notte fredda e buia, che diventò un incubò alle 2,33 e alle 3,01. Quando interi paesi vennero distrutti.
Rileggiamo le cronache de L'Ora e del Giornale di Sicilia, che pubblicarono pagine degne di figurare nelle antologie. 
Nell'edizione del 15, lunedì, le notizie sono ancora incomplete. Solo con L'Ora, nel pomeriggio, si ha la misura di cos'è accaduto. L'epicentro del sisma è nel triangolo Gibellina-Salaparuta-Poggio Reale, al suo interno altri paesi presto famosi: Montevago, Santa Margherita Belice, Menfi, Salemi. Da Gibellina, Mauro De Mauro scrive: <si tratta di paesi vecchi, decimati dall'emigrazione. L'abbandono e la miseria che vi regnano sono stati messi crudamente in luce da questo movimento sismico, che non ha risparmiato niente>. Gibellina è distrutta, dei suoi 7 mila abitanti chi non è riuscito a scappare è sotto le macerie. Ma la mobilitazione generale lascia sperare in soccorsi rapidi.
Il 16 gennaio, il primo bilancio sul Giornale di Sicilia è di 400 morti e mille feriti. L'incessante susseguirsi di scosse fa cadere i muri semidiroccati, la terra continua a tremare mentre si rimuovono le macerie. Sui tornanti da Alcamo verso Gibellina non c'è un metro di paesaggio tranquillo: alberi schiantati, paracarri divelti, frane, fenditure sull'asfalto. Odore di zolfo che prende alla gola, magma ribollente chissà dove nelle viscere della terra. Nella montagna si sono aperti piccoli crateri, emanano colonne di fumo nerastro e vampe solforose: "il fiato rovente dell'Apocalisse".
Da Montevago, Roberto Ciuni scrive di ruspe per aprire la strada alle squadre di soccorso, di un paese crollato addosso a chi si era svegliato dopo la prima scossa notturna e ancora fuggiva. E' una tragedia contadina, che distrugge povere case di sassi, canne e tufo. Frana anche il volto dimesso del locale, risicato boom edilizio. Sono le abitazioni degli emigranti: in blocchetti di tufo legati con "calce magra", appena una spolverata di cemento. Una tragedia dei poveri, feroce e assurda. A cui si somma il danno della disorganizzazione, subito visibile. A 12 ore dalla catastrofe a Montevago non ci sono soccorsi: "alle 4 del pomeriggio non c'è una tenda, una coperta, un cibo". Sta tornando la notte, piove.
Lo stesso giorno 16, su L'Ora, Leonardo Sciascia riprende la denuncia di Ciuni e scrive di una Sicilia "pulviscolo umano disperso al vento dall'emigrazione", un residuo, popolato da "quelli che ancora faticano con l'aratro a chiodo e col mulo. Un Paese non unificabile".
Le corrispondenze diventano denunce. Felice Chilanti scrive di gente affamata, che chiede "latte per i picciriddi". Ma da Montevago a Poggioreale, dove sono i soccorsi? Monta la rabbia, che lascia un frustrante senso di impotenza. La Sicilia del terremoto è povera, con vuote campagne lavorate in modo arcaico, "piegata su se stessa, sotto gli elicotteri che rimbombano nel cielo e se ne vanno". Continuano le scosse, alle 17,43 la terra trema per 52 interminabili secondi. Il pezzo di Marcello Cimino è un viaggio notturno nei paesi della morte, con sopravvissuti dal freddo, senza cibo: ma "non posso evitarmi di ricordare come nel passato, al solo annuncio di scioperi e occupazioni di terre, fosse fulmineo l'intervento della Celere".
Scenari apocalittici si presentano ai soccorritori, il generoso moltiplicarsi delle iniziative trova un'eco nel caos della disorganizzazione. Ognuno agisce per conto proprio, "mancano gli ordini". si crea un'ingiusta gerarchia della tragedia, Montevago è la protagonista e i è anche troppo cibo, che si spreca. In altri paesi, come a Camporeale o a Roccamena, i danni sono ingenti ma la visibilità è molto minore. Gli abitanti accampati nelle campagne sono stati dimenticati, tagliati fuori dai soccorsi: il 18 Ciuni scrive di persone terrorizzate , affamate e anche inferocite, che minacciano di marciare sino a Palermo, "gli andiamo a morire davanti agli occhi". L'indignazione trova un facile bersaglio nell'inerzia dell' Ars, che placida e sonnolenta rispetterà il calendario delle sue convocazioni. Come se niente fosse.
Sono passati tre giorni, il terremoto non finisce. Ogni paese ha un suo dramma particolare. Nella corrispondenza da Salaparuta, raggiungibile solo in elicottero, leggiamo di sopravvissuti che vagano inseguiti dalle scosse sismiche, "migliaia di fantasmi di uomini che scappano in un paesaggio infernale". Un pezzo di Sicilia è un cimitero di case, le foto a tutta pagina sono più eloquenti di mille parole. A Santa Ninfa i soccorsi ufficiali arrivano solo il 17, le strade per Santa Margherita Belice sono bloccate e i morti vengono allineati in piazza. Non ci sono certezze nemmeno sul loro numero. A Montevago, dove quintali di pane marciscono sotto la pioggia mentre a pochi chilometri si soffre la fame, i carabinieri ne contano 125. "Fame freddo e terrore" è il titolone a tutta pagina dell'Ora. Nei paesi isolati, con eroismo si cerca di strappare i sopravvissuti alle macerie di Gibellina a 48 ore dal sisma, commuove il mondo: si chiamava Eleonora Di Girolamo ma per tutti era "Cudduredda", dolcino. Diventava suo malgrado il precario simbolo della vita, a cui salvataggio avevano assistito milioni di telespettatori.
Il 24 gennaio, il bilancio ufficiale è di 216 morti e 563 feriti. E' cominciato l'esodo. il 22 gennaio la prefettura di Agrigento comunica che il 30% dei sopravvissuti è già partito. In compenso la valle del Belice si popolerà presto di imprenditori-avvoltoi, che sul terremoto sono pronti a edificare uno dei grandi affari siciliani. Ma questa è un'altra storia.

Il terremoto a Palermo
La notte dal 14 al 15 gennaio Palermo piomba nel caos, in un panico contagioso, "per i palermitani questa è stata una delle notti più drammatiche dal dopoguerra ". Le case vengono abbandonate, piazza Massimo e piazza Politeama sono subito piene di gente. Il 15, sul Giornale di Sicilia leggiamo "stamattina alle 4 l'incrocio tra via Notarbartolo e via Libertà era ingorgato da una lunghissima colonna di macchine, che fuggiva dall'ombra dei palazzi della città nuova suonando i clacson a distesa". "Ingorghi e tamponamenti favolosi", affari d'oro per bar e panellerie.
Molti incidenti, pronto soccorso che lavorano a pieno ritmo. Le macchine si dirigono verso la Favorita, verso Mondello ma anche a Bellolampo. Ovunque ci sia uno spiazzo abbastanza ampio da risulare rassicurante si improvvisano bivacchi e fuochi, che resistono per diverse notti.
Non ci sono grossi danni. Di fronte a quello che succede nei paesi, si sorride nel leggere che a Brancaccio è andata in frantumi la scorta di specchi della vetreria Mistretta. Ma il 15 la città è ferma, gli uffici vuoti, le scuole e i negozi chiusi.
Anche i processi saltano, perchè non arrivano i testi.
Martedì 16 si diffonde la voce che l'epicentro del sisma si sta spostando vero la città, che nel pomeriggio ci sarà un movimento di assestamento. Aumenta la paura. La stazione ferroviaria è presa d'assalto, si vendono biglietti come a ferragosto. E ogni volta che diminuisce la paura subito si formano lunghe code in via Lincoln, davanti alle cabine della teleselezione.
Pare incredibile, ma a Palermo le informazioni sul terremoto arrivano da fuori. Esiste un solo sismografo, appartiene al seminario dei frati minori di via del Vespro: le carte che produce vengono inviate al convento di Gibilmanna, dove risiede l'unico specialista in grado di leggerle. Siamo quindi ben lontani dal potere affrontare qualsiasi emergenza. Alla prima scossa seria saltano i pennini del sismografo e bisogna contentarsi del rettore che dichiara "il sisma è stato violentissimo e intensissimo". Su l'Ora leggiamo "stamattina il tecnico ha cercato di darsi da fare, è necessaria una molla ma non si trovava quella giusta nei negozi di Palermo".
I pilastri del II Liceo scientifico, due piani e un seminterrato in via Maggiore Toselli, risultano seriamente lesionati. E l'Ora puntualmente denuncia come questi locali "adattati" a scuola siano in affitto, il fortunato proprietario è il costruttore "ufficiale" delle scuole di Palermo.
Non ci sono crolli "neanche nei rioni decrepiti", un esperto spiega che il movimento tellurico è assorbito dai calcari compatti che formano il sottosuolo palermitano. Ma il caos non accenna a diminuire. La stampa sottolinea come manchi "una parola chiara", i volontari che arrivano da ogni dove non trovano nessuno a cui rivolgersi, la città appare abbandonata a se stessa. Gli abitanti del rione Castello s.Pietro si trasferiscono in massa a piazza XIII vittime, ricoverati sotto "tende di fortuna".
Il terremoto mette a nudo le piaghe del centro storico, rende visibili lesioni alle pareti vecchie di "alcuni anni", che all'improvviso fanno paura.
La notte del 20 le famiglie di Castello San Pietro occupano numerose case a Fondo Patti, a Pallavicino: dove gli appartamenti erano pronti da anni, ma non assegnati. Altri disperati si rifugiano nei vagoni che le Ferrovie hanno messo a disposizione della Prefettura alla stazione Lolli, a Brancaccio, a Tommaso Natale.
Messa da parte la paura, l'incalzare di drammatiche notizie crea un'ondata di solidarietà anche a Palermo. I giornali organizzano colonne di soccorsi, è Mario Farinella a guidare i tre camion riempiti da L'Ora con pane, latte, omogeneizzati e coperte. E' una gara di generosità, tutti vogliono dare qualcosa e tanto più avvilente risulta l'andare a sbattere contro una colpevole disorganizzazione.
Come sempre, la città mostra due volti. Ci sono il caos e la paura ma, come scrive Mario Genco su L'Ora del 17, "questa incredibile Palermo, che si sbriciola alle prime piogge e si schianta alle brezze, ha resistito bravamente. Neanche una chiamata per i vigili del fuoco. Cornicioni e vecchi palazzi sono rimasti, per fortuna, al loro posto".


da L'identità di Clio del 19 settembre 2016













MONREALE
... poesia E prosa


"M O N R E A L E"

Ammantata di rosa al mattino, 
chi salendo, ti vede in splendore.

O di stirpe regale normanna, 
sei lo scrigno d'un grande tesoro. 

Circondata di verde e frescura, 
non ancora inquinata tua spira.

Madre sei di gente che dura, 
per sua arte pensiero e poesia.

I Novelli, il Miceli, il Millunzi, 
Veneziano, Pantaleo il Fiorenza...

Sono figli di tua nobile terra
 e tra i vivi è ancora seguenza.

Quanto onore essere tuoi figli! 
E studiare del Duomo i consigli,

La cui luce si spande nel mondo
 che, purtroppo, resta...rotondo.

MESSINA BENEDETTO
                                                                                             monrealese










"LA MIA CITTA', MONREALE"

In quest'isola calda di sole 
come gemma in diadema incastonata, 
un Re saggio e pio 
ti volle, perla preziosa, 
inghirlandare in abbaglianti 
cerchi di luce. 
In te son conservati 
tesori d'arte preziosi e rari 
che nè quadro d'autore, 
nè penna di poeta 
può descrivere 
in immaginie parole. 
Manda bagliori di bellezza singolare 
la maestosa Cattedrale 
e nei colonnati del silenzioso Chiostro 
lieve mormorio d'acqua 
dall'antica fonte, 
infonde pace e letizia 
al cuore forestiero. 
Monreale, mia città natale, 
esempio illustre di cultura antica, 
madre d'artisti grandi ed immortali
 in tutto il mondo ti sei fatta onore. 
Un tempo regina della Conca d'Oro 
con la valle profumata  
di zagara, d'aranci e limoni,
inebriante e misteriosa 
effondevi soavi sensazioni 
Monreale, mia città amata 
anche se oggi presa sei 
dagli affanni della città moderna, 
nel tuo splendore sarai eterna.

SALVATORE AUTOVINO
















"La Cazzicatummula

di

LA BUMMA DI MURRIALI"

cantu

di

Nardu Lu Vicchiareddu




Rammintati l’antica leggenda,

Chi lu Mitu raccunta d’un tali,

Chi tintau ‘na vulata trimenda

E, unn’avennu, s’impiccica l’ali

Cu la cira  e a lu Celu vulò?

Di lu suli, però, a lu caluri,

Nun risistinu l’ali di cira,

E lu scioccu, cu summu stupuri,

Comu stidda chei cadi a la sira,

Di lu celu a la terra scappò.

Tali e quali, un pugnazzu d’amici

Si pruvaru a ‘na nova vulata; 

E cu l’ali di cira e di pici

Si livaru di ‘mmensu a la strata,

E all’Arcivu acchianaru accussì.

E acchianannu, acchianannu, acchianannu,

Mischinazzi, tuccaru la meta,

M’arrivati, successi lu dannu,

Pirchì squagghia la cira ‘ndiscreta,

E li buzzarra ‘nterra accudì.

E su ‘nterra, Lu propriu pisu

Tutt’appressu si l’ha strascinatu.

Sunnu ‘nterra. Lu porcu ed invisu

Partitazzu chi tutt’ha sfasciatu

S’aggiuccau pri un si susiri cchiù.

Sunnu ‘nterra.

Cuntusi, ammaccati,

Cu li facci cchiù giarni d’un mortu,

Sinfaccianu, senza piatati,

A vicenna, lu dannu e lu tortu;

Di lu ‘mbrogghiu la culpa  cu’ fu.

Dispirati, cu l’occhi di fora,

Russi, comu ‘na bracia di focu,

Mentr’ancora su ‘nterra; ed ancora

Di lamenti rintrona lu locu

Unni sunnu, ca fannu piatà,

Comu fannu li cani sciarreri,

Chi s’ammustranu denti e scagghiuna,

Sti birbanti, sti genti sfameri,

Già s’afferranu ed, a muzzicuna,

Una guerra accumenzanu ddià.

Primu, Ninu contrasta cu  Roccu,

Adiratu, e cci duna la caccia.

Poi s’afferranu e fannu un baddoccu;

 E, accussì, l’unu all’atru rinfaccia

Li so’ culpi, li so’ iniquità,

Ninu dici: Pizzazzu d’infami,

Semu ‘nterra, e la culpa fu tua.

Tantu tempu, dicennu ca m’ami

M’hai sbattutu or’a puppa or’a prua;

T’hai jucatu la mia abilità.
Ma qual’era st’affettu, st’amuri,
Tantu strittu, accussì sficatatu,
S’ogni jornu m’hai datu un duluri;
M’hai li vatu la vita e lu ciatu,
M’atturratu lu zzucatigghiò?
Tu prutetti vulisti li latri;
Cumannari vulisti li festi;
Tu vulisti ‘mpiegatu a to patri.
Suscitannu litigi e timpesti,
E censuri vulisti a Totò.
Cancilleri vulisti, un citrolu
Senza Sali, nemmeno simenza,
Pri pulitica è un santu Lojolu,
Un Platuni pri sennu e scienza;
Un purtentu com’iddu nun ccè,
S’ah pruvatu ch’è un sfascia-pagghiuna,
Un vampiru, un pitociu, ‘na vampa;
Chi prtenni; chi voli e nun duna,
S’ha fricatu lu fumu e la lampa;
Panta ad arsu ed a ‘nzoccu è gghiè.
A ‘na pocu di scalamistrati,
Rigatteri di menza minata.
Scarparazza, nnimici avvintai
Di lu cetu, grapisti la strata
Di putiri acchianari ddassù.
Allargati li listi, ‘nfilannu,
Dintra d’iddi, la pessima fezza.
Lu facisti cu frodi ed ingannu,
Pirchì sai ca lu tristu disprezza
L’omu amanti di fidi e virtù.
Lu Bilancia l’hai fattu sirviri
Sempri, sempri a li fini privati,
Pri accussì sfrazziari e putiri
Aiutarci l’amici affamati,
Chi nun sann’ unni abbita onestà.
E lu nomu, accussì, ti jucasti
Lu cchiù onestui, lu cchiù ‘ntimiratu.
Lu prestigiu, oramai, mi livasti,
Chi m’avevanu, sempri, accurdatu
Li cchiù mugghi Nutabilità.
Arrispannu lu Roccu: Tacete;
Francamente, la vò spiattellare.
Contradite, volpèo, se potete,
Gli argomenti che vengo a provare
Con la fede de l’uomo per ben.
Voi, la colpa di tutto, aggravate
Sulla mia, già sciupata, persona;
Io vi provo che a voi v’ingannate,
O mentite, e con arte birbona
Propinate l’usato velen.
Anzitutto mi dite: Il Bilancio
L’ho plasmato, l’ho fatto a mio modo,
M’accusate che bevo, che mancio,
E la carne, mi pappo, ed il brodo
A la barba del concittadin.
Dite pur, mi lambicco il cervello
Per creare una carica, un posto,
Provvedere un calzone, un mantello
A colui che ci ajuta, e a ogni costo
         Dà nemici ci purga il cammin.
Dite pur che commisi un errore
Se, attentando al pudor, procurai
Un impiego al mio buon genitore,
E censore al Convitto portai,
Del fratello il parente, Totò.
         Un rimprovero, ancor, mi movete
         Se proteggo lo zoppo Vulcano,
         Re Babbusso; nemmeno volete
         Ch’io protegga quel buon guardiano
         Che  ‘l suo ajuto a noi sempre portò.
Sono questi gli appunti che fate
A la mia poè amata esistenza.
Ma, per Cristo! Perché non guardate,
Di quali mali, la vostra insipienza
Non è stata perenne cagion?
         Se ho protetto ora questo ora quello,
         Se ‘l Bilancio, a mio modo, ho formato,
         Se in Consiglio vi ho fatto il Bordello,
         Se mio padre, lo volli impiegato,
         Ciò vuol dir, che non sono un minchion.
Il minchione, però, o connivente
Siete voi, che m’avete seguito
Nel mio noto furor prepotente,
Né l’intrigo, né ‘l dubbio infinito
Dove sempre vi seppi lanciar.
         Qual bamboccio, qual misero schiavo
V’ho tenuto mio vile sgabello.
E ‘l mio Pietro, ‘l mio amico più bravo,
Né cimenti, ha servito d’anello
Ed, uniti, vi femmo filar.
         E filaste più fiate, non una,
         Senza punto badare, se, avversa
         Od amica, volgesse, fortuna…
         Con quell’alma d’orgoglio cospersa,
         Per tenervi aggrappato al poter,
Onde svolgere il vostro programma
Di dar pane agli amati nepoti,
Spettatore del comico dramma,
Il Paese, per smungerne i voti,
Lusingaste ciascun consiglier,
         Della prossima, immane ruina,
         Prevedendo ‘l temuto cimento,
         Coll’astuzia vostra volpina,
         Tanti giorni, per dar giuramento.
         Tentennaste col dubbio nel cor.
Ma, superba, la nube di gloria,
Di governo l’ignobile sete,
Dè nepoti pietosa memoria,
Vi condusse a speranze indiscrete,
E giuraste con tanto disdor.
         Disperati chiedemmo una tregua;
         Avviliti, cercammo la pace;
         Come cane fedele, che siegua
         Il padron, di tradirlo incapace,
         L’inimico a seguir ci toccò.
Ma l’intrigo, il raggiro, la frode,
Non han forza, valore non hanno;
Dove strisciano, il sibilo s’ode
Da lontano, lontano; e l’inganno
Tutto, intero, su noi si versò.



"MONREALE  OGGI" 

Superbo miravi 
i verdi giardini 
della Conca dorata. 
Superbo tergevi 
coi monumenti divini 
della chiesa opulenta. 
Stranieri assetati 
sostavan beati: 
occulti mestieri 
prendevan le menti. 
Api fedeli, 
gli uomini 
succhiavano il nettare 
di uno spirito alacre. 
Ora il cemento 
divora le messi 
con il fetore pestifero 
dei depuratori 
di merda. 
Il verme vorace  
tortura i tesori: 
rovinano i marmi, 
si scompone la fede.
I giovani aspettano, 
le braccia conserte, 
la ruota che gira 
il destino di morte. 
Politici fatui 
si gonfiano vuoti, 
stringono i denti, 
porgon le destre; 
le parole di fuoco 
fanno poco sperar. 
Occhio lucente 
di giovane ribelle 
sconvolgi i piani 
delle larve morenti, 
ricomponi le membra 
del corpo squartato! 
Ritorni la luce 
nel buio 
del dì! 
Regale tu sei, 
monte Caputo; 
regali voi siete, 
case musive. 
Il mondo v'ammiri, 
impingui le vene! 
I nati sono vivi, 
i cuori son forti; 
brillan le stelle 
nel vostro avvenire.
Giuseppe Scalici







"LA SORGENTE"

(Giacalone)



Da   MOMENTI A MONREALE di  GIUSEPPE MAMMINA



L’acqua sgorgava limpida, umile, casta, preziosa dalla viva roccia, formando minuscole cascatelle tra le pietre di calcare che aveva levigate, arrotondandole, acuminandole, nell’eterna sua corsa dei centenni per il bacio al solo generoso amante di tutti i tempi … Dinanzi alla sorgente la strada bianca polverosa arrancava in lieve pendenza verso le ultime casette di Giacalone, fra due ali di terra coronata di stoppie gialline, radici superficiali d’una ricchezza già mietuta dall’uomo che sapeva bagnare la grande madre colle stille del suo sudore, qua e là alcuni fichi dai rami cenerini punteggiati di bianco lattiginoso, qualche ciliegio denudato dei frutti, rami di amareni contrastanti di verde e rosso pallido, un pero solitario, due mucche sul prato alla ricerca d’un po’ di verde da alternare all’aridume del secco foraggio, una frotta di belle giovinezze, occupate nei mille svaghi del riposo estivo dinanzi alle case adorne di pergolati o spoglie di verde, dalle candide facciate in latte di calce… una colonna di carri ferma in attesa dei conducenti che consumavano la loro parca colazione, innaffiata con generoso succo di vite camporealese, nella bottega ristorante di don Filippeddu…


Alla sorgente, l’andirivieni solito di tutte le ore; i villeggianti, piccoli e grandi, camerierine con grembiuli adorni di pizzi, padroni in pigiama di flanella, di seta, di percalle, tinte unite, fascioni sgargianti, modestissimi lavoratori della terra, zappa in spalla, attingevano la saturatrice freschissima di tutte le arsure, con brocche , con fiaschi, con boccali, colle caratteristiche quartare di argilla porosa, captatrice dio frescura…Ognuno aspettava il suo turno, senza fretta e senza spintoni, chè a Giacalone l’umanità tutta, quella che transitava e quella che si fermava, era lì per riposare e godersi la meravigliosa aria di montagna, sottile, rinfrescante, carica di ossigeno… che arrivava a far commiserare i martiri dello scirocco della grande Palermo, bagnata è vero dal suo bel mare, ma certo desiosa dell’aria pura di Giacalone…


Lassù la mente si rischiarava a contatto della natura che si lasciava abbracciare appassionatamente, senza timori di istinti gelosi, chè la gran dea dell’universo creata e vivificata da Dio, era larga di offerte per tutti… In quella borgata, appendice di Pioppo, l’inappetenza era un mito anche per i veri romantici… la vita offriva lassù ogni dono agli spossati, agli errabondi, alla giovinezza desiosa di futuro…








-Giacalone, aria, luce, acqua meravigliose! Papà, andiamo lassù quest’anno! Niente Mondello, niente bagni, papà, ma aria di montagna, libertà, riposo, lontani dal frastuono di questo metropolismo assordante! – esclamò la bimba dagli occhi castani, dai capelli castani, dalle labbra rosso ciliegia… e volgendosi alla sorella per cercare un’incoraggiante alleanza: - Non è vero Carmelina che preferisci anche tu… Giacalone?


Il padre di quei due fiori di bimbe, vero frutto della Conca d’Oro sbocciato in una bella aiuola del giardino monrealese, era troppo giovane per non dover comprendere quel desiderio di giovinezze amanti di libertà, sorrise stringendo fra i denti l’inseparabile bocchino d’avorio, aspirò ancora una boccata di fumo: - Va bene – concluse – d’accordo bambine! Voi stareste su con la mamma… io quando avrò da sbrigare i miei affari in città scenderò la mattina ed a sera, in un salto, sarò ancora con voi! Le due bambine (due bambine che avevano superato ormai i diciotto anni da un pezzo, che avevano superato ormai i diciotto anni da un pezzo, che esprimevano nel rigoglio delle forme più perfette la promozione al rango di donne da… marito…) saltarono al collo del padre e lo baciarono, felici come se avessero fatto già un volo nel regno delle fate col principe azzurro dei loro tanti bei sogni di vita.


-Mamma, andremo a Giacalone quest’anno! Papà ha detto di sì! Non sei contenta mamma? Ritroveremo lassù le nostre amiche, Maria, Bruna, le compagne del Collegio di Maria… e poi l’aria, la libertà, il sole, la montagna! – e Gina, la minore delle due graziose sorelle, dette un bacione sulla guaneia della mamma che l’aveva ascoltata calma, placida, continuando il suo lavoro all’uncinetto, felicissima certo della felicità delle sue creature.


Dinanzi a quella casetta dipinta di rosso scarlatto, piantata appena fuori della strada, sulle prime balze della collina che saliva gradatamente verso il pizzo dell’aquila, una tunica nera di prete, due vestitini fiorati intonati all’azzurro ed al sole di quella mattinata di agosto, due visetti rosei, due occhi di fiamma, colpirono l’attenzione di un giovane, certo uno sportivo, che arrancava in bicicletta, pedalata su pedalata, dinoccolandosi sul manubrio da corsa, imprimendo tutto lo sforzo dei muscoli in quell’ultimo tratto di salita, per riposarsi più su, dinanzi alla rivendita dei tabacchi, vicino alla sorgente… dissetarsi e riprendere la lotta con la montagna, faticosa, snervante, fino a Portella della paglia…


Invece no!..., egli si fermò di colpo, saltò dalla bicicletta, con mossa snella di vero atleta, dette un giro alla pedivella sollevando la ruota posteriore per la sella ed intanto i suoi occhi volarono là… su quella veranda scoperta…fra quei vestitini fiorati… Il suo cuore picchiava forte e non per la fatica condotta da Monreale fin lassù… Poi egli rimontò in macchina, riprese a pedalare con andatura sciolta, quasi veloce, come se i muscoli si fossero liberati di colpo dal peso di tanta strada in montagna;


-Non sbaglio – pensò – no, non sbaglio! E’ lei, è Gina… l’altra è la sorella…Carmelina!


Così egli rivisse i giorni della prima fanciullezza…Entellina la portinaia dal sorriso sempre pronto, la signorina Emilia maestra e mamma di tutti i bambini, un’insegnante alta, bruna, un po’ baffuta come gli dicevano quando volevano farlo irritare, tornarono dinanzi ai suoi occhi… Ed un’aula… tanti visetti… ed un banco vicino alla cattedra… a destar lui, il più discolo fra i maschietti… a sinistra lei… Gina…ed una promessa da bimbi… con tante occhiate…con tante paroline di sfuggita…in classe…in corridoio…per via…dalla finestra di casa sua… furtivamente… L’amore, Un amore da innocenti, ma il primo amore, il più candido, il più bello.


-Alla sorgente… una bella bevuta… una sigaretta – mormorò fra le labbra – un caffè caldo e poi via… passerà tutto allontanandosi subito da qui, a colpi di pedale!...


Alla sorgente l’acqua non zampillava più… la tecnica perfezionatrice dell’uomo uccisore della natura, aveva imprigionato anche sorella acqua, fra pietrischi e cementi…e tubi e buio…negandole il bacio del sole…voluto da nostro Signore…lodato da tutte le sue creature… Egli si fermò attonito, quasi smarrito: il tempo fuggito, l’acqua coatta in una buia prigione, la strada bianca, polverosa scomparsa, asfalto…bitume…grigiore… Si asciugò il sudore, scrutò intorno, nessun amico, nessuna conoscenza e s’avviò alla rivendita, sorbì un’aranciata, ah l’acqua libera, senza misture e senza amara dolcezza! Poi, passò di là, a prendere il solito pacchetto di tre stelle… Al balcone due vestitini fiorati…due visetti rosei…due occhi di fiamma…


-Signorina, per cortesia, un pacchetto di tre stelle!


Le due bimbe si voltarono di scatto…non c’erano più dubbi per lui…Gina…Carmelina!...ma non ebbe il coraggio di farsi riconoscere! … Le ragazze uscirono, con andatura sollecita, elegante: egli pagò le sigarette, azzardò una domanda : -Signorina, scusate, chi erano? – e segnò verso la porta… - Le…D…P…Carmelina, la grande, sta per sposare, Gina, la piccola, è già fidanzata!


-Grazie, signorina!


Ed egli fuggì, quasi di corsa, stordito, inforcò il suo cavallo d’acciaio, pedalò forte, iniziando velocissimo la discesa, sfiorò i due vestitini di seta variopinti, senza guardare, pedalò ancora verso Monreale… -Anche Gina prigioniera – pensò – come l’acqua della sorgente! E divorò la strada…      






Dal Romanzo "Don Giovanni Malizia"
di Giovanni Maria Comandè - 

"Il tre Maggio" 
(Cap. XI)



LO SCRITTORE MONREALESE NEL CAPITOLO DESCRIVE LA GIORNATA DELLA TRADIZIONALE FESTA DEL TRE MAGGIO IN ONORE DEL SS. CROCIFISSO.  

***

Spuntava l'alba a oriente e dal campanile della Chiesa del Crocifisso, a Monreale, il più lieto scampanio si scioglieva a distesa spandendo le sue gaie note per l'aria cristallina, sulla città e sulla campagna. Era il giorno della festa più popolare di tutta la contrada, la festa del Crocifisso, la più caratteristica e tuttora la più folkloristica festa che si celebri in Sicilia. E' un pezzo di Medioevo sopravvissuto al Medioevo. E' una festa di fede e una festa di cuori. "Giornata di grazia", la chiamano i fedeli del paese e del contado. Calano con la prima chiara del mattino dai monti e accorrono dalle più lontane campagne frotte di pellegrini a piedi scalzi e con un cero, uomini, donne, vecchi, bambini, per un voto ottenuto o per uno da ottenere. Tutto quello che gli uomini non hanno potuto ottenere dagli uomini, lo domandano a Dio. Che concerto di sospir, di desideri, di ardori, di sentimenti in quelle migliaia di anime che il Tre Maggio si adunano ai piedi del gran Crocifisso! Tutte le scale della Chiesa sono popolate di mendicanti che in toni lamentevoli, sommessi, alti, sgraziati strappano l'elemosina ai passanti.Le fiere dei giocattoli armano i ragazzi di trombette e di tamburelli a doppio sfondo o a sonagli per accrescere il frastuono della giornata, mentre mortaretti e scampaniate e bande musicali finiscono con l'assordare le meglio costrutte orecchie. Dei nostri personaggi i primi a comparire con l'aurora che già arrosa le guglie dei campanili e i tetti delle case vediamo i due sposi poveri<. <ninu Sicarru e Bettina, a piedi scalzi; con due ceri accesi e recidando la diciannovesiva posta di rosario. Hanno ascoltato tre messe e hanno la comunione e per adempire il voto fatto l'indomani del matrimonio, hanno percorso undici chilometri, e sì che Bettina è incinta del terzo mese e deve usarsi dei riguardi per la grazia di Dio che aspetta..... E' proprio vero che prima i conigli e poi i Siciliani Dio l'aiuti! Sono poveri e hanno dato qualche centesimo l'uno a due poverelli della scalinata, perchè "strappavano il cuore" diceva Bettina, col contare le loro miserie. Le case vicina sono il ritrovo di cento comari e cento compari che una volta l'anno calano in paese per il pellegrinaggio a affidano alle donne amiche gli ori che si tolgono d'addosso, perchè tra la folla, anche il giorno del Signore, i marioli e i tagliaborse lavoravano, specialmente i palermitani, che sono i più rinomati del mestiere. In gran corteo viene, intanto, l'Arcivescovo in carrozze settecentesche con valletti in livrea di gala e il Senato Municipale. Tutto il paese s'inginocchia al passaggio del Prelato che benedisce sorridendo... e le campane cantano e le bande suonano e la fede ne è esaltata in tutti quei teneri cuori. Al pontificale si va notando tutta la borghesia rurale: cunpari Mircioni, comare Marianna e Tina con tre belle torce quadrate e un gran mazzo di rose di maggio. Dopo qualche minuto arriva compare Vartulu e Narduzzu con un mastodontico cero ornato di spighe di fiori, e a piedi scalzi. Mircioni  e Marianna hanno da chiedere cento grazie al Signore per la loro campagna, per le messi da cui Gesù terrà lontani i malanni, per le acque che Dio le abbondi sempre e per gli animali ch'Egli li prosperi  nella figliatura e anche per Tina, che Dio la benedica se è destinata al santo matrimonio. Tina raccomanda, con occhi su cui tremolano due lagrime di fede, la salute dei suoi genitori - prima lei e poi loro...- e il suo giudizio a Narduzzu se è destinato a unirsi con lei, un giorno o l'altro, con l'anello nuziale e l'acqua benedetta. Cumpari Vartulu, un poco accigliato un poco supplichevole, in piedi, davanti al simulacro, raccomanda alle piaghe di Gesù Cristo quella santa piaga di sua moglie Lucia, che dopo tanti anni di silenzio, a trent'otto anni e all'ottavo mese non sa più farà a dare alla luce quall'altro innocente mariolo che verrà al mondo, che sia meno screanzato e disobbediente di Narduzzu. Narduzzu, in ginocchio, accanto al padre, ignorando i titoli di cui il genitore lo sta gratificando davanti a Dio, Lo prega e riprega insistentemente di farlo uscire una buona volta dai guai, ora che ventidue anni gli son suonati sul groppone, e promette a buon Cristo un cero di un quintale, se dopo messo al mondo l'immente fratello, i suoi santi rinunziano commissionarne un altro e pensano a sposarlo a quella santuzza di Tina che diciannove anni non li deve fare più. I canonici cantano a piena gola in coro l'organo li soverchia con le sue cento canne e la banda nuova calata da un paese vicino, dalla spianata della Chiesa sconcerta con una marcia spampata il concerto corale sacro, e Narduzzu dubita che il buon Gesù fra tanto frastuono arrivi ad ascoltarlo, e si alza che gli bruciano le ginocchia e le piante dei piedi, con rispetto parlando, al gran cammino fatto. Gran tavolate si stendono, intanto, nelle case e all'aperto e quella grande accensione di cuori è innaffiata da abbondante vino di vigna. Le corse dei barberi con i fantini attraggono i paesani, i campagnoli e i cittadini palermitani che traggono in folla, a piedi, su carretti, in carrozze a godersi l'aria e la festa di Monreale. E' l'ora dei palermitani, questa... E nel mite pomeriggio primaverile un signore vestito di nero e una giovane signora salgono silenziosamente le scale della Chiesa: hanno forse loro pure qualche voto da sciogliere o qualche grazia da domandare. Dopo Paolo, infatti viene a promettere al santissimo e miracoloso Crocifisso due messe basse e una cantata, se suo figlio Totò ritorna al focolare domestico pentito delle scappate indecenti che va facendo in città, e Finezza implora a Dio il perdono del suo fallo, l'amore di suo marito che è fra le grinfie di qualche scostumata e il dono della figliolanza. Don Paolo pregando e Finezza rossa scarlatto e verso la fine piange, sorretta dal suocero. Tutti piangono un poco per la festa del tre di maggio a Monreale: a metà pranzo se suonano le campane, specialmente le donne, smettono di mangiare, si dileguano e vanno a piagnucolare in qualche angolo, dove vanno a snidarle i mariti, dopo bevuto il bicchiere che avevano riempito per la moglie. Ora il gran Cristo è in mezzo alla Chiesa fra alte torce accese, le cui fiamme sventolano fumigando. Scene commoventi e scene raccrapriccianti si offrono allo sguardo: mamme che sollevano i bambini fino ai piedi piagati di Gesù perchè il contatto con il legno santo li benedica, vergini che sciolgono i capelli e si stringono come Maddalena un giorno alle gambe di Cristo, delirando di un delirio sacro che ha radici in chissà quali occulti sentimenti, uomini che vengono a seminar di fiori e di foglie il cammino che percorrerà il simulacro. Due uomini a piedi nudi, prostrati sul lordo pavimento della Chiesa, con orrore e raccrapiccio degli astanti strascicano la lingua dalla soglia all'altare e uno di essi sanguna: chissà quali peccati hanno da scontare a fronte di Dio e di fronte agli uomini. Una nota simpatica e caratteristica della festa sono i costumi orientali dei portatori del Crocifisso: piedi nudi, mutande e camicia bianche, una gran fascia a colore alla vita pendente a un fianco e un turbante bianco al capo: sono un'ottantina che hanno il diritto e il dovere di sollevare il gran Simulacro per eredità che si trasmette da padre in figlio e non si cede ad altra famiglia, se non per estinzione dei discendenti diretti. La Fratria e la Compagnia sono pronte coi loro camici, le loro cappe e i loro stendardi. La processione sfila. Precedono quattro rimbombanti tamburi sonati da tamburini incappati alla seicento. Si sondano le confraternite e la chiericia va salmodiando. Le vie, i balconi, le finestre, i tetti sono popolati di gente che aspetta il passaggio. Fiori e fronde sono lanciati sulla processione. Fitta calca di popolo fa ala al corteo; il Simulacro s'avanza piano, solenne fra grida e preghiere:
Grazia, Signore, grazia!
   - E che siamo tutti muti?
   - Grazia, Signore, grazia!
Gli ottanta portatori pigiati alle aste che sollevano il simulacro ammassano il bianco del loro costume, che spicca nello sfondo del gran quadro che si arrossa di migliaia, migliaia e migliaia di luci dei pellegrini che seguono il Crocifisso. Dove strade sono in pendio, il Cristo pare che arda immacolato e intangibile fra una fornace ardente che lo circonda ai fianchi e alle spalle: è una scena indimenticabile. Si notano i pellegrini che sorreggono pesanti, colossali ceri: due attraggono l'attenzione di tutti, per i mastodontici ceri che portano innestati a un cinturone di cuoio: marciano a passo lento e a gambe larghe e quando si vedono impedito il passo dalla calca, fanno segno con una mano, di scostarsi e ci intercalano qualche grosso tarocco: sono i due carrettieri rapinati  che adempiono al voto fatto la sera, che derubati, tornarono a casa più ricchi di quel che dovevano per l'intercessione di Don Giovanni Malizia, che nella contrada di Monreale veniva appena dopo Dio, in autorità e potenza. Vestita a nero, la vecchia madre dell'ucciso Sidoru cercava di calmare la vampa del suo cuore raccomandando a Gesù il suo figliolo e l'uccisore. E quante nerovestite a quella festa! Nella Via Grande del paese la processione s'arrestava per compiere un atto di grande omaggio davanti a un balcone della casa urbana di Don Giovanni Malizia. Tutte le notabilità del paese convenivano ogni anno in quel balcone dove Don Giovanni s'affacciava a capo scoperto in mezzo ai suoi uomini, per inginocchiarsi davanti al Crocifisso Gesù: l'unica autorità a cui doveva rendere conto dei suoi atti, sulla Terra. Alle stremità della ringhiera Brasi e Menico Pancia gettavano sul Crocifisso e sulla folla manate di rose sfogliate e verdi foglie: Menico Pancia aspettava un anno questa data per mostrare a tutto il paese che lui era a casa... Malizia e Brasi che lo sapeva, gli lanciavano occhiate ironiche di cui il ragazzaccio s'insospettiva. Poi si faceva, a quel posto, la volata del Angelo che era un ragazzino calato su alcune corde dall'altro fino a Cristo per gridargli la più ingenua e la più graziosamente balorda serie di strofette, più o meno impappinate. A notte alta si sparano i fuochi artificiali: quest'anno sono ricchi per un abbondante invio di dollari che hanno fatto gli americani del Monrealese. Roccu da New-York e lo Sfregiato da San Francisco non erano stati i più modesti sottoscrittori. In quell'eccezionale ribollimento di fede si ridesta anche l'attività criminale cittadina  e forestiera. Si beve, si canta, si suona, si alterca, si ruba. Si tira anche il coltello per le discussioni animate che hanno bisogno di una più spiccata affermazione. Del resto un pò di sangue cristiano è sprizzato alle corse dei cavalli: non c'è sempre qualche cavallo che dà una sbandata improvvisa a destra o a sinistra, e non c'è sempre qualche imbecille, che per vedere meglio si fa avanti e si busca una zampata alla testa o alle gambe. E i buoni fedeli che durante il pellegrinaggio per le strade raccolgono funeste notizie, raccomandano le vittime al Santissimo Crocifisso: ci pensi Cui! Si fanno retate di malviventi. Si grida e si vende torroni, semi con sale e senzasale, focacce da fare sganasciare i forni delle... bocche e gelati. In una casa di signori vicino alla Chiesa della festa alcuni pellegrini, come al solito, hanno deposto scarpe, calze, cappelli e taluni anche ori prima di accingersi al devoto itinerario: una stanza è gentilmente destinata a questo tramestio. Ma non c'è sempre qualcuna che scambia le sue scarpe con quelle di un'altra? E se l'altra ha i piedi più piccoli, con rispetto parlando? (Bisogna mettere sempre il rispetto quando si parla di piedi in Sicilia). E sul pomeriggio è capitata in quella casa Donna Menica la Strafalaria, una palermitana che ben la conoscono i palòermitani del rione, ma che conoscono i buoni monrealesi. Ha chiesto per favore una sedia: è stanca del pellegrinaggio fatto, narra mirabili dei miracoli del Crocifisso. Le danno da sedere e da bere, per rinfrescarsi. Chiacchera. Piace. Diventa di casa. Aiuta i pellegrini a calzarsi e a scalzarsi. Le affidano la stanza e la pratica. A sera inoltrata, scende un momento in piazza, per comprare una focaccina alla figliola tornerà subito. Ma non torna più. Viceversa quando tornano i pellegrini non trovano più scarpine, velette, spille e catene. Ah! Santissimo Crocifisso! In piazza hanno scroccato un orologio d'oro a un allocco contadino, che guardava lentamente la luminaria del Duomo normanno: l'aveva comprato a rate e aveva pagata appena appena le prime due.
  - Che è. Che non è?
    -  Largo, Largo!
    Trasportano un ferito grave.
    -  E come mai? 
    -  Era ubriaco, ha litigato!
    -  Ha! Santissimo Crocifisso, pensateci Voi!
La processione a mezzanotte è ancora in giro: il Cristo è andato fuori porta a sud, per benedire le campagna nordiche e la luminosa città di Palermo: Ci tengono anche i palermitani: E frotte di gente affolla gli stradli, schioccano le fruste e le voci dei carrettieri e le sonagliere dei pomposi muli tintinnano festosamente. Si sparano i fuochi. Suonano le campane. La banda strepita la marcia finale. Stanchi, sfiniti, allegri, abbattuti, commossi, immalinconiti, brilli, hanno dimenticato per ventiquattr'ore i loro guai domestici, sociali e politici nelle piaghe di Gesù Cristo. E non erano una politica sotto le feste dei Borboni?...
Solo all'alba il paesello si sfolla e si rientra nella calma. Tutti russano o giacciono inerti sotto il piombo del più stanco sonno. Ma gli uccelli del buon Dio che hanno cristianamente e pacificamente riposato la notte, pispigliano ora allegramente a coro. Nel silenzio candido e armoniso, un trotto serrato di cavalli attraversa il paese da Porta Palermo a Porta delle Verghe: è una squadriglia di poliziotti che va alla ricerca di un pericoloso emissario liberale mandato in Sicilia dai Piemontesi. Profittando della baraonda della festa era passata inosservata e si diceva si fosse dileguata verso Giacalone: chi andava a trovare? Se lo prendevano vivo, il Direttore della polizia gli  aveva promesso la forca, se non lo prendevano vivo... si risparmiava la corda:feste e forche erano due delle tre che sintetizzavano il regime borbonico: la farina funzionava più di rado...  



      Giovanni Maria COMANDE'







IL  SOGNO  DI GUGLIELMO II
di Salvatore Autovino







Foto realizzate in occasione della manifestazione culturale "Nel segno di Guglielmo" anno 2011 - Estemporanea di  pittura  in piazza Guglielmo II

   * "IL SOGNO DI GUGLIELMO"  olio su tela





...Preso dal fascino delle maestose costruzioni dell'avo Ruggero, quali la Cappella palatina ed il Duomo di Cefalù, Re Guglielmo II volle emularne la gloria e così continuò i lavori lasciati incompleti dal nonno e dal padre nel Palazzo Reale di Palermo.
...Per continuare le tradizioni della famiglia decise di fondare un complesso monumentale che doveva superare le precedenti simili realizzazioni per la vastità della concezione e la ricchezza dei mezzi. Il Duomo di Monreale fin dall'inizio della sua costruzione destò tanta attenzione e meraviglia per le forme colossali e la sontuosità con cui si ammirava, che subito la leggenda prese il sopravvento sulla storia. Si narra infatti che un giorno la Madonna si sia affacciata dall'alto dei Cieli a contemplare la terra di Sicilia. Lo sguardo della Vergine ne percorse lentamente le contrade cercando l'angolo più bello di questa bella isola. Dopo avere osservato le baie azzurre, i monti erti, brulle vallate, alla fine il suo sguardo si posò su una bella conca verde, chiusa da monti ora coperti di boschi ora rossastre di scabre rocce. Bianca sul lido si estendeva la città di Palermo, cinta di fiumi azzurri, fresca di fontane e di giardini, una via bianca l'attraversava dal mare al monte. Oltre le turrite porte della città la via continuava, piccola, quasi un sentiero; affrontava il monte e saliva, perdendosi nei folti boschi. Dove essa finiva, alto era il silenzio, immensa la quiete. Sulle pendici del monte una terrazza naturale era come una tribuna regale aperta alla vista della conca più bella del creato. La Madonna sorrise e tra sè pensò:Qui sorgerà il mio tempio più bello, qui avrò il mio trono, il cui uguale non esiste in paradiso. Quello stesso giorno l'alta quiete del Monte Caputo fu rotta da un suono di corni, dal calpestìo di molti cavalli, dall'abbaiare dei cani. Il Re Guglielmo con il suo seguito aveva deciso di fare una delle solite battute di caccia. Per ore e ore durò la caccia regia. Il sole era già alto nel cielo, quando il giovane Re, stanco per la fatica, si sdraiò per riparare sotto un frondoso carrubo. Subito cadde in un sonno profondo. la Vergine gli apparve in sogno e proprio lì sul posto dove egli dormiva gli indicò un grande tesoro con il quale egli avrebbe fatto costruire un meraviglioso tempio. Il Re, destatosi, comandò di scavare sul posto dove gli aveva indicato la Madonna. Tra le zolle si vide una abbagliante profusione d'oro. Con quel tesoro fu innalzato un tempio alla Vergine, tale che in nessun altro posto della terra possa rinvenirsene uno uguale. Da secoli sta lì, come uno scrigno tapezzato d'oro, sulla terrazza fiorita che guarda la Conca d'Oro. In esso è racchiusa l'espressione più bella e più compita dell'arte arabo-normanna. 




GIUSEPPE VELASCO - Guglielmo II rinviene il tesoro olio su tela  351x503 
[IL RE RAPPRESENTATO IN PIEDI E CON L'ELMO PIUMATO STA ATTENTAMENTE SEGUENDO LE OPERAZIONI DI SCAVO]






Duomo di Monreale - Re Guglielmo inginocchiato offre il modello del Duomo di Monreale alla Madonna 




GUGLIELMO II 
RE 
SAGGIO E BUONO
a cura di Salvatore Autovino


Figlio di Guglielmo I e di Margherita di Navarra, Guglielmo II nacque a Palermo nell'anno 1154. Fin dalla prima infanzia diede prova delle sue virtù morali e civili che lo resero ben presto amato e stimato da tutti. Tramandano gli storici che i cortigiani non lo lasciavano mai in pace. C'era chi se lo stringeva al petto, chi lo teneva seduto sulle proprie ginocchia, chi lo prendeva per mano e tutti lo accarezzavano e lo coprivano di baci. Per la sua innata dolcezza e per il suo portamento regale, ben presto attrasse su di sè l'amore e il rispetto di tutti. Ad un'indole così felice non mancò corrispondente educazione.
Ebbe come precettore, che lo educò nei costumi e nelle lettere, l'inglese Gualtiero Offamilio, in quel tempo Arcidiacono della Chiesa di Cefalù, uomo colto e probo che con grande zelo si adoperò per educare non solo Guglielmo ma anche i suoi fratelli. Quando egli aveva raggiunto i dodici anni, il padre Guglielmo I il Malo, sentendosi prossimo alla fine, lo nominò erede del Regno sotto la tutela della madre Margherita e dei consiglieri Riccardo Palmieri, allora Vescovo di Siracusa, Matteo Ayello, Notaio, e Petro Gaito.
Morto Guglielmo I nel mese di maggio dell'anno 1166, Margherita, temendo che l'odio che il popolo nutriva nei confronti del marito venisse scaricato sul giovane Guglielmo, nascose per qualche tempo la morte del Re. Ma passati alcuni giorni chiamò a corte i consiglieri e assieme ad essi decise di pubblicare la fine del Sovrano inviso al popolo e contemporaneamente di far acclamare nuovo Re il figlio.
Ben presto il timore della Regina scomparve, perchè il popolo siciliano, sempre fedele, subito perdonò il malgoverno del Re defunto e con grande festa acclamò il successore.
Per tre giorni continui si svolsero i solenni funerali in onore del trapassato monarca, tutti i cittadini si vestirono di nero, le donne e le nobili matrone, avvolte in lugubri mantelle, percorrevano le strade della città piangendo e lamentandosi. Passati i giorni stabiliti per le reali esequie, il Re fu sepolto nella Cappella reale.
Passarono alcuni mesi e il nostro Guglielmo, con grandissima acclamazione dei Vescovi e con l'approvazione universale del popolo, secondo l'usanza, così come i suoi predecessori, fu incoronato nella Cattedrale di Palermo da Romualdo Guarna, Arcivescovo di Salerno. Presa la corona il giovane Re, attraversò le principali strade di Palermo, con il suo cavallo, con solenne pompa e tra due ali di popolo festante. Proprio in quel giorno, si dice, la sua bellezza fisica, nonchè la sua prestanza e il suo portamento reale fecero dimenticare a tutto il popolo l'odio e i rancori nutriti nei confronti del padre e fu ritirato ogni pregiudizio nei riguardi del giovane Re. Ognuno ripose nel giovane sovrano la speranza di un nuovo periodo di pace e serenità.

Ciò che tutti avevano previsto, ben presto, si avverò, perchè con l'ascesa al trono non scemò affatto in Guglielmo la sua natìa benignità. Aumentò in lui la facoltà di concedere la libertà e ben presto fu munifico verso la Chiesa.
La Regina, da parte sua, assecondò il volere del figlio: tutti i prigionieri furono subito liberati e assolti dalle loro pene; gli esiliati e i proscritti del re defunto furono ridonati alla loro patria e ad essi furono riconsegnati i loro beni. Furono richiamati il Conte di Acerra e il conte Ruggero di Avellino, parente del Re e fu richiamato in Sicilia dalla Grecia Ruggero, Duca di Puglia. La città e i castelli sottomessi presto furono liberati e così il popolo, alleviato dalle imposizioni e dai soprusi finora patiti, vide in Guglielmo II il vero liberatore di antiche soverchierie. I feudi confiscati furono restituiti ai propri padroni, fu raddoppiata la paga alle truppe. In poco tempo le cose mutarono in meglio e la Sicilia subito apparve di aspetto diversa e ben presto fu dimenticato il malgoverno del predecessore. 
Guglielmo II, al fine di rendere il suo Regno propizio al Signore, non indugiò  a significare la propria religione inviando degli ambasciatori al Sommo Pontefice, Alessandro III. I legati, secondo l'usanza del tempo, prestarono al Papa il giuramento di fedeltà e di omaggio.
Il Re pio rese ancor più felici i sudditi mettendo la Città di Palermo e tutto il Regno sotto la protezione della santa vergine Rosalia.

Guglielmo II poteva benissimo godere della tranquillità del Suo Regno, ma poichè la pace non è di questo mondo, anche i primi anni del suo governo furono disturbati da guerre. La sua magnanimità lo portò ad aiutare nel 1167 il papa Alessandro III, (il senese Rolando Bandinelli) in quel tempo in lotta con Federico Barbarossa, duca di Svevia. Questi volle attuare in Italia un programma di restaurazione imperiale in quanto rivendicava i suoi diritti di sovranità, ma i Comuni non intendevano rinunziare ai vantaggi già conseguiti e opponevano al sovrano i diritti emergenti da una profonda trasformazione sociale.
Federico I con lo scopo di far conoscere ai Comuni le sue intenzioni e di cingere in Italia le due corone quella regia e quella imperiale discese ben sei volte in Italia. La prima avvenne nel 1154 durante la quale Federico I, cinta la corona ferrea nell'aprile del 1155 a Pavia, mosse alla volta di Roma per ricevere dal papa Adriano IV la corona imperiale.
Le trattative per l'incoronazione furono anche una revisione dei rapporti tra i due poteri e lasciarono nel Papa il presentimento del riacutizzarsi della già annosa tensione: Papato-Impero. 
L'idea teocratica non poteva certo conciliarsi con l'idea imperiale di Federico I; perciò c'era da aspettarsi una serrata lotta tra Impero e Comuni ed era prevedibile il rinnovarsi del conflitto tra Papato e Impero. Il che portava ad una naturale alleanza tra i due avversari di Federico, cioè all'incontro tra i Comuni e il Pontefice. Tralasciando qui di trascrivere le diverse discese di Federico I, in quanto l'argomento distoglierebbe il lettore dal tema principale della narrazione della vita di Guglielmo, ci limiteremo a dire che quanto ai rapporti col Papato, Federico I nel 1160, proprio mentre si trovava sotto Crema, aveva riconosciuto come pontefice il competitore di Alessandro III, cioè Ottaviano di Tuscolo, che fu antipapa col nome di Vittore IV e che, morto nel 1164, ebbe come successore Guido di Crema col nome di Pasquale III. Appunto per sostenere quest'ultimo contro il Papa legittimo, che nel frattempo era tornato a Roma con grandi accoglienze, Federico fece la quarta discesa. Fu proprio in tale occasione che Guglielmo II, per significare la sua fedeltà al legittimo papa Alessandro III, gli inviò in soccorso delle truppe. Durante detta spedizione, i siciliani dapprima assalirono il castello del Conte di Bassavilla che era partigiano dell'Imperatore e un altro castello dove si trovava una buona guarnigione tedesca.
Le truppe di Guglielmo, però, essendo di numero molto inferiore a quelle tedesche furono ben presto costrette ad abbandonare l'assedio e a darsi alla fuga. Molti uomini furono fatti prigionieri e Federico, recuperato il castello del Conte di Bassavilla, occupò Roma e ridusse alle strette il Papa. Sentito ciò il nostro Sovrano normanno per dare ancora una volta al Pontefice prova di fedeltà, gli inviò due ben armate galee e una grande quantità di denaro a sostegno delle spese di guerra. Alessandro III accettò con animo grato il denaro, ma rimandò le navi in Sicilia con Giovanni Cardinale di Napoli e Ubaldo Cardinale di Ostia affinchè questi concertassero con Guglielmo il modo per sostenere la sua dignità contro Federico. Inoltre il Papa distribuì parte del denaro inviatogli ai Signori romani suoi fedeli e travestito assieme a tanti altri Cardinali, di notte, abbandonò Roma e riparò a Benevento, dove i cittadini lo accolsero con grande onorificienza.

Mentre Guglielmo II cercava di adoperarsi per aiutare il Sommo Pontefice, nella sua Reggia, i cortigiani e i diffamatori facevano a gara per tramandare sommosse e congiure. Coloro i quali durante la reggenza di Margherita di Navarra, avevano avuto il comando, facevano del tutto per mantenere il potere per governare a proprio piacimento. Autore e capo di tali sommosse era Gentile, Vescovo di Agrigento, il quale ben presto si alleò con gli arcivescovi Romualdo di salerno, Ruggero di Reggio e Tristano, Vescovo di Mazara.
Questi Prelati, come era consuetudine a quei tempi, ultimati i loro doveri religiosi si intrattenevano nella Reggia, si mettevano al servizio dei Principi e si occupavano delle cose di corte.
...
Guglielmo II, nonostante vivesse in una corte così corrotta, cresceva felicemente in virtù morali. Nè le turbolenze che avevano messo la sua Corte sottosopra furono di ostacolo alla attenta cura della sua educazione. Offamilio, che lo aveva istruito nella prima fanciullezza nelle umane lettere, ben presto lo fece dotto  anche nelle scienze. La Regina diede incarico a Rotorodo, Arcivescovo di Roano, suo zio, di rintracciare qualcuno in Francia, nazione madre feconda e nutrice di uomini di cristiana pietà, che potesse istruire, come degnamente si conveniva ad un Principe, il giovane Guglielmo. L'Arcivescovo di Roano, scelse un certo Pietro, nativo di Blois, città della Francia, e perciò detto Blesese. Pietro, canonico di Chartres, era coltissimo nelle umane lettere ed espertissimo nel diritto canonico. Uomo dotatodi forte memoria ed eruditissimo nelle sacre scritture, non esitò a lasciare la sua patria e a partire alla volta della Sicilia per educare il giovinetto già in chiara fama presso gli stranieri. Guglielmo aveva compiuto quattordici anni, ma ancora era molto giovane per occuparsi dell'Amministrazione del Regno e così l'Eletto di Siracusa e Matteo Notaro benchè avessero la carica di Cancelliere e il governo del Regno, essendo uomini ambiziosi, aspiravano a ben altre mete. Uno infatti ambiva alla carica di Arcivescovo di Palermo, l'altro appena capì di aver perduta ogni speranza di diventare Ammiraglio, anelava ad esser nominato Gran Cancelliere. La Regina margherita accortasi del pericolo che incombeva sulla corte, volle provvedere alla tranquillità del Regno e, tramite una lettera segreta, chiese all'Arcivescovo di Roano che le mandasse in aiuto qualcuno dei suoi parenti di Francia, Roberto Nymburgese o Stefano, figli del Conte Percese, affinchè uno dei due potesse sedare eventuali sommosse.
L'Arcivescovo di Roano a Roberto antepose Stefano, come giovane di bell'aspetto, di animo buono e d'alto ingegno. Per assecondare il volere della Regina, Stefano partì dalla Francia verso la Sicilia accompagnato da trentasei persone. la Regina, al suo arrivo, volle che gli andassero incontro a riceverlo i Vescovi, i Capitani e i soldati per accompagnarlo alla Reggia. Qui fu accolto con tutti gli onori e Margherita senza indugio, davanti a tutti, lo nominò Gran Cancelliere e comandò a tutti che prestassero obbedienza.
Stefano subito capì l'indole delle persone con cui aveva a che fare, l'incostanza della Regina e le trappole dei cortigiani e già pensava di far ritorno in Francia. la Regina però lo supplicò di rimanere ed egli a malincuore prese le redini del governo. intanto a corte Pietro Blesese che come si è anzidetto, era venuto per educare ed istruire il giovane Guglielmo, ben presto si attirò la stima della Regina e del giovane Re. Da parte sua il Blesese era felice di avere un così intelligente discepolo perchè Guglielmo era di docile indole, buono, educato e diligente. A loro volta, sia Margherita che Guglielmo, lo presero così a cuore che ben presto, non solo lo aggregarono al regale Consiglio, ma addirittura gli facevano scrivere le lettere in nome del Re. Subito i cortigiani incominciarono ad invidiarlo e cercarono di allontanarlo dalla Corte con il pretesto di farlo eleggere Arcivescovo di Napoli. Il Blesese rifiutò tale dignità che fu conferita poi ad un certo Sergio, cittadino di quella città, che si era molto adoperato, e ciò era a tutti noto, per opere svolte in favore della Chiesa. Intanto il giovane Guglielmo si impegnava con tanta diligenza nello studio della Religione e delle lettere e praticava, come si conveniva ad ogni principe in quel tempo, lo sport della caccia. Non mancavano certo nelle vicinanze di Palermo luoghi idonei a praticare tale esercizio e soprattutto ve ne era uno, assai dilettevole, fornito di ogni tipo di alberi, nel quale facilmente si potevano rinvenire conigli, caprioli e cinghiali, Nel mezzo di sì bel bosco esisteva una splendida villa e una freschissima sorgente. Detto luogo di caccia era comunemente indicato Parco Vecchio ed era nato per volere del vecchio Re Ruggero.
In seguito il luogo dove scorreva la sorgente fu chiamato Altofonte. Qui la corte reale veniva spesso ad esercitare la caccia, ma il luogo che il giovane Guglielmo amava di più frequentare era una villa distante dalla Reggia, ad occidente, non più di quattro miglia. Detta villa era situata su di una collina la quale anche se adiacente ad un monte aspro, l'attuale monte Caputo, aveva una lussureggiante vegetazione. Nell'ameno luogo si trovavano piante di ogni genere, frondosi carrubbi e meravigliosi giardini. Da qui si poteva godere del bellissimo panorama sottostante: quello della famosa Conca d'Oro, ricoperta di ubertosi giardini di aranci e di limoni. Questo posto incantevole, anche per la salubrità dell'aria, era la meta gradita dei sovrani normanni ed in particolar modo di Guglielmo. Per tale motivo spesso il popolo indicò quel luogo con il nome di Monte regale che in seguito diventò Monreale.
Ma mentre il nostro giovane sovrano era intento ai suoi studi, a corte non mancavano dissapori e intrighi di ogni genere. La Regina infatti per trattenere Stefano in Sicilia fece in modo da farlo nominare dai canonici della Chiesa di palermo Arcivescovo della Città.
...
Il tempo così passava tra un avvenimento e l'altro. Guglielmo era già arrivato all'età di diciassette anni. Era l'anno 1171 quando Pietro Blesese, il maestro che aveva istruito nelle umane lettere il giovane Re, uscito da una convalescenza, decise di lasciare l'Isola perchè tanto odio e tanto orrore aveva della Sicilia per gli avvenimenti di Stefano Perticese. 
...
Era già l'anno 1172 e il giovane Re, uscito dalla tutela della madre, incominciò a governare da solo. Le lettere e i diplomi reali che fino ad ora avevano portato i nomi di Guglielmo e di Margherita, cominciarono ad avere un nome solo: quello di Guglielmo.
Rimossa così la Regina dalla tutela del figlio e dall'Amministrazione del regno, l'arcivescovo Gualtiero Offamilio si arrogò tanto potere e fece crescere tanto la sua autorità che agli occhi di tutti sembrò lui essere il Re.
...Il tempo intanto passava e si approssimava per il giovane Re l'età del matrimonio. Il parentado cercava tra i principali sovrani del mondo una principessa degna di un così bel giovane che già aveva compiuto diciannove anni. Di comune accordo si era orientati a dare in sposa al giovane sovrano la figlia dell'Imperatore della Grecia. Lo stesso Guglielmo inviò a Costantinopoli Bartolomeo Offamilio ed altri ambasciatori per concordare le nozze. Comneno promise con giuramento sopra la sua fede che avrebbe dato in sposa la propri figlia al Sovrano normanno e questi da parte sua giurò che l'avrebbe ricevuto per consorte. arrivato il tempo stabilito, Guglielmo II insieme ad Enrico suo fratello, Principe di Capua, all'Arcivescovo Gualtiero Offamilio e Matteo Notaro, partì alla volta di Taranto, dove si era convenuto che la sposa sarebbe arrivata. Qui tutti aspettarono per una intera giornata pensando che la nave portasse ritardo, ma poichè la sposa no arrivava si intuì subito che il Comneno aveva cambiato parere. Nessuno riuscì a capire il motivo della decisione dell'imperatore di Costantinopoli. Si pensò che il Comneno non avesse dato in moglie la propria figlia a Guglielmo per motivi di religione essendo differente il rito cristiano da quello ortodosso. Ci fu chi invece attribuì il ripensamento al motivo che l'imperatore greco in quel tempo conduceva una infelice lotta contro i turchi e ne aveva subìto una dura sconfitta.
Dopa avere aspettato invano, Guglielmo con i suoi decise di ritornare in Sicilia. Durante il viaggio di ritorno, nei pressi di Benevento, il fratello del giovane Re, Enrico appena tredicenne, si ammalò. Guglielmo pensò di farlo arrivare al più presto possibile in Sicilia pensando che l'aria natìa potesse ristabilirlo, ma le condizioni di Enrico andavano peggiorando ogni giorno di più, finchè morì a Salerno il giorno 19 giugno del 1173.
...
Intanto il tempo passava e al nostro Guglielmo non mancò certo di doversi occupare sia delle cose del suo Regno che di venire in aiuto ora di questo ora di quel Sovrano di Stati diversi.
...Preso dal fascino delle maestose costruzioni dell'avo Ruggero, quali la Cappella palatina ed il Duomo di Cefalù volle emularne la gloria e così continuò i lavori lasciati incompleti dal nonno e dal padre nel Palazzo Reale di Palermo.
...ma come si è detto, predilegeva Monreale. 







GIUSEPPE SCIORTINO
Giuseppe Sciortino ( Monreale 10/08/1900 – Roma 18/03/1971), critico d’arte, poeta, scrittore, giornalista, sin da giovane coltivò le sue passioni artistiche e letterarie. A partire dal 1921 intrattenne stimolanti rapporti  con la rivista palermitana “Simun” e dette alle stampe la sua prima raccolta di versi, “Finestre”, ed. Ant. Trimarchi (Palermo).
Il giovane intellettuale siciliano richiamò su di sé l’attenzione della cultura nazionale più aperta al nuovo (fra gli altri Prezzolini e Tilgher) per il volume “L’epoca della critica”, apparso nelle Edizioni Piero Gobetti (Torino 1924): “un inventario scrupoloso del lavoro critico del nostro tempo” – così lo definì Luca Pignato su “L’Ora” dell’ 11-12 aprile 1924.
Sul piano nazionale ha iniziato la sua attività nel 1925, come capogruppo in Sicilia degli aderenti ai gruppi di “Rivoluzione liberale”, la rivista gobettiana divenuta “uno tra i pochi momenti di resistenza morale” (Sciortino, 1950).
Nel 1926, presso l’editore Piero Gobetti in Torino, pubblicò  “L’epoca della critica”, il cui successo fu determinato da articoli di Prezzolini – Vinciguerra ecc.
Nel 1927, sempre con Gobetti in Torino, pubblicò una breve raccolta di liriche “Ventura”; nel 1928 (e nel 1934 in seconda edizione presso la Casa Editrice Remo Sandron Milano – Palermo) le “Esperienze antidannunziane”, un atto di accusa (contro certa letteratura estetizzante e criccaiola), che ebbe l’alto consenso di Benedetto Croce e la veemente disapprovazione di Curzio Malaparte.
Dopo una monografia sul pittore Pippo Rizzo, nel 1928 – lo Sciortino ormai vigilato politico per antifascismo –  cessò da ogni vera e propria attività di scrittore per fare il direttore letterario delle edizioni scolastiche della Sandron. In tale periodo parecchi testi scolastici vengono da lui compilati e da altri firmati, salvo una “Grammatica Italiana”, giunta alla quarta edizione, una scelta di novelle di Capuana e un manuale di cultura generale per i Corsi di Avviamento, più volte ristampati, che portavano il suo nome.
E’ del 1932 la pubblicazione di “Liriche e miti” (ED. del Ciclope – Palermo). Nel 1936, per sollecitazione dell’amico Nino Savarese, pubblicò una nuova raccolta di liriche “Altro viaggio”, con prefazione di Alfredo Gargiulo (ed. Emiliano degli Orfini, Genova), che servì ai nemici di Gargiulo da pretesto per attaccare il grande critico, che non si rassegnava a limitare il proprio interesse all’ermetismo ungarettiano o di altri. I tempi costringevano Sciortino a interrompere l’attività pubblicistica. Il giovane intellettuale trovò riparo – come direttore letterario- nella casa editrice Sandron, per la quale approntò svariati testi scolastici dei quali solo qualcuno recherà in copertina il suo nome.
Nel 1943-44 riprende, tra altre difficoltà, l’attività di scrittore con una sorta di diario, lungo i nove mesi dell’occupazione tedesca di Roma: in sostanza un colloquio tenero e doloroso con il figlio Sergio rimasto nell’isola, ricco di amare riflessioni e struggenti annotazioni. “Tale mia operetta venne fuori in una collana dove fu pubblicato un altro diario di guerra di Nino Savarese, uno di Carlo Bernari e dove avrebbe dovuto apparire  “Compagno scrittore” di Vasco Pratolini: una collana, quindi, di una certa ambizione e al di sopra delle parti, come allora era ancora possibile” (Sciortino 1970). L’operetta uscì con il titolo “Figlio in Sicilia” nel 1945 per le edizioni Sandron di Roma. Una successiva edizione – integrata con una seconda parte (elzeviri e note di colore dati ai giornali tra il 1947 e il 1951) e con un “Post-scriptum” (dattiloscritto tra Fiuggi, Gaeta e Roma nel 1970) – vedrà la luce postuma, nel 1972, per l’editore Trevi di Roma, per volontà della Signora Posabella. Tra il 1947 e il 1952 l’attività pubblicista di Sciortino trovò sbocco nelle collaborazioni a diversi quotidiani. Mai dismessa, comunque, la militanza critica, accompagnata da interventi non occasionali; come uno studio sulla pittura di Ferdinando Troso (Ed. Pinci – Roma1950), un saggio su “Il paesaggio di Ceracchini” (Ed. del vantaggio – Roma 1954). Dal 1952 al 1964 tenne la rubrica della critica d’arte su “La fiera letteraria”. Con Vincenzo Cardarelli ebbe intensa frequentazione. La svolta impressa al giornale da Diego Fabbri, Giancarlo Vigorelli e Leone Piccioni portò – non senza clamorose polemiche – alla improvvisa, imprevedibile conclusione del rapporto di collaborazione del noto critico d’arte siciliano con l’importante giornale culturale. Gli articoli più significativi Sciortino stesso selezionò e raccolse in “Crepuscolo dell’Astrattismo” (Ed. del Vantaggio – Roma 1964). Via del Vantaggio a Roma si trova non lontano da Piazza del Popolo, tra via del corso e la Passeggiata di Ripetta. Qui, nel cuore di Roma, tra botteghe di artigiani, studi di artisti, sale espositive, librerie e qualche “hostaria”, la prestigiosa Galleria del Vantaggio era il luogo d’incontro preferito da artisti e intellettuali, sia italiani che stranieri, già affermati o esordienti, tutti a cercare da Sciortino consensi, consigli, analisi, valutazioni e, perché no, borbottii.
Di questa Galleria Sciortino fu direttore artistico dal 1954, dal 1956 curò alcuni “Quaderni d’arte”; e poi ne prese il nome per la rivista che fondò e diresse dal 1967 avendo collaboratori Rafael Alberti, Vito Apuleo, Rosario Assunto, Renzo Biasion, Vittorio Bodini, Vincenzo Ciardo, R.M. De Angelis, Tommaso Fiore, Mino Maccari, Santo Mazzarino, Domenico Purificato, Giuseppe Santonastaso. La rivista uscì ancora dopo la morte di Sciortino. E a Sciortino, per iniziativa della Signora N. Posabella, furono intitolati premi nazionali: di pittura nel 1972, di poesia nel 1973, per racconti nel 1974. La città di Monreale istituì la civica galleria d’arte moderna che intitolò a Giuseppe Sciortino e la aprì al pubblico nel 1986.


PARTE PRIMA

"IL FIGLIO IN SICILIA"

(1943)



…Codesta mia operetta – quasi un diario – riflette gli stati d’animo di uno dei tanti che la guerra aveva rinchiuso per circa nove mesi in Roma come in una prigione: custodi d’una durezza allucinante, i tedeschi, che difendevano senza più speranza un loro sogno egemonico, e un pugno di ragazzi italiani che avevano indossato all’ultimo momento le divise della milizia fascista come una disperata àncora di salvezza in quel tornado che aveva tutti investiti, innocenti e colpevoli. La fede non c’era, c’era la paura; e l’illusione che una pistola o un fucile bastassero per fugarla. (Noi che non cedemmo, possiamo ora dirlo con coscienza).

…Nel mio libretto, uscito quando su Roma era da poco scomparso l’incubo della morte, si avvertiva, dunque, sia pure con un certo disordine, il bisogno di ricostruire una vita nella quale potessero coesistere ogni ideale e il suo opposto, non come soluzione qualunquista ma come persuasione che – sul piano della storia – Dio e il diavolo, l’essere e il non essere, il morale e l’immorale, ecc. fossero parte di un tutto inscindibile….

Sono, figlio mio caro, un italiano precocemente invecchiato, come tanti altri: forse molti.
Il 25 luglio di quest’anno (1943) – tu leggerai in qualche parte la data – fu come uno specchio postomi, di sorpresa,   davanti: e ci trovai le rughe e i capelli bianchi. Dico, in senso proprio e in senso figurato. Ed ero chiamato a riguardare la vita come uno spazio aperto, senza più sbarre, e libero, e con gli occhi di tanti anni prima, che ahi! non eran più quelli.

Com’ero vissuto?  Immagina una maschera a teatro (si dice così ancora, mentre tu leggi?): uno di quei poveri servitori in livrea che girano tra i fra delle poltrone, che aprono i palchi. Ma immaginalo, ti prego, senza livrea. Solo questo segno esterno della servitù mi è stato risparmiato. E intorno a questa povera maschera un gran movimento, e strascichi, e uniformi, e lo spettacolo che non lo interessa.
Lo spettacolo festoso. Così è stato, sino all’ultimo giorno. Spettatori che applaudiscono. Una claque che dà il segno. Poveri servitori compiono ingrati servizi.

Ma è una vita anche il non vivere. Una rassegnazione anche il patire, per sé e per tutti, sembra già un’abitudine, e si sa che sino alla morte, forse, o almeno per molto tempo non ci sarà altro.
Il 25 luglio mi liberò da questa condizione. L’incendio aveva distrutto lo spettacolo, perché aveva incenerito il teatro: l’Italia. L’orribile guerra. L’inevitabile disfatta. E tutto da rifare.
Tutto da rifare? Avanti, dunque, scamiciati, è la vostra ora. Caricare pietre, spingere carrelli, scavare solchi. La speranza scende come un fascio di sole da uno squarcio. C’è una stagione per seminare. Ce ne sarà una per raccogliere.

Fu un’estate torrida. Falchi d’acciaio passavano per il cielo. La guerra doveva continuare. Il lavoro non poteva essere iniziato. Perché? Non sapevo. Non sapevamo. E a un tratto, un enorme silenzio, un’interrogazione tremenda. E’ finita? Non abbiamo avuto il tempo di capirlo. Io, almeno, non l’ho capito. Ti racconterò che cosa ho visto. Parlerò io o parlerà un ritaglio di cronaca come mi avverrà di fermarla.
Molte cose non hanno senso, di quelle che dirò. Ma qualche cosa sì. Forse è per questo che scrivo: Che ti scrivo.
Tu che forse leggerai, o intenderai, soltanto quando sarai adulto (ecco un forse doppiamente allusivo), potrai comprendere – nella lontananza della prospettiva – ciò di cui qui è testimonianza in un certo senso simbolica (anche se occasionale); potrai comprendere, dico, le riflessioni e le digressioni, indici d’una ribellione ad onta di tutto, o necessità d’un destino affermate con una voce che viene dal buio: una voce, direi, disumana, per il raggiunto vertice d’umanità.
Tu che forse leggerai….
Scrivo. Scriverò ancora. Non so fino a quando. Dei giorni? Dei mesi? Degli anni? Una breve lettera, un testamento senza firma, un lungo diario?
E tu leggerai? Come, quando, dove?
Penso che questo nostro incontro potrebbe avvenire lungo le rive dello Stige, potrebbe essere un colloquio di ombre.
E’ senza dolore che penso a ciò. Bisogna fare tutti i conti col destino: l’esistenza è un rischio.
Potrà più dolcemente, questa lettera, giungerti come chiusa in una bottiglia: pochi fogli, simili a quelli che i naufraghi affidano ai posteri.
Tu stesso non sei che un postero, fin d'ora. Questa cronaca, che è mia e del mio tempo, ti giungerà come uno sbiadito documento da decifrare insieme con altri, per la storia che tu  ne farai e che sarà la storia della tua generazione. Qualcuno dei tuoi compagni di scuola dai capelli arruffati - che ora ti siede vicino nel banco, che hai visto fino a qualche giorno fa correre nell'atrio con la cartella brandita come da lanciare - ti sarà accanto pensoso, e mescolerà il suo dramma al tuo, confronterà le sue impressioni con le tue. Il passato starà aperto come un album di vecchie fotografie un pò ridicole e tuttavia suggestive...mio padre, mio fratello...Un'istantanea in Africa, quest'altra in Albania... 
Forse, invisibile, io starò dietro a voi!
Che cosa ho visto?

8 Settembre
Ero sulla porta dell'albergo, a Firenze...d'improvviso, voci, rapido incalzare di voci, molte persone si fermano a gruppi...La pace! Applausi, agitazione...Una folla. La notizia è giunta con la radio. Comincio a capire. Credo che vogliano mettersi in giro, chiedono bandiere...
Così si è svolta la scena. Una bandiera è apparsa. Qualcuno l'ha fatta ritirare. Qualcuno, dunque, ha capito che questa era la festa della disfatta?
Su quel brusio senza senso è calata la notte.
ero solo. Sai che cosa è la solitudine?
Aiuta a capire la disfatta.

Tu sei in Sicilia: non ho da tre mesi tue notizie, ignoro se sei sopravvissuto.
Che avverrà ora? Saprò?

9 Settembre
........Così siamo arrivati a Roma, città senza abitanti. Il treno fischia nella silenziosa solitudine.
....Dopo lunga incertezza ho deciso di non tentare il viaggio per il Sud. Non sarebbe stato facile, ma rischioso e difficile.
...Si potrebbe tuttavia giungere al piccolo figlio, rivederlo, stare con lui, come se questa tragedia, in cui sono stato chiamato a far parte di un coro lamentoso, non esistesse.

12 Settembre
...Gli amici mi chiedono:- E ora? - Risponderò che è l'ora di fuggire, di tornare ai dolci giardini della Conca d'Oro, di chiudersi nel nulla dell'esistenza individuale per consumare il frutto in sapore, per distogliersi nell'oro tremante del paesaggio che ci fu caro un tempo?
Io resterò qui, uno tra i pochi, uno tra i molti, per rischiare qualche cosa con essi e per essi, anche inutilmente. Sento il mio cuore legato col filo del sangue al destino comune.

1944
30 Gennaio
Strana prigione. carcerieri e carcerati formiamo, in apparenza, un curioso miscuglio. ma dagli atteggiamenti, e più dagli sguardi, s'intende che il distacco è netto.
C'è chi prova soltanto un risentimento che si esaurisce nel parlare e nel gesticolare che ostentano l'assenza di paura; c'è chi, invece respira in clima d'odio concreto e si affida alla congiura e al sabotaggio. Ecco un mostro sotto un enorme tallone, spasimoso di mordere, di colpire, di liberarsi. Il sospetto tende i nervi fino a farli dolorare; le vittime non fanno che soffiare nel fuoco che cova. L'angoscia degli animi, lo strazio della carne, le lacrime delle donne e dei bambini non contano. la vita umana è in ribasso. Questo è il carcere della pura follia.
Tu che sei rimato fuori della muraglia, là dove ancora un pò d'aria si respira, forse non potrai a pieno comprendere questa mia tragedia, quando domani leggerai, se leggerai.
Essa, figlio, ci ha tutti investiti: uomini e cose. Poichè anche le cose subiscono la distruzione: muoiono, si disfanno. E, tra le macerie, i lupi. Si sentono nella notte. 
Mi sveglio smarrito. dove sei tu? Ti chiamo con voce soffocata. E non sono più solo.

...

5 marzo – A Palermo o a Caltanissetta.
Non ti rivedo da quasi un anno, non ho tue notizie da otto mesi. L’ultimo tuo salutino lo ebbi  da Caltanissetta in data 3 luglio dello scorso anno. Mi promettevi un letterone che non è più giunto. Povero piccolo, addirittura un etterone!...
Mi dicono che il 9 luglio dello scorso anno Caltanissetta avrebbe subìto un massiccio bombardamento >; la popolazione sarebbe fuggita parte verso il Monte del Redentore, parte a valle verso la campagna. I fuggitivi sarebbero stati mitragliati.
Tu eri là. Ti sarai salvato? C’era, come avrebbe voluto, il mio amore a difenderti? Dov’eri? In casa, fuori o a scuola?
I bombardamenti non ti spaventavano. E’ coraggioso- soleva dire la mia mamma.
Mi ascolti? Sei vivo?
E’ da nove mesi – da nove interminabili mesi – che mi ripeto il tremendo interrogativo. E nessuna risposta è possibile. L’odio degli uomini arriva a queste assurdità.

…. 18 marzo – Un’incursione nemica ha colpito oggi il quartiere Nomentano.
Tornato a casa, ho trovato le schegge dei vetri frantumati sparse dappertutto.
Al telefono la voce irriconoscibile di un caro ma stonatissimo amico. Intuisco. Vedo la sua faccia stravolta.
-La mia casa è crollata.
- E i tuoi?
- Tutti salvi. Si trovano fuori.
-Ringrazia Iddio.
- Ma ho perduto tutto.
- Beh!
- Vuoi venire ad aiutarmi per salvare qualche cosa?
- Figurati!
Le macerie parevano calde come ceneri recenti. Scavare con le mani dava fatica e pena . Pareva di dover  affondare le unghie in una carne straziata. Ogni soffio nostro sembrava accompagnato da gemiti di vittime seppellite.
Eravamo soli. Ma di tanto in tanto s’affacciava come strisciando un sciacallo.
Le sole squadre di soccorso visibili sono le bande dei saccheggiatori.
Cominciarono ad affluire i superstiti. Guardavano in giro. Cercavano le rovine. Qualcuno. Qualche cosa. Ecco una donna e un bimbo, appoggiati a un muro mezzo diroccato. Infinitamente tristi. Sì, anche il bambino è triste. L’ho accarezzato.
….
19 marzo - Misantropo per temperamento, avverto ora un insolito bisogno di vedere amici, di parlare con qualcuno come se le parole fossero, nel circolo della congiura, una forza capace di cambiare qualche cosa.
Sono stato sempre un irrequieto dall’apparenza pacifica. La vita, che avrei dovuto scrivere o vivere, l’ho in parte scritta e in parte vissuta: e il mi tormento è consistito in questa indecisione.
Ora mi pare che la carta non possa essere il campo di un destino, neppure se irrisoluto come il mio. Anche il giornale clandestino mi sembra sedentario. Cerco il pericolo come l’aria aperta.
G., uomo semplice e forte, mi trova scuro in faccia, e come sopraffatto. Parla di tiepidezza di fede. Anche la fede è un luogo comune. I disperati sono quelli che più violentemente sperano. Talvolta la disperazione brucia e si consuma nel fumo d’una sigaretta. Nulla da fare. In ogni luogo incontri un carceriere vigilie. Ogni atto imprudente ti piomba nel buio dell’inesistenza. E domani? E la speranza?
Non riesco a lavorare. Mi metto a leggere; ma non presto attenzione a quel che leggo. Le parole sono senza significato, i nessi  si disfanno: sulla pagina si muovono segni che non diventano voci: segni che non hanno senso: Forse è stato sempre un gioco – un terribile gioco metafisico – lo sforzo di voler dare ai segni un preciso significato; un gioco che raggiunge il suo limite assurdo nella musica. Nella musica che arriva alla sua assolutezza, quando non ha più senso umano.
25 marzo – … Ora so che questa piccola cronaca personale si colloca tra Via Rasella e le Fosse Ardeatine. Si passa su un campo di battaglia senza saperlo, come avvenne a un personaggio di Sthendal.
La storia sarà fatta di posteri. I martiri lasciano sempre il presente per testimoniare innanzi a un mondo futuro. E così tu, figlio mio, saprai meglio di me, non solo come si sono svolti i fatti sul cui confine io sono passato, queste tragedie la cui vampa ha lambito il nostro cuore, mentre investiva e inceneriva qualcuno dei nostri compagni più coraggiosi, ma intenderai meglio il valore del loro sacrificio, se i morti saranno riusciti a riscattare  i nostri errori, a tramandarti una parola di vita.
Noi restiamo a vivere, a sopravvivere, in questa speranza.
28 marzo – Mi sembra – potrai pensare quando leggerai  e intenderai – che mio padre abbia drammatizzato  eccessivamente il quadro.
E’ proprio vero. Non si fa un dramma con un solo personaggio o con due. La tragedia è spezzata in monologhi, come il mio. Una tempesta in un bicchiere d’acqua. Ma questo è appunto la disfatta. Non v’è più la collettività. Vi sono degli individui. La congiura è lo sforzo di costituire questa la collettività, di uscire dalla solitudine. Uno sforzo che la morte insidia, che il pericolo, eccitando l’istinto di conservazione, continuamente contrasta.
Il dramma si svolge nel singolo ma è nazionale.
Per tutto il resto, esso è piccola cosa. La fame con cento grammi di pane immangiabile; il tedio delle giornate infinite, verso il sole che spazia  fuori, in pochi metri quadrati; un’incursione che lascia quasi tutto intatto. Piccole cose. Penso alle tue impressioni di bimbo, alle rovine di Palermo, agli immensi boati che aprono crateri dappertutto. Qualche povera figura folle tra le macerie, come l’ombra di un corpo sotto la luna. Dalle macerie si leva il lezzo dei cadaveri. Ovunque la scritta:Zona infetta
L’ultima volta che fummo insieme volesti esser condotto a vedere i poverelli che si erano rifugiati nella galleria tra Monreale e Boccadifalco, sotto il monte Caputo, e nelle grotte intorno, a vivere una vita trogloditica . Spettacolo orrendo! Lì dentro si nasceva e si moriva, senza assistenza alcuna nell’un caso e nell’altro. Gli animi esacerbati, i nervi scossi, la denutrizione provocavano fra gli abitanti di quell’orribile budello litigi e risse; e il sangue a volte scorreva, senza che nessuno intervenisse. Usciva dalla galleria un tanfo di putrefazione. …Qui, invece, nulla di quell’orrore. Si fanno feste di beneficienza, lussuose, per i profughi. Sottoscrizioni …La tragedia ha un aspetto di cuccagna . Roma…
Hai ragione . Non bisogna drammatizzare. Bisogna ricordarsi che c’è sempre un po’ di carnevale mescolato con la tragedia.
29 marzo- (Vorrei sapere: hai ripreso a studiare – non sei in quarta? – e ti prepari per entrare al primo anno di scuola media? Fra pochi mesi, dunque, comincerai il latino? Ci sarà allora papà, vicino a te, ad aiutarti in quei primi passi? Vedi che il tuo papà, vicino a te, ad aiutarti in quei primi passi? Vedi che il tuo papà pensa a queste cose, e quasi non gli importa nulla del resto?)
…30 marzo – Fa un anno. Ancora non era giorno. Dormivi nel mio stesso letto. Ero pronto per partire. Eravamo nella nostra casa di campagna, a Monreale. Mi pungeva il rammarico, ora più vivo, di non poterti condurre con me a Roma, che –almeno allora- offriva una certa sicurezza dalle incursioni aeree. Per vederti, contro il parere di molti amici, non avevo esitato ad affrontare il viaggio da Roma, che – almeno allora – offriva una certa sicurezza dalle incursioni aeree.
Per vederti, contro il parere di molti amici, non avevo esitato ad affrontare il viaggio da Roma, a Palermo, subendo due mitragliamenti dopo Napoli, con morti e feriti tra i passeggeri (un marinaio, colpito alla testa, si era accasciato in silenzio accanto a me).
…(Quando un giorno riapparirò, ombra o persona, all’improvviso dal fondo della trazzera, chiamerò come sempre: Mamma!E tu mi verrai incontro. La prima parola che dirò, la prima cosa che ti chiederò, sarà: Sergio?! Tu, mamma, ne sono certo, tu mi risponderai: E’ vivo: Il Signore lo ha salvato. E sorriderai, come tu sola sai sorridere. Allora ti abbraccerò forte, forte; e piangeremo insieme di gioia).
10 maggio – Il cielo è annuvolato. Il rombo del cannone sembra un tuono che annunzi la tempesta. Le rondini spaurite (perché son venute fin qui?) stridono, stridono incessanti.
Le nubi salgono: ondate pigre di fumo: l’aria è calda, pesante.
E’ il cannone.
Tutti vogliono udirlo. <E’ il cannone>. Tutti vogliono avvicinare il destino che scioglierà il nodo dell’attesa. Le rondini stridono; non volano, fuggono, verso dove?
15 maggio – Ho ricevuto una lettera che porta la data del 22 luglio 1943, da Palermo.  Il portinaio mi ha detto ch è stata lasciata da un signore non molto giovane, piuttosto distinto.
L’amico che mi scrive, dice cose che mi hanno profondamente turbato.  Ascoltalo, dunque.
         Mio carissimo amico, sono andato a casa tua. E’ stata una bella passeggiata: ma sai che quasi mi smarrivo in quei viottoli che seguono i limiti erbosi dei giardini?
Tua madre è stata molto gentile; alcuni tuoi parenti anche,
…lassù della guerra, sotto la rocca verde e pittoresca di Monreale, non è giunta che l’eco.
Lì ho avuto notizie del tuo bambino che è a Caltanissetta, ma le notizie non sono recenti. La guerra ha rotto tutti i collegamenti.
…Passerà del tempo, forse molti mesi, prima che tu possa venire a palermo, che da due giorni è in festa.
Fra poco la Sicilia sarà tutta libera. Ed è festante perché si crede libera, non occupata. La parola circola in tutti i ceti, e solo poco persone la intendono nel senso ch’essa voglia dir libertà. Tu capisci che c’è grande differenza tra queste due espressioni… I vecchi ceti politici hanno delle idee che per il momento non guastano l’entusiasmo della grande massa e dei giovani. La massa pensa che è cominciata una nuova era, e i giovani la incoraggiano in questa fede, facendo pernio su… Saroyan. Tu sai che ci sono da noi molti americani, cioè molti siciliani tornati dall’America. Essi credono che l’America si sia allargata fino alla Sicilia, e che ormai si tratti di fare un mondo immenso, il mondo dell’uomo libero, il mondo dell’America, dove le nazionalità sono quartieri, da cui si può uscire con una tranvia. I vecchi politici rispolverano i libri di storia, dove gli Inglesi hanno una parte importante, nel 1812 e nel1860, ma il popolo di queste cose non sa nulla. Si tratta di ben altro.
A ogni modo- e non è senza pena per me, e non sarà senza pena per te- la Sicilia si sente come staccata, proprio recisa, dall’Italia. L’impressione ha la sua maggiore radice nell’isolamento in cui si è venuta a trovare da qualche tempo, e che ora è assoluto. Ma non è tutto. L’improvvisa fuga dei gerarchi e la dissoluzione del regime hanno qui prodotto come la sensazione di un vuoto politico, di un vuoto assoluto, come se nessuna forma di vita nazionale, di vincolo nazionale, potesse sopravvivere.
Tu conosci Tinin G. ? Egli mi diceva, con l’ingenuità dei suoi vent’anni e della sua letteratura che va da Dos Passos a calwell, che la Sicilia è la prima terra d’europa che brucia nel rogo del suo sole il mito della nazionalità che dal principio dello scorso secolo a oggi ha svenato gli uomini con periodicità implacabile.
Tutto ciò passerà? Spero di sì, e presto. Mi sento di una generazione che porta tanto passato nel cuore da non potere neanche affrontare l’immaginazione di un futuro che lo neghi così radicalmente. Ecco come una festa di tutti può diventare un dramma per uno dei tutti. E speriamo che sia soltanto un dramma, senza catastrofe. Ti abbraccio,
L. N.

10 maggio – Si ode il cannone, sempre più vicino. Una voce cupa. Siamo alla fine. E c’è un gran sole sulla primavera che indora tutto. Anche i morti laggiù si scaldano a questo sole, poveri morti!
Mio piccolo, ci rivedremo presto?
Sarà tutto finito per te e per me? Ma sarà tutto finito? E la morte finirà di far sentire questa voce cupa, implacabile?

28 maggio – Ora tutto il cielo è un cupo rombo, che si frantuma nei mitragliamenti. La battaglia è senza pause. Intorno alla città, gli aerei bombardano, spezzonano, scendono sulle strade.
29 maggio – (notte) – Che avverrà?
Lunghi boati squarciano la terra. Scoppiano mine. Il fiume della morte rompe tutte le dighe. Invaderà anche Roma?
La notte è piena di lampi. Il grande e nero fiume romba.
3 giugno – La battaglia è finita. I tedeschi, sconfitti, caricano i loro camions e fuggono. S’odono scoppi, su una tela di sospeso silenzio.
Poi un brutale crepitìo di mitraglia. E di nuovo, esplosioni.
5 giugno – Sono arrivati.
Una gran voce sale dalle strade sino ai campanili, sale al cielo, ridiscende come un’immensa luce.
La pace sarà così?
6 giugno – Roma è in festa. La gente sciama come se fosse giunta, inattesa, in gennaio, la primavera. I soldati, alleati sono in folla sui marciapiedi: disarmati, fidenti.
In un ristorante mi si presenta un quadro inatteso: due americani sono seduti a una tavola con un bimbo di nove anni, un bimbo macilento e concioso. Lo hanno collocato al posto di onore; gli sorridono, gli avvicinano il piatto. Il bimbo è incredibilmente serio, direi triste. Forse non capisce. Stringe nelle due mani qualche cosa, della cioccolata o del denaro, e non riesce a far passare tutto nella sinistra.
Il popolo italiano, come quello di tutte le contrade d’Europa, s’affaccia all’avvenire con quel bimbo affamato e che non si decide a mangiare, lo sguardo aggrottato, come se pensasse a qualche cosa di oscuro. I due americani che, invece di star come gli altri soldati a sorridere le prime parole d’intesa con le donne di Roma, hanno cercato quel taciturno e dolente commensale, forse non intendono il valore simbolico del loro gesto. E’ una carità insignificante, benché cristiana e commovente, o è un programma di vita del mondo riscattato, che scaturisce, esente di calcolo, dalla profondità del dolore, in cerca della verità umana?
Fra vent’anni…, Sergio mio, tu lo saprai.
Il dopoguerra – destinato, purtroppo, a durare oltre il prevedibile, con un’orchestra imponente di disparatissime sofferenze – ha riservato anche a chi lavora le delizie di quest’altra miseria (in alcuni paesi stranieri, senza dubbio, sarà una cosa diversa; ma in casa nostra il fenomeno è un aspetto della sconfitta): niente modesta ma confortevole tavola imbandita, niente tranquillo mangiare e gradevole conversare; il pasto,  ridotto alla soddisfazione di un bisogno animale.

Come il vero amore nasce dopo il possesso, così la vera vita, sino a tempo fa, si manifestava dopo il mangiare; l’interessante non era ciò che l’uomo faceva per mangiare,  ma ciò che pensava dopo aver soddisfatto la fame. E adesso, una volta mangiato, l’uomo non fa che pensare a come poter mangiare di nuovo.  

(GIUSEPPE SCIORTINO)


 












Da “Profilo di Sciortino” di Ferruccio Ulivi



Giuseppe Sciortino…personaggio più complesso che quello, ordinariamente inteso, del così detto intenditore d’arte.
….prevalente resta, il senso di controllo seriamente esercitato, di onesta distinzione che Sciortino sentiva di fare fra i dettami, legittimi o meno, della moda culturale, e i propri convincimenti.
L’impressione è ch’egli reagisse in ciascun ordine di cose a ogni limitazione di libertà. Detestava le mode per la coazione che esercitano. Disamava i raggruppamenti. Esisteva in lui…un aspetto, un motivo che si legava al versante costruttivo della sua fisionomia: quello partecipe – all’opposizione, - del travaglio morale, civile, politico della nostra società durante gli anni dell’instaurazione fascista.
In prima fila fra gli aderenti , già nel lontano 1925, ai gruppi di “Rivoluzione liberale”…
Si trattava non soltanto di gusto ma di una metodologia mentale, critica e, direi, squisitamente civile, su cui il gusto, con le sue scelte magari innovative, doveva modellarsi.
..Le pagine del “Il figlio in Sicilia” erano una testimonianza stringata, cocente, di un’esperienza di guerra subita nella retrovia romana, dov’era stato colto, con l’animo, anzi il cuore rivolto alla propria terra lontana, nell’attesa della liberazione; di cui peraltro non si nascondeva i problemi che avrebbero avuto luogo per fondare una nuova società civile.
“La primavera e la guerra s’incontrano nel buio cuore” annotava. E ancora, con sofferta efficacia: “Non riesco a lavorare. Mi metto a leggere; ma non presto attenzione a quel che leggo. Le parole sono senza significato, i nessi si disfanno: sulla pagina si muovono segni che non diventano voci; segni che non hanno senso: Forse è stato sempre un gioco – un terribile gioco metafisico – lo sforzo di voler dare ai segni un preciso significato; un gioco che raggiunge il suo limite assurdo nella musica. Nella musica che arriva alla sua assolutezza, quando non ha più senso umano”. Poche parole riescono tanto incisive nella nostra letteratura di dolente retrovia (viene da pensare ad alcune pagine del Tecchi di “Un’estate in campagna”) come queste, o come certe annotazioni taglienti, a caldo, sui responsabili della guerra; oppure, con probabile, forse involontaria memoria di pagine crociane, sulla impossibilità di conciliare l’immagine dell’aberrazione hitleriana, accanto a quella della limpida umana cultura goethiana. In quei giorni, gli veniva costante il pensiero “di fuggire, di tornare ai dolci giardini della Conca d’Oro”, “per distogliersi nell’oro tremante del paesaggio”. Ma è qui, al centro del dramma, che si sente “legato col filo del sangue al destino comune”. Né meno responsabili altre notazioni, dopo l’atroce periodo bellico, sull’impegno che incombe collettivamente e sugli individui.









Maria Rita Fedele 



L'INDIFFERENZIATO

NUOVA SFIDA DELLA BIOETICA

PROFILI DI UNA FILOSOFIA DELLA DIFFERENZA SESSUALE


Maria Rita Fedele è dottore di ricerca in Pedagogia e didattica in prospettiva interculturale presso il Dipartimento FIERI-AGLAIA dell'Università degli Studi di Palermo, bioeticista presso la Scuola di Specializzazione in Bioetica e Sessuologia dell'Università Pontificia Salesiana di Roma, docente di ruolo di Filosofia e storia nei licei e autrice di saggi e articoli in riviste specializzate.

Il volume presenta la riflessione su una nuova sfida della bioetica del nostro tempo: il riconoscimento del valore ontologico ed etico del corpo sessuato. L'analisi del tema prende spunto dal fatto che le nuove sperimentazioni biotecnologiche lasciano intravedere un lento e progressivo oscurarsi del valore della differenza sessuale, nella misura in cui svincolano la procreazione dalle sue intrinseche dinamiche naturali, mettendo in discussione l'aspetto umano del generare, originariamente legato alla differenza sessuale e all'ontologia relazionale del maschile e del femminile. Si propone, quindi, un'analisi introduttiva del tema alla luce dei modelli sociali e culturali che lo caratterizzano, con particolare riferimento critico alle istanze culturali del femminismo postmoderno, che ha determinato una vera e propria metamorfosi della soggettività umana sempre più proiettata verso l'asessuato e l'indifferenziato. Successivamente, l'indagine ontologica sul corpo sessuato si muove lungo i profili di una filosofia  di stile fenomenologico in senso husserliano capace metodologicamente di cogliere la differenza sessuale a partire dalla struttura eidetica invariante e universale del corpo, cifra eloquente della sua originaria configurazione esistenziale. Nell'ultima parte del testo ci si propone di sottolineare infine le implicazioni bioetiche delle nuove sperimentazioni biotecnologiche applicate alla procreazione umana, che prefigurano gli inquietanti scenari di un'eclissi della genitorialità biologica.




Prefazione 
di Luciano Sesta


                                                        
Chi si occupa di bioetica, non può che salutare con interesse l’impresa rappresentata dal presente volume. Già, perché di un’impresa si tratta, vista l’ampiezza, il respiro teorico e il rigore metodologico dell’indagine di Maria Rita Fedele, che ha saputo trattare il delicato e spinoso problema della differenza sessuale con una competenza distribuita su più livelli, da quello medico-scientifico a quello antropologico, da quello bio-etico a quello più spiccatamente filosofico.
Il tema della differenza sessuale, in effetti, è uno di quei temi “trappola” che mentre lasciano credere di essere specifici e circoscritti, abbracciano in realtà tutte le grandi questioni antropologiche ed etiche che impegnano la filosofia, almeno sin da Platone. Maria Rita Fedele, con il suo libro, non si è sottratta a questa sfida, trasformandola in un’opportunità radicale, e cioè quella di ripensare, tramite un confronto serrato con alcune delle più significative posizioni del dibattito contemporaneo, il carattere ontologico, e non soltanto biologico o somatico, della differenza sessuale. L’idea guida dell’intero volume, infatti, è che maschio e femmina non siano due determinazioni “accidentali” di un generico “essere umano” che, dietro e al di là della differenza di genere, conserverebbe la sua sostanziale (e invincibile) neutralità. Quest’ultima ipotesi, secondo alcuni, sarebbe l’unica a garantire l’uguaglianza di uomo e donna in termini di dignità ontologica, evitando che la differenza sessuale risulti talmente radicale da mettere a rischio la sostanziale identità antropologica che rimane intatta dietro la differenza di genere. L’Autrice, ricorrendo a un’originale rilettura del metodo fenomenologico husserliano, cerca invece di “sorprendere” la differenza sessuale nel cuore stesso della persona umana e di riconoscerla come la struttura eidetica del corpo (e dunque come un suo dato invariante e universale) le cui connotazioni maschili e femminili non sono “successive” all’essere persona, ma cifra eloquente della sua originaria configurazione esistenziale.
Non è possibile, qui, seguire puntualmente le singole tappe di un percorso estremamente ricco e articolato, che si snoda su un quadruplice piano, e cioè quello medico-scientifico, fenomenologico, ontologico ed etico. A voler indovinare l’asse portante di questo percorso, mi sia consentito evidenziare almeno il seguente punto: le argomentazioni di Maria Rita Fedele, che non lascia nulla di intentato, soprattutto nel confronto critico con le posizioni “rivali”, si raccolgono tutte intorno all’idea che per accedere al genuino significato della differenza sessuale occorra uno sguardo fenomenologicamente istruito. Si tratta, in altri termini, di prendere sul serio “ciò che appare, così come appare”, facendo di questo apparire non già il punto di partenza di una ricerca di ciò che è, ma il primo e più genuino affacciarsi di ciò che è. A un’ontologia della differenza fra uomo e donna, in altri termini, si giunge prendendo sul serio il fenomeno biologico della differenza sessuale, evitando di farne un accidente empirico di una soggettività neutra, che si rapporterebbe al proprio corpo così come ci si rapporta a un abito di cui si è rivestiti. Mediante una riabilitazione fenomenologica della corporeità sessuata, nel testo si propone dunque di leggere la mascolinità e la femminilità nei termini di una complementarità non fra “sessi”, né fra “corpi”, e nemmeno fra “persone”, ma fra un “uomo” e una “donna”. “Uomo” e “donna”, è questa la tesi di Maria Rita Fedele, sono entità ultime, “sostanze” di cui si può predicare qualcosa – per scomodare Aristotele – ma che non sono a loro volta predicabili di altro, per il semplice motivo che “uomo” e “donna” non sono “qualcosa”, ma “qualcuno”.
L’Autrice procede poi a valutare il carattere strutturale universale del corpo sessuato nell’ambito dell’esperienza familiare e in rapporto alle nuove biotecnologie riproduttive, che sembra abbiano alterato i tradizionali schemi del nostro immaginario collettivo in merito al significato di “famiglia”, costringendoci a confrontarci con altri modelli familiari che ci interpellano prepotentemente in merito all’autocomprensione di noi stessi, in un’epoca, come la nostra, in cui il significato di “famiglia” perde la sua originaria evidenza divenendo una realtà problematica del nostro tempo. La riflessione sulla famiglia appare perciò irrinunciabile, agli occhi dell’Autrice, a motivo del suo carattere paradigmatico e, si potrebbe dire, persino normativo, da cui derivano i legami della genitorialità e della filiazione, che non sono concepibili al di fuori di quella realtà biologico-corporea in cui essi stessi pure s’incarnano. Ogni essere umano, uomo e donna, è sempre figlio. È dunque sempre polo di una relazione che rimonta a ciò di cui egli non dispone, l’evento procreativo, che è a sua volta esso stesso una relazione, quella fra l’uomo e la donna che, unendosi, generano la nuova vita. La madre, si obietterà, può oggi però fare a meno di un uomo/padre nel processo generativo. In che misura dunque la relazione procreativa uomo-donna può essere considerata ancora normativa?  La risposta di Maria Rita Fedele, che trovo convincente, consiste nel dimostrare che la possibilità dell’individualismo procreativo non cancella la differenza sessuale, dandoci piuttosto un’occasione per riscoprirne, oltre alla dimensione biologica, anche la dimensione etica. Proprio perché oggi, diversamente da ieri, non è più scontato che a procreare siano un padre e una madre, cominciamo ad avvertire che la relazione fra uomo e donna non è più (solo) un destino biologico ma sempre anche una scelta morale e, dunque, un’assunzione di responsabilità. Non c’è ontologia della differenza sessuale che non passi attraverso un’etica della differenza sessuale, in cui la bontà di questa differenza appaia, in carne e ossa, nella testimonianza di coloro che ne manifestano, oltre le incomprensioni e i sempre possibili fallimenti, anche la solida armonia.
A quest’ultimo riguardo non si può negare che nel libro l’Autrice abbia raccolto una seconda grande sfida, che è quella del concetto classico di “natura umana”. La categoria, com’è risaputo per chi si occupa di bioetica, non gode oggi di buona stampa. Soprattutto in un contesto che tende a considerarla, sempre di più, come una base biologica neutra, a partire dalla quale lasciare libero corso alla creatività culturale. È in quest’ottica che, com’è noto, si pongono il post-umanesimo, il pensiero cyborg e il trans-umanesimo. Assumendo l’idea che l’uomo è un essere culturale per natura, si ritiene che la sua stessa umanità cresca nella misura in cui si allontana dalla natura, emancipandosi da ogni criterio di giudizio che faccia riferimento al “naturale”. L’essere maschio e l’esser femmina, in sintonia con l’opera profetica di Simone de Beauvoir, appaiono perciò solo come un dato iniziale suscettibile di una libera assunzione, in cui però la differenza sessuale non può in alcun modo costituire un’indicazione del percorso esistenziale che, a partire da essa, ciascuno si assumerà la responsabilità di realizzare. In tal senso, soprattutto se si pensa a fenomeni con il trans-gender, il trans-umanesimo e il cyborg, si potrebbe parafrasare – e radicalizzare – la celebre sentenza della Beauvoir, dicendo che non soltanto “donna (o uomo)”, ma anche “femmina (o maschio) non si nasce, ma si diventa”.
Di fronte a questa sfida, la strategia teorica seguita dalla Fedele, per dirla con Nietzsche, è di usare il corpo come “filo conduttore”. La categoria della corporeità ha in effetti il merito di intercettare le più rilevanti questioni bioetiche, specialmente in casi come quello oggetto di questo libro. Lì dove però la corporeità è considerata non come una parte integrante della persona umana, ma come una sorta di strumento espressivo a disposizione delle esigenze di una qualche res cogitans separata, il risultato è un nuovo dualismo. Un dualismo di cui in letteratura si ama rievocare la matrice cartesiana, ma che, a ben vedere, nasconde ancora qualcosa di aristotelico, e che, di conseguenza, sembra ospitare il principio del proprio possibile superamento. Nel tentativo di plasmare il corpo a immagine e somiglianza dei propri progetti esistenziali, infatti, si annuncia una nuova versione della concezione aristotelica dell’anima forma corporis, ma in senso tecnico e non più metafisico, nel senso cioè di una psiche “pigra”, che non vuole adattarsi al corpo ma che chiede al corpo di adattarsi a sé (vedi il fenomeno del trans-sessualismo o del cambiamento di sesso). Ma anche in questo ridimensionamento psico-tecnico del rapporto fra anima e corpo riemerge l’aspetto classico: il rifiuto psicologico del proprio corpo, infatti, è forse anche sintomo dell’eccedenza dell’anima sul corpo: solo perché ha ragione Aristotele, e cioè solo perché “l’anima è in un certo modo tutte le cose”, “un” corpo “le sta stretto”.
Qual è allora la via di soluzione? Uomo e donna sono res cogitans al cospetto di una materia indifferente che prenderà la forma che essi, come pure “persone”, sceglieranno di imprimerle? La risposta della Fedele è che soltanto prendendo sul serio ciò che siamo senza averlo deciso, e dunque soltanto ponendoci in ascolto della nostra natura sessuata, potremmo avviare un progetto esistenziale che ci mantenga “in amicizia con noi stessi e con l’altro”. Una risposta, questa, che oggi rischia forse di apparire ingenua, ma di cui questo libro fornisce una tale gamma di supporti argomentativi, da renderla degna di attenzione per chiunque voglia interrogarsi criticamente sul “futuro della natura umana”. 
  
                                                                                               Luciano Sesta
                                                                                          Docente di Bioetica
                                                                                          Università di Palermo




Introduzione                                       

Il volume propone la lettura di un tema che è divenuto oggetto di attenzione solo recentemente nell’ambito della letteratura scientifica della bioetica e, giungendo tardi alla coscienza dei contemporanei, si presenta, pur nella sua complessità, come una delle questioni portanti del nostro tempo. Si tratta della differenza sessuale, che qui viene studiata  a partire dall’analisi dei modelli interpretativi sociali e culturali, che la caratterizzano, ma soprattutto nell’ambito dei nuovi orizzonti dischiusi dal rapido avanzamento delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni tecnologiche relativamente alla biologia riproduttiva.
Le nuove possibilità procreative introdotte dalle biotecnologie riproduttive lasciano intravedere un lento e progressivo oscurarsi del valore ontologico ed etico della differenza sessuale, nella misura in cui svincolano la procreazione dalle sue intrinseche dinamiche naturali, mettendo in discussione l’aspetto umano del generare, originariamente legato alla differenza sessuale e all’ontologia relazionale del maschile e del femminile.
Ora, la natura sessuata del corpo risponde innanzitutto –ma non solo- ad un finalismo biologico che tutela la specie umana: segna nei corpi due differenze sessuate e ne determina il legame. In questo senso, se da un lato l’ampliamento delle conoscenze scientifiche ha reso possibile diversi interventi utili e migliorativi nell’ambito della biologia riproduttiva, sia a livello diagnostico che terapeutico, dall’altro lato ha aperto scenari inquietanti, ponendo quella che possiamo considerare la domanda originaria: tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche moralmente lecito?
L’ultima sfida nell’ambito della biologia riproduttiva è posta, infatti, da alcune recenti sperimentazioni condotte a scopi terapeutici (cura dell’infertilità maschile o femminile) che potrebbero consentire di ottenere con successo cellule germinali primordiali e gameti aploidi (spermatozoi e ovuli) da cellule staminali sia embrionali che di altra origine. Tali sperimentazioni annunciano delle novità probabilmente promettenti per la scienza medica, nella misura in cui riescono a dare una risposta concreta ai problemi d’infertilità maschile e femminile, ma sicuramente discutibili sotto il profilo bioetico. Infatti, esse potrebbero essere applicate oltre gli scopi strettamente terapeutici dell’infertilità, realizzando, in un futuro che non appare poi tanto lontano, la possibilità per la donna di mettere al mondo un figlio esclusivamente da sola senza il contributo genetico dell’uomo, attraverso le cellule germinali maschili prodotte da cellule staminali del proprio midollo osseo e i propri ovuli.
Questa sfida impone di guardare al futuro della natura umana, allo statuto etico del corpo sessuato, dato che il genere umano sembra andare incontro ad una configurazione neutra o, per meglio dire, indifferenziata, tendente ad astrarre dalla dimensione concreta e biogeneticamente determinata della persona umana sessuata.
L’avanzamento biotecnologico ha delle profonde implicazioni in merito al corpo e alla tutela della sua natura, che, dunque, non possono essere trascurate nella misura in cui il potere tecnologico, disponendo di cellule germinali a scopi sperimentali, incide sul bios, sulla presa in gestione della vita riproduttiva, rendendo possibile una procreazione svincolata dalla sessualità e dall’ontologia relazionale della differenza sessuale. Per tali ragioni, la proposta del tema si muove sia nell’ambito di una bioetica fondamentale della differenza sessuale che nell’orizzonte di una pedagogia della persona umana sessuata.
La bioetica, nel riconoscere il valore della differenza sessuale, deve, innanzitutto, superare l’unilateralità di due riduzionismi, da una parte il biologismo e dall’altra il culturalismo, che se assolutizzati non colgono la complessità e il valore della sessualità umana: il riduzionismo biologico lega, infatti, la differenza sessuale esclusivamente a fattori di carattere biologico, il riduzionismo culturale nega la differenza sessuale sul piano di un’ontologia dell’essere umano e la riconduce semplicemente a fattori di carattere culturale e storico. L’analisi descrittiva del fenomeno, di cui è questione in questo lavoro, si sofferma, pertanto, su un dato ontologico originario indisponibile, che inerisce costitutivamente all’essere umano: la differenza sessuale.
Dato a se stesso come corpo che non si è scelto, consegnato ad una situazione determinata, che è già il suo spazio geografico e la sua epoca storica, ciascuno vive e s’interpreta a partire da questa “porzione” di mondo già dato. In altri termini, l’essere nel mondo non è originariamente scelto dal soggetto; il suo progetto esistenziale non dipende da lui nella sua interezza e sfugge, per certi versi, nei suoi fondamenti, sfocando in un orizzonte che rende impossibile un “assoluto cominciamento”. In ciò consiste, per ricorrere alla filosofia esistenziale di Essere e Tempo, l’esser-gettato (Geworfenheit) nel mondo o, in altri termini, l’effettività dell’esser-rimesso ad una situazione iniziale, che è segno della finitezza costitutiva dell’umano[1].
Pur tuttavia, l’esistenza della persona, nel suo essere incarnata “in” e “da” un corpo si dispiega per ciascuno come un divenire che restituisce alla dimensione ontologica universale dell’essere corpo - cioè al nostro essere differenziati in maschi e femmine- la consistenza di un’esperienza singolare, unica ed irripetibile, ma a cominciare appunto da quel corpo che si è già. Siamo consegnati, sin dall’inizio, ad un corpo sessuato che non abbiamo scelto e che segna i limiti ontologici dell’umano e ne determina, come appena detto, il carattere della finitezza.
La scelta metodologica che è alla base del presente lavoro consiste, quindi, nel provare a delineare alcuni elementi di base per un’ontologia della differenza sessuale, un’ontologia adatta al nostro tempo, nella convinzione che la differenza tra il maschile e il femminile non sia riducibile alle dimensioni biologiche, in quanto riguarda soggetti, vissuti, relazioni ed esperienze umane, ma nemmeno, dall’altra parte, sia pensabile a prescindere dalla dimensione corporea che ci fa essere al mondo come corpo, cioè come soggetti sessuati nella differenza.
Siamo però consapevoli del fatto che la domanda ontologica, che si pone nel presente lavoro, non sia in sintonia con i caratteri prevalenti del nostro tempo, caratterizzato piuttosto dall’istanza della indefinibilità dell’essere così come annunciata dalla filosofia heideggeriana, per la quale ogni questione che conduce al problema ontologico appare a tanti ormai superata. “Ontologia” è il termine adeguato per denotare ciò che si riferisce all’essere categoriale di realtà cioè all’essenza o alla natura propria dell’esistente.
Nella tradizione filosofica dell’Occidente, come è noto, è termine corrente; “ontologico”, infatti, è detto di ciò che si riferisce ai caratteri fondamentali dell’essere, a quelle determinazioni necessarie  che ogni essere ha e non può non avere per essere ciò che è. Se si fa riferimento ad alcune posizioni teoretiche del femminismo contemporaneo postmoderno, si può rilevare che la differenza sessuale non è affrontata come una “questione ontologica”, perché l’ontologia sottolinerebbe la caduta in un “essenzialismo dei generi” fortemente discriminante per le donne. Secondo questa prospettiva di lettura della differenza sessuale, l’individuazione di un’essenza del maschile e del femminile implicherebbe un esclusivo riferimento alla componente biologica, che destina le donne al corpo e, dunque, a compiti meramente riproduttivi.
Il femminismo postmoderno evidenzia, però, a mio modo di vedere, dei limiti costitutivi e fondazionali nell’analisi della questione: nel tentare un approccio che possa decostruire l’unico processo responsabile delle discriminazioni di genere, cioè la costruzione culturale e storica della differenza sessuale, finisce con l’escludere l’incidenza che ha il corpo nella determinazione della differenza stessa tra uomo e donna. Il rischio che si configura nell’ambito di tale prospettiva di analisi è quello di far sparire la differenza ontologica tra i due sessi, una differenza che si trova inscritta nella natura sessuata del corpo cioè in quelle determinazioni essenziali dell’essere maschio e dell’essere femmina.
Nel capitolo terzo, l’indagine fenomenologica, finalizzata alla fondazione ontologica della differenza sessuale, viene condotta attraverso un’antropologia filosofica che si ispira alla filosofia di Edmund Husserl. In tal senso, la fenomenologia husserliana sembra offrire numerosi spunti dal punto di vista metodologico, non per il fatto che tale tema risulti attenzionato da Husserl, pensatore estraneo al discorso filosofico sulla differenza sessuale, o che abbia trovato una specifica trattazione nell’ambito della sua produzione scientifica, ma in ragione del fatto che la fenomenologia husserliana, come già acutamente nota Heidegger in Essere e Tempo, è un’ontologia. In altre parole, «l’ontologia è possibile soltanto come fenomenologia»[2]. Il concetto husserliano di fenomeno rimanda, però, all’automanifestazione dell’essere dell’ente, per lo sguardo educato dall’esercizio dell’epoché fenomenologica.
Partire, dunque, da un’ontologia della differenza sessuale appare fondamentale ai fini della determinazione dei limiti della liceità delle applicazioni biotecnologiche al corpo umano e alla vita riproduttiva: senza il riconoscimento dello statuto ontologico e etico del corpo sessuato si sarebbe portati a ritenere legittime tutte le tipologie di intervento biotecnologico sul corpo nell’ambito della procreazione umana. La nostra epoca, segnata dai progressi della scienza e della tecnica, si avvia, infatti, verso il futuro dell’uomo bionico, del post-umano, del Cyborg, dell’asessuato.
Sono queste le ragioni che spingono la nostra riflessione a prendere in seria considerazione il problema ontologico della differenza sessuale, per poter affrontare le nuove sfide bioetiche nel tempo della postmodernità. Un approccio fenomenologico è, pertanto, un approccio eidetico alla differenza sessuale  perché intende la struttura invariante del fenomeno «corpo», cioè la natura sessuata del corpo e fonda la differenza sessuale come differenza ontologica.
Il corpo umano presenta delle proprietà strutturali invarianti che hanno portata ontologica e che sono proprietà necessarie in grado di valere come proprietà costitutive e non accidentali dell’essere donna e dell’essere uomo. Nel linguaggio della fenomenologia, in una prospettiva nuova rispetto all’idealismo platonico, le proprietà essenziali e costitutive dell’essere sono definite essenze cioè proprietà che appartengono alla realtà tale che, senza di esse, questa non potrebbe sussistere come quella realtà determinata che essa  è.
Ora,  la scienza eidetica del corpo sessuato, così come viene prospettata nel capitolo terzo, rimanda al corpo come oggetto privilegiato di studio e di riflessione e ci consente di riconoscere nel corpo sessuato la struttura originaria invariante che pre-definisce la nostra esistenza e che si mostra con evidenza originaria ad una intuizione eidetica o, come si potrebbe anche denotarla, una visualizzazione dell’essenza.
In questo senso, l’analisi eidetica, condotta secondo lo stile fenomenologico husserliano, offre la possibilità di riconoscere una grammatica universale del corpo, che trova fondamento in una ontologia della differenza sessuale, in quanto ci descrive strutturalmente che cos’è il corpo sessuato: ciò che accomuna sul piano universale le donne fra di loro e gli uomini fra di loro,  consentendoci di differenziarli e di poterne definire i lineamenti di una fenomenologia della differenza.
Trattare la differenza sessuale come un dato strutturale del corpo significa poter individuare quell’invarianza ontologica che si dà come carattere permanente, astorico e transculturale che accomuna le donne in generale distinguendole dagli uomini in generale. Anche a chi non è disposto a riconoscere la differenza sessuale come una differenza originaria costitutiva del genere e volesse interpretare il dimorfismo sessuale come un prodotto culturale  e storico, è impossibile non  riconoscere con evidenza che esiste un dato ontologico ultimo, non ulteriormente questionabile, che differenzia il femminile dal maschile e che si manifesta, nella maniera più irriducibile nel corpo; senza il riconoscimento di questo dato si occulterebbe la dimensione esistenziale unica e irripetibile con cui ciascuno di noi si ritrova ad essere nel mondo.
Lo stile fenomenologico con cui si avvia l’analisi eidetica del corpo rimanda contestualmente ad un nuovo modo di fare ontologia della differenza sessuale, potremmo dire che rimanda ad una ontologia fenomenologica, diversa nella sostanza dalla ontologia classica, che, coglie nel dato invariante ed universale l’essenza costitutiva di un oggetto o di una cosa, rimanendo legata al piano dell’invarianza sostanziale[3].
Il riferimento all’ontologia fenomenologica husserliana appare significativo in quanto ci consente, a differenza dello stile dell’ontologia classica, di tenere dialetticamente insieme l’universale o l’invariante e il particolare, cioè il mutevole, riconoscendo, in chiave fenomenologica, la declinazione esistenziale della differenza sessuale. L’approccio e lo stile di pensiero che la fenomenologia husserliana adopera nello studio dei fenomeni consiste, infatti, nel ritenere che essi, lungi dall’essere mere apparenze, «portano all’esistenza e alla luce cose nuove rispetto ai costituenti di base, di cui pure ogni cosa è fatta» e così «ogni persona è una cosa nuova rispetto all’organismo umano che la costituisce» [4].
Il maschile e il femminile, allora, solo apparentemente costituiscono l’oggetto di una semplice definizione, poiché la differenza sessuale, in quanto differenza che riguarda l’umano tout court,  non si presta del tutto ad essere definita secondo le categorie dell’ontologia classica, interessata più a rispondere alla domanda del «che cos’è» piuttosto che alla domanda personale del «chi è». La differenza sessuale rimanda, infatti, ai significati che ogni persona attribuisce alla propria esperienza di corpo sessuato secondo modalità esistenziali uniche, singolari e irripetibili.
Il riconoscimento di questa complessità della questione non equivale però ad affermare l’inconsistenza ontologica della differenza sessuale, ma si tratta di assumere un dato che sfugge per certi versi alla dicibilità categoriale tipica della ontologia classica, in ragione del fatto che ciò che si vive come corporeità è sempre legato inevitabilmente ai propri vissuti e, dunque, alla propria irriducibile singolarità.
Possiamo allora dire che la differenza sessuale è sempre declinabile, in modo personale, nei suoi contenuti, ma non nella sua forma, ed è, perciò, espressione del diverso modo di essere al mondo come corpo. Parafrasando il linguaggio husserliano, la differenza sessuale è declinabile nei suoi riempimenti di significato in modo diverso da donna a donna, da uomo ad uomo e fra uomo e donna. Il rimando al corpo, però, ci consente di riconoscere quella struttura eidetica originaria della differenza, l’eidos corporeo nella quale trova espressione ogni individualità maschile o femminile che si determina a partire da quel dato, ma che si riempie di significati nelle sue declinazioni esistenziali. Un approccio “ontologico” alla differenza sessuale condotto secondo lo stile fenomenologico husserliano ci consente di tenere insieme l’universalità dell’essenza e la singolarità dell’esistenza e, allo stesso tempo, di richiamare quel dato ontologico ultimo ed indisponibile, inscritto nel corpo, al mondo della Lebenswelt, il mondo dei vissuti soggettivi, che non è mai ontologicamente dato e, comunque, sempre presupposto. I tratti di questa nuova ontologia conducono, quindi, al discorso sui fondamenti della differenza sessuale di fronte alla sfida della postmodernità, che è rappresentata dall’indifferenziato sessuale.
In questo percorso di analisi descrittiva del fenomeno, l’istanza costitutiva della ricerca consiste in una critica del modello paradigmatico della differenza sessuale elaborato dal femminismo della postmodernità, in cui natura e cultura vengono ripensate, ma senza che la prima possa costituire più una risorsa per la seconda[5].
Nell’ambito di questa linea interpretativa della differenza sessuale si colloca la figura emblematica di Simone De Beauvoir, per la quale il dato biologico corporeo non ha in sé e per sé un significato e un valore, in ragione della sua presunta tesi per cui i confini tra uomo e donna non sono naturali e, dunque, biologico-anatomici, ma il prodotto ultimo di una costruzione culturale e sociale.
Ora, poiché la nostra indagine fenomenologica è finalizzata innanzitutto alla fondazione ontologica della differenza sessuale, si è resa necessaria, nel capitolo secondo, una riflessione di “prima istanza” in cui si apre un fecondo dialogo con le scienze biomediche sia per i contributi scientifici che esse offrono allo studio del fenomeno che per la complessità stessa del nostro tema, oggetto di studio. Il bisogno di una riflessione sull’argomento può essere, infatti, soddisfatto attraverso un approccio che metta a confronto, integrandoli, i diversi ambiti disciplinari –biologico, biomedico, storico, etico-filosofico, psico-pedagogico- evitando, in tal modo, che la differenza sessuale possa essere considerata l’oggetto di un esclusivo ambito di sapere.
L’incontro con le scienze biomediche è apparso soddisfacente e produttivo, poiché ha consentito di rilevarne una notevole portata conoscitiva: il riconoscimento di una verità biologica e/o fisiologica della differenza sessuale, che ci informa della natura sessuata del corpo. Le acquisizioni scientifiche, che ci provengono dagli studi biomedici relative allo sviluppo sessuale consentono, infatti, di constatare come sia presente una concatenazione di fenomeni biologici molto complessi che strutturano il corpo, dotandolo di un’identità sessuata. Le scienze biomediche portano, dunque, ad evidenza che la differenza sessuale è radicata nel corporeo, nel bagaglio biologico, oltreché antropologico della persona.
Per una fenomenologia della differenza sessuale è, però, fondamentale aprire un’ulteriore domanda di senso su questo dimorfismo sessuale, poiché la riflessione di “prima istanza” presenta dei limiti e delle insufficienze dovute al fatto che le stesse scienze biomediche sono incapaci di intendere la differenza sessuale in un più vasto orizzonte metascientifico.
Nel terzo capitolo, è stato necessario, per tali ragioni, delineare i tratti fondamentali di una riflessione di “seconda istanza”, la riflessione fenomenologica in senso proprio e adeguato, che accoglie dalle scienze biomediche il dato biologico della differenza sessuale, ma ne affida la domanda di senso ad un’antropologia filosofica di stile fenomenologico. Tale riflessione procede oltre quell’ovvietà biologica cui le scienze biomediche restano legate, riducendo la differenza sessuale agli scopi ultimi del finalismo biologico riproduttivo, e ci restituisce squarci di profondità intorno a ciò che per le scienze biomediche rimane alla superficie. In questo orizzonte metascientifico della ricerca di senso, il corpo sessuato mostra il segno della finitezza umana, poiché appare come l’espressione più autentica di una datità originaria indisponibile che non può essere elusa in modo radicale.
E’ questo il dato originario, che la riflessione fenomenologica di seconda istanza pone alla nostra attenzione; esso segna la verità dialogica dell’essere umano, la cui ontologia si dispiega in una apertura all’alterità, a motivo anche della sua originaria incompletezza e insufficienza. Sicché l’indagine fenomenologica della differenza sessuale diviene, nella seconda parte del testo, un’ermeneutica della finitezza umana e converge verso un’etica del reciproco riconoscimento, che vuole conferire alla storica dialettica dei due sessi un nuovo corso e una nuova direzione. La differenza sessuale, incarnata nel corpo, richiama il tema delle origini e interpella la categoria fondativa di ogni essere umano, che è la nascita, quell’evento singolare e unico che, indipendentemente dalla nostra volontà, ci consegna ad un corpo, scrivendo una storia differentemente sessuata.
Nei capitoli quarto e quinto, è apparso proficuo, pertanto, prendere in considerazione quanto la storia ci consegna. Dal dato storico, che offre un altro aspetto interessante del fenomeno analizzato, apprendiamo che non sempre la relazione tra i due sessi è stata segnata da un reciproco riconoscimento. La dialettica tra i due sessi si è storicamente risolta ora in un rapporto di predominio del maschile sul femminile ora in un’istanza femminile di totale liberazione dal maschile.
Se questa seconda istanza è più recente e trova collocazione storica nel femminismo radicale della postmodernità, la violenza contro il femminile è molto più antica e, come afferma Adriana Cavarero, va ricercata nella grecità, in particolare nella filosofia greca, ma anche nell’immmaginario collettivo del femminile, che ci viene restituito dai miti e dalla tragedia greca. In questo contesto, il dato storico ha consentito di rilevare che la differenza tra i due sessi si è  storicamente sedimentata e stratificata lungo un percorso di significazione che ne ha impedito di riconoscerne il valore.
Nel quarto capitolo, si delineano, pertanto, alcune figurazioni storiche del femminile nell’ambito della tradizione culturale dell’Occidente, che, attraversando i sentieri del mito e della filosofia, mostrano come il maschile, tradizionalmente localizzato in uno spazio pubblico, sia per emblema politico; al contrario, il femminile, è assegnato, in ragione del sesso, ad uno spazio esclusivamente privato: l’oìkos.
Ora, l’incontro tra i due sessi, se configurato entro i nuovi orizzonti del reciproco riconoscimento, può divenire allora per l’uomo e per la donna l’occasione di una conoscenza personale, che è l’opposto del conoscersi da sempre o del sostare su pregiudizi di etichettamento dell’Altro/a. L’urgenza di procedere da un’ontologia della differenza sessuale ad un’etica del reciproco riconoscimento si basa, perciò, sul fatto che la consapevolezza dell’umana distinzione in una differenza sessuata, da sola, non basta: senza l’amore e il riconoscimento reciproco la differenza sessuale è piuttosto fonte di separazione e di solitudine. Non è sufficiente scoprirsi differenti biologicamente per superare l’isolamento che costituisce il reale problema dell’esistenza umana e, in particolare, dei rapporti tra uomo e donna nel nostro tempo. L’incontro con la differenza, se autenticamente vissuto, può divenire sia per l’uomo che per la donna, il sentiero luminoso di un percorso esistenziale condiviso con responsabilità e rispetto reciproco.
Nel sesto capitolo, la differenza sessuale è, dunque, ripensata all’interno di una logica relazionale; il peculiare di tale logica sta nel fatto che essa deve poter pensare insieme i due termini della relazione, il maschile e il femminile, cioè non può pensare la differenza in termini dialettici dove l’altro è per negazione dell’uno o viceversa. Il senso della differenza maschile-femminile non sta, infatti, né nell’uno, né nell’altro dei due sessi, ma nella loro relazione e può, dunque, essere dischiuso a partire da questa correlazione.           
Pensare la differenza sessuale nel tempo della postmodernità vuol dire, dunque, pensare lo spazio del neutro che, secondo l’etimo latino neuter, non è né soltanto lo spazio del maschile né soltanto quello del femminile, bensì uno spazio condiviso, perché appartiene alla relazione; è uno spazio in cui, parafrasando Heidegger, il tempo dell’EsserCi diviene tempo del Mit-Dasein ( Con-EsserCi).
Negli ultimi due capitoli sono individuate, infine, le implicazioni bioetiche e le questioni pedagogiche che sono conseguenti all’analisi fenomenologica della differenza sesuale. La bioetica rivela innanzitutto un nesso costitutivo con l’educazione e ciò implica che in ambito pedagogico la formazione personale sia sostenuta sempre in riferimento al contesto di appartenenza di ogni individuo, contesto che non è solo storico, culturale, ma anche biologico.
Ciascun individuo interpreta sé stesso e il rapporto con gli altri in un lavoro continuo di personalizzazione della propria esistenza, in un incessante dialogo tra l’ essere corpo e il sentirsi corpo. Sottolineando il valore ontologico e etico del corpo e della differenza sessuale in esso incarnata, s’intende riconoscere anche sul piano pedagogico la valenza etica del bios, in cui ciascun soggetto si dà come persona umana sessuata. L’esperienza umana rivela, come abbiamo già sottolineato, che l’essere consegnati ad un corpo sin dalla nascita implica sempre un costante riferimento a quel corpo che si è. Inoltre, se l’esperienza di sé e dell’altro trova fondamento nell’esperienza corporea, appare rilevante anche sul piano pedagogico la lezione husserliana sull’ “intersoggettività”: l’altro che si fa spazio nel mio orizzonte personale, sulla base di un’esperienza estetico-corporea (Einfühlung) è innanzitutto un altro corpo, da cui dipendono emozioni, sentimenti, vissuti differenti dai miei[6].
In questa direzione, prende corpo, nell’ultimo capitolo, il percorso di riconoscimento del carattere strutturale universale dell’esperienza familiare da cui derivano i legami della genitorialità e della filiazione, che non sono concepibili al di fuori di quell’immmaginario simbolico collettivo che rimanda a quella realtà biologico-corporea in cui essi si incarnano: la differenza sessuale.
In quanto sessuati nella differenza, gli esseri umani divengono figlio/a, padre/madre, e trovano conferma della loro identità nella struttura antropologica della genitorialità che possiede una finalità strutturale di fondo a garanzia della prima forma di riconoscimento. Si tratta, per richiamare il linguaggio di P.Ricœur, del “riconoscimento nel lignaggio”, quello cioè che garantisce l’ordine delle generazioni[7].
Come nota il filosofo, sono tre le invarianti che strutturano il nostro essere nel mondo: «ciascuno di noi è nato dall’unione di un uomo e di una donna (qualsiasi siano, a esclusione della clonazione, le tecniche di fecondazione di un ovocita); ciascuno è per nascita situato in una fratria; infine nella fratria l’ordine tra  fratelli e sorelle non può essere scavalcato»[8].
Per queste ragioni, la riflessione verte, nell’ultimo capitolo, su alcuni aspetti controversi posti dalle nuove biotecnologie riproduttive, che, nel nostro tempo, sembra vadano determinando una vera e propria eclissi della genitorialità biologica, riscrivendo nuove forme familiari in una realtà umana che si fa sempre più complessa e, per certi aspetti, problematica.





[1] Cfr. Heidegger  M., Essere e Tempo, trad. it. di P. Chiodi, rivista da F. Volpi, Longanesi, Milano, 2008, § 29, p. 168
[2] Cfr. Heidegger  M., Essere e Tempo, trad. it. di P. Chiodi, rivista da F. Volpi, Longanesi, Milano, 2008, p.51.
[3] Si rimanda al significato dell’ontologia del nuovo, che Roberta De Monticelli chiarisce nell’ambito di ciò che, a suo parere, costituisce la «rivoluzione fenomenologica» introdotta dalla filosofia husserliana nello studio dei fenomeni.
Cfr. De Monticelli R., Conni C., Ontologia del nuovo. La rivoluzione fenomenologica e la ricerca oggi, Mondadori, Milano, 2008
[4] Ibidem, p. XII
[5] Cfr. De Lauretis T., Soggetti eccentrici, Feltrinelli, Milano, 1999, pp. 104-106;
Haraway D.J., Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, trad. it. di L. Borghi, Feltrinelli, Milano, 1995, pp. 40-42;
Cavareo A., Restaino F., Le filosofie femministe, Mondadori, Milano, 2002, pp.202-204.
[6] Cfr. Husserl E., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. it.di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano, 1997, p. 199
[7] Cfr. Ricœur P., Percorsi del riconoscimento, trad. it. di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano, 2005, pp. 216-219
[8] Ibidem, pp. 216-217




INDICE


Capitolo I 
Come concepire la differenza sessuale nel tempo della postmodernità
Capitolo II
Ontologia della differenza sessuale e implicazioni bioetiche
Capitolo   III
Per una filosofia fenomenologica della differenza  sessuale
Capitolo  IV 
Figurazioni del femminile nella tradizione culturale del mito e della filosofia greca
Capitolo V
Percorsi teoretici di filosofia della differenza
Capitolo VI
Lineamenti di un'etica del reciproco riconoscimento
Capitolo VII
Implicazioni bioetiche e prospettive pedagogiche
Capitolo VIII
Trasformazioni familiari indotte dalle nuove biotecnologie riproduttive






Monreale- Ex Monastero dei Benedettini




Presentazione libro 
"L'INDIFFERENZIATO

NUOVA SFIDA DELLA BIOETICA"

PROFILI DI UNA FILOSOFIA DELLA DIFFERENZA SESSUALE
di Maria Rita Fedele


INTERVERRANNO:


Prof.ssa Maria Teresa Russo dell'Università degli Studi Roma Tre

Prof.ssa Carla Canullo dell'Università degli Studi di Macerata

Prof. Giuseppe Savagnone, Componente del Comitato nazionale di Bioetica

Modera l'incontro il Prof. Luciano Sesta, docente di Bioetica dell'Università di Palermo

Porgeranno i saluti il Sindaco di Monreale Avv. Filippo Di Matteo e l'Assessore alla Cultura, Lia Giangreco

Presente l'Autrice



















































LIBRI PER MONREALE

                                                  Stampato nel mese di novembre del 1990


Piazza Vittorio Emanuele II, ieri e oggi




Rassegna bibliografica (non aggiornata)
a cura 
di 
Salvatore Autovino


I normanni a Monreale hanno gettato un seme che senza dubbio ha dato ottimi frutti nella vita civile e soprattutto nei valori religiosi, culturali ed artistici. La cultura ha avuto le sue meravigliose espressioni che vanno da quel famoso casellatore di versi che fu il Veneziano, alla scuola monrealese dal settecento al D'Acquisto e arrivano ai nostri giorni. 
Il culto delle arti, stimolato dalla presenza di un grandioso monumento quale il Duomo e il Chiostro, annovera tra gli illustri del passato nomi come quello del Novelli, di Antonino Leto, Giuseppe Sciortino e sono questi esempi scelti che come una scia è arrivata sino a noi.
Una conoscenza che dalle espressioni d'arte e di vita, dai monumenti e dal costume risalga ai motivi profondi che li hanno determinati, è certamente impegno civile, culturale e sociale insieme.
L'eredità lasciataci dai normanni è stata da sempre oggetto di studio da insigni studiosi. Tutto un mondo di forme emerge dal passato perchè l'opera d'arte è testimonianza. L'espressione sboccia dalla vita, ne conserva le tensioni, ne traduce i bisogni. Occorre però prenderne conoscenza, vivere e sperimentarne le suggestioni.
La bibliografia qui di seguito raccolta vuole indicare un diverso modo di organizzare conoscenze ed evasione, un viaggio quotidianamente sperimentabile nel tempo per cogliere espressioni e strutture che tramandano il nostro esistere e costituiscono l'ambiente dove viviamo, ne configurano il senso e il significato.
E' questa una direzione, è questo un modo di proiettarsi nello spazio e nel tempo che può condurre in paesi lontani ovvero a ritrovarsi intorno a noi stessi nella dimensione della nostra città e del suo territorio, dove il tempo delimita l'orizzonte del passato lontano, della storia vissuta... Vivere i luoghi attraverso le conoscenze degli eventi e delle cose che ne costituiscono la storia, esprimendo le scelte e le aspirazioni di chi vi ha operato è gusto del tutto umanistico che dal medioevo ai nostri giorni innalza l'uomo alla natura recuperando il passato all'attualità del presente attraverso consapevolezza e memoria.
Salvatore Autovino




ABBAZIA

FRANGIPANE G. - Storia del monastero di San Martino presso Palermo. Tip. Metastasio Assisi 1905  1
LIPARI ANSELMO - L'Abbazia di San Martino delle Scale. Palermo 1989  2
LIPARI A. - MIRABELLI U. - Il coro dell'abbazia di San Martino. Palermo 1895  1 

ARCHIDIOCESI

FIORENZA GIUSEPPE - Il clero secolare di Monreale in Sicilia. Siena 1891  1
MILLUNZI GAETANO - L'Archidiocesi di Monreale ed il III centenario di San Filippo Neri. Palermo 1895 1
MILLUNZI GAETANO - Le vicende dell'Arcivescovato di Monreale. Monreale 1986  1
MILLUNZI GAETANO -Il Capitolo della Cattedrale di Monreale e il suo patrimonio. Palermo 1919  1
SCHIR0' GIUSEPPE - L'Archivio Storico dell'Arcivescovato di Monreale. Monreale 1986  1
TRAMAGLIA RAFFAELE MARIA - Dissertazione sull'antica e nuova disciplina della Chiesa intorno agli ornamenti dei templi e dei sacerdoti in sostegno dell'uso della mitra richiesto dal Capitolo Cassinese dalla regale Chiesa Metropolitana di Monreale. Napoli 1748.   (?)

ARTE 

ALAIMO GIULIANA A. - Notizie inedite sulla Collegiata del SS. Crocifisso di Monreale e sul più grande pannello d'Italia in ceramica maiolicata del sec. XVIII. Ed. Arti Grafiche Renna. palermo 1951.   2
ANDALORO M. - I mosaici di Monreale: restauro e scoperte. Palermo 1986   1
CASSISA SALVATORE- Prefazione a I mosaici di Monreale restauri e scoperte. Palermo 1986  1
CASTIGLIA ENRICO - Luci nuove nel Duomo di Monreale. Ed. Arti Grafiche G. Zangara. Palermo 1960.  2
CONCETTI CONCERTO - Monreale e i suoi dintorni. Palermo 1912   2
DI GESU' GIUSEPPE -Guida di Monreale. Palermo 1912   2
GERBINO ALDO - DI NUNNO GIUSEPPE - Da Murano a Monreale. Il presepe incantato di Pippo Madè. Ed. Flaccovio 1984     2
GIORDANO STEFANO - Monreale, la Cattedrale e il Chiostro. Palermo 1972   2
GRAVINA B.D. - Sopra una antica immagine dell'Immacolata che esisteva nel Duomo di Monreale. Palermo 1858  1  
KITZINGER E. - I mosaici di monreale. Palermo 1960 1
MAUCERI E. - Monreale. s.d.     1
MELI FILIPPO - Monreale. Ed Azienda Turismo di Palermo e Monreale 2
MILLUNZI GAETANO - La cappella del Crocifisso nel Duomo di Monreale. Palermo 1907  1
MILLUNZI GAETANO - Guida ai monumenti di Monreale. Palermo 1899  2
SALVINI ROBERTO - Il Chiostro di Monreale e la scultura romanica in Sicilia. Ed. Flaccovio 1962  1
SAPIENZA DOMENICO - Monografia sull'artistico oratorio di Santa Maria in Orto, nella parrocchia di San Vito. Monreale 1973       2
SCHIRO' GIUSEPPE Monreale città dal Tempio d'Oro. Ed. Mistretta. palermo 1990  2
SCHIRO' GIUSEPPE - GIACOPELLI PINO - Tuttamonreale. Ed. Ila Palma 1981  2
TERRUSO SAVERIO - Il Cristo di Monreale. Ed. Brixia - Milano  2
TRIZZINO LUCIO - Cattedrale di Monreale. Palermo 1980  2
VUILLER G. - Visioni di Monreale. Palermo 1980  (?)

AUTORI MONREALESI

CANDIDO SALVATORE - Contributi alla storia di Malta dall'età araba. Ed. Accademia Nazionale dei Lincei. Roma 1988  2
CANDIDO SALVATORE - Giuseppe Garibaldi. Ed. Istituto per la storia del Risorgimento italiano. Roma 1964  2
CANDIDO SALVATORE - Giuseppe Garibaldi nel rio della plata. 1841-1848. Ed. Valmartina. Firenze 1972  2
CANDIDO SALVATORE - La rivoluzione riograndese nel carteggio inedito di due giornalisti mazziniani: Luigi Rossetti e G.B. Cuneo. Ed. Valmartina. Firenze 1973   (2)
CAPUTO G.B. - Vita verso la vita. Ed. Palumbo. Palermo 1950   2
COMANDE' G.B. - La scuola di Posillipo. Ed. Palumbo. Palermo 1950   2
COMANDE' G.B. - Giuseppe Venanzio Marvuglia. Ed. Zangara. Palermo 1951   2
COMANDE' G.B. - Introduzione allo studio dell'Arte di Andrea del Sarto. Ed. Zangara. Palermo 1951   2
COMANDE' G.B. - Idee estetiche e architettura sul barocco siciliano. Ila Palma. Palermo 1965   2
FIORE FORTEZZA ROSARIO REMIGIO - Aventura en el espacio con Arquimedes. Ed. Instituto Nacional Maria Goretti. Pasto. Colombia 1988   2
FIORE FORTEZZA ROSARIO REMIGIO - Fisica del Canguro. Ed. Instituto nacional Maria Goretti Pasto, Colombia 1988   2
FIORE FORTEZZA ROSARIO REMIGIO - Relatuvitad...Que Aventura! Ed. Instituto Nacional Maria Goretti. Pasto. Colombia 1988    2
GIORDANO NICOLA - Storia e Storiografia del moto palermitano del sette e mezzo. Ed. Ila Palma. Palermo 1970   2
GIORDANO NICOLA - La situazione finanziaria e militare del regno di Sicilia nella imminenza della restaurazione borbonica. Ed. Florio. Palermo 1976    2
GIORDANO NICOLA - Una interessante lettera inedita di G. La Masa e G. Garibaldi Palermo 1970    2
GIORDANO NICOLA - Pasquale Mastricchi, il vecchio di Gibilrossa. Palermo 1966    2
GIORDANO NICOLA - Cinque lettere inedite di Emerico Amari e Giuseppe B. Amari. Palermo 1970     2
GIORDANO NICOLA - Ricordo di Eugenio D. Vicentino, cacciatore delle Alpi. L'eroe del Bastione di porta Montalto. Ed. Fiamma Serafica. Palermo 1976     2
GIORDANO NICOLA - Ancora sulla genesi del moto palermitano del settembre 1866. Ed Flaccovio 1965 2
GIORDANO NICOLA - Tre lettere inedite di Carmelo Galvagno e Giuseppe Oddo. Palermo 1966   2
NOTO ANTONINO - L'Amore e la legge Ed. Palumbo. Palermo 1953   3
NOTO ANTONINO - L'arte come morte dell'arte. Ed. Cèlebes. Trapani 1966    3
NOTO ANTONINO - Le logiche non classiche. Ed. Bulzoni. Roma 1975     3
NOTO ANTONINO - Problemi di logica interzionistica. Ed. Flaccovio. Palermo 1970    3
NOTO ANTONINO - Due universali semantici. Ed. Bulzoni. Roma 1972     3
NOTO ANTONINO - La dialettica di Hegel e le scienze sociali. Ed. Flaccovio. Palermo 1972    3
NOTO ANTONINO - L'unificazione del sapere. Ed Sansoni. Firenze 1967       3
NOTO ANTONINO - Scienza e scienteismo. Ed. Milillo. Bari. 1962      3
SAPIENZA GUALTIERO DELLA ROCCA - Crogiolo. Ed. Ursini. Catanzaro 1987    3
SCIORTINO GIUSEPPE - Altro viaggio. Ed. emiliano degli orfini. genova 1936      1
SCIORTINO GIUSEPPE - Crepuscolo dell'astrattismo. Ed. del Vantaggio. Roma 1964    1
SCIORTINO GIUSEPPE - Esperienze antidannunziane. Ed. Piero Gobetti. Torino 1927      1
SCIORTINO GIUSEPPE - Esperienze antidannunziane. Ed. Remo sandron. palermo -Milano 1928    1
SCIORTINO GIUSEPPE - L' epoca della critica. Ed. Piero Gobetti. torino 1927    1
SCIORTINO GIUSEPPE - Il figlio in Sicilia. ed. Sandron. Roma 1945    2
SCIORTINO GIUSEPPE - Il paesaggio di Ceracchini. Edizioni del vantaggio. Roma 1954    1
SCIORTINO GIUSEPPE - Sciortino Giuseppe - ventura. Ed. Piero Gobetti. Torino 1927    1
SEMILIA SALVATORE - Essere cristiani. Palermo 1984     2

BENEDETTINI

MORVILLO PERRICONE A. - Il monastero dei benedettini e la cittadinanza di Monreale    1
PASSALACQUA AGOSTINO - Discorso critico sull'opuscolo. Analisi della critica dei R/R Benedettini di Monreale. Palermo 1852    1
TORNAMIRA PAOLO - La congregazione cassinese. Origine e Progresso. Palermo 1675    1

BIBLIOTECA

COLLURA PAOLO - Notazione bibliografica degli incunaboli conservati nella Biblioteca Torres di Monreale. Reggio Emilia 1936       1
GARUFI C.A. - Catalogo illustrato del Tabulario di Santa Maria La Nuova. Stabilimento Tipografico <Era Nuova> Palermo 1902  1
MILLUNZI GAETANO - Il Tesoro, La Biblioteca, Il Tabulario della Chiesa di Santa Maria Nuova in Monreale. Palermo 1904        1

BOTANICA

FILECCIA ONOFRIO - Monografia su una pianta di Citrus Suntana o mandarino amaro esistente nella Villa dell'ex monastero dei benedettini di Monreale. Palermo 1924      1

FOLCLORE


AUTOVINO SALVATORE - Monreale folk: Canti, proverbi, indovinelli, orazioni, scioglilingua dl popolo monrealese. Ed. La Bottega di Hefesto. palermo 1984       2
INTRAVAIA PIETRO - Giuseppe Pitrè e la festa del Crocifisso di Monreale. Ed. Don Orione. Palermo 1982      2
PITRE' GIUSEPPE - La festa del Crocifisso di Monreale. Edizioni Stass. Palermo 1975     2


LETTERATURA


ARCERI S. - Opere di Antonino Veneziano riunite e tradotte. Palermo 1861     1
CANDIDO SALVINO - Le leggende del Tempio di Monreale. <L'Artefice Ignoto> estratto da Giglio di Roccia. Rassegna di vita siciliana n.4 ottobre-dicembre 1941 XX, palermo Scuola tipografica di R. Istituto di Assistenza.        1
CARAPEZZA PAOLO E. - Gli improperia di Monreale dall'inizio del XX secolo, in Atti del Convegno sulle polifonie primitive. Cividale del Friuli 22-24 agosto.       1
EPIFANIO VINCENZO - La celia di Antonio Veneziano. palermo 1901        1
GIORDANO NICOLA - Una lettera di Filippo Parlatore al Marchese di Roccaforte sull'elezione del Re di Sicilia, Palermo 1963    3
GIORDANO NICOLA - Una lettera inedita di Giuseppe Pitrè. Palermo 1969      3
GIORDANO NICOLA - Tre lettere inedite di F. D. Guerrazzi a Giuseppe Sgarlata. Ed. G. Denaro Palermo 1966    3
LANCIA DI BROLO D.G. - Lettere pastorali. monreale 1884, 1885, 1887, 1888, 1891, 1894, 1902, Archivio della Curia arcivescovile di Monreale      1
PITRE' GIUSEPPE - Lettera inedita a Gaetano Millunzi del 28.2.1893. In corrispondenza importante 1889-1895. Biblioteca del seminario arcivescovile di Monreale      1
SULLI CATERINA - SULLI GIUSEPPE - Antonio Veneziano... Dal mistero di Celia al Puttanesimo. Palermo 1982     2

MONUMENTI


ALFIERI B.M. - Il Duomo di Monreale. Novara 1983    1
BELLAFIORE GIUSEPPE - Monreale/Duomo. Ed. Officine Grafiche Poligrafici Il Resto del Carlino. Bologna 1966     1
CATANIA P.- Cronica dell'origine e fondazione del Real Monasterio e Matrice Chiesa di S. Maria Nuova di Monreale. manoscritto inedito presso la Biblioteca centrale regionale di Palermo     1
CANDIDO SALVINO - Sul problema cronologico della datatio ecclesiae del tempio di Santa Maria Nuova fondato da Guglielmo II il Normanno in <Archivio storico siciliano> S. III Vol. V Palermo 1953     3
D'ANGELO F. - I casali di Santa Maria La Nuova di Monrealesi secoli XII-XV in Bollettino <Centro studi filologici e linguistici siciliani XII 1973       1
DEL GIUDICE M. - Descrizione del Real Tempio e Monastero di Santa Maria La Nuova di Monreale. Palermo 1702     1
DI GIOVANNI V. - Del Sito della Cattedrale di Monreale. Monreale 1900     1  
GIORDANO STEFANO - Monreale. Ed Flaccovio. Palermo 1964      2
GRAVINA G.B. - Il Duomo di Monreale illustrato e riportato in tavole cromilitografiche. Palermo 1859    1
KROENIG W. - Del Duomo di Monreale e l'Architettura normanna in Sicilia. Palermo 1965   1
LO FASO PIETRASANTA D. - Del Duomo di Monreale e di altre Chiese siculo-normanne in Sicilia, Ragionamenti tre. Palermo 1838         1
PETRALIA GIUSEPPE - La Basilica di Monreale Bibbia del Popolo. Edizioni Domus Christi. Monreale 1958        1
SCHIRO' GIUSEPPE - Il Santuario del Crocifisso di Monreale. Palermo ESA 1946       1
SPINNATO SALVINO - Duomo, Chiostro e monastero di Monreale. Ed. M. Greco. palermo 1964      1
SULLI GIUSEPPE TARALLO G.B. - Del vero sito della porta reale e del ciborio delle SS. Reliquie del Duomo di Monreale. Archivio storico Cram.      1
TARALLO G.B. - Cenno storico sulla Chiesa metropolitana di Monreale. Napoli 1884.     1
TARALLOG.B. Memoria sopra i Regi sepolcri del Duomo di Monreale. Napoli 1826        1


MUSICA


LO COCO ROSALIA - Il fondo musicale della Collegiata di Monreale. tesi di Laurea. Facoltà di Lettere e Filosofia. palermo Anno Accademico 1980/1981        1


NARRATIVA


CAMMARATA FRANCESCO - Castrenza e la sua gente. Ed. Comunità nuova, 1982       2
COMANDE' G.B. - Don Giovanni Malizia ed altri manoscritti (commedie, romanzi)     2
MAMMINA GIUSEPPE - Momenti a Monreale. racconti della Conca d'Oro. Ed. Poligrafici il Borgo. Bologna 1963     2

PERSONAGGI

ALBERTI S. - La vita dell'inclito vescovo e confessore di Cristo S. Castrenze primo e principale protettore di Monreale di Sicilia. Palermo 1718.      1
ARRIGO R.- Venator Animarum, vita del servo di Dio Mons. Mercurio Maria Teresi. Firenze 1932     1
AUTOVINO SALVATORE - Guglielmo II, Re saggio e Buono. Ed. Centro culturale Federico II Monreale !990      2
COLLURA PAOLO  - Il Cardinale Ludovico Torres, Arcivescovo di Monreale. Profilo storico. Palermo 1955      1
COLLURA PAOLO - Le due missioni di Ludovico 1° Torres in Malta. Roma 1937     1
DAMIANI G.B. - Vita di San Castrenze primo e principale protettore della città di Monreale. Palermo 1927 1
DI GIOVANNI VITO - Il Miceli ovvero dall'Ente uno e reale. Palermo 1864      1
FILIPPI E. - Benedetto D'Acquisto. L'uomo e il pensatore. Urbino 1939       1
FIORENZA G. - Vita della serva di Dio, suor Maria Trucco. Ed. Bernardino. Siena 1889     1
GALLO A. - Elogio storico di Pietro Novelli, famoso dipintore, architetto ed incisore. Palermo 1828    1
GIORDANO NICOLA - Monrealesi illustri. Palermo 1964    2
GIORDANO NICOLA - Mons. Girolamo Venero. In archivio storico siciliano. S. III Vol. VII 19    2
GIORDANO NICOLA - Alessandro Farnese. Palermo1967     2
GIORDANO NICOLA - Domenico Caruso Inghilleri. Palermo 1956    2
GIORDANO NICOLA - Fra Paolo dei Lapi arcivescovo di Monreale. Palermo 1965    2
GIORDANO NICOLA - L'Arcivescovo Caro. Palermo 1966    2
GIORDANO NICOLA - Note per una storia della cultura un Sicilia: Gaetano Millunzi letterato e storico monrealese del secolo XIX Palermo 1965      1
GIORDANO NICOLA - Turi Miceli. Il brigante eroe monrealese sui moti del 1848, 1860 e 1866. Ed. Flaccovio. Palermo 1965      2
LODI G. - Antonio Veneziano e il terzo centenario della sua morte, in A.S.N.N.S. anno XIX Palermo 1894  1
LORICO F. - Vita di Benedetto D'Acquisto. Palermo 1899     1
MALLARDO DOMENICO - San Castrenze vescovo e martire nella storia e nell'arte. Napoli 1957   1
MANGIAPANE V. - Gaetano Millunzi. Cenni biografici in Bollettino ecclesiastico n. 78. Palermo sett-ott. 1920     1
MILLUNZI GAETANO - Del culto che San Castrenze ha goduto in Monreale. In La Sicilia Cattolica 1893  1
MILLUNZI GAETANO - Dei pittori monrealesi Pietro Antonio Novelli e Pietro Novelli. Palermo 1913  2
MILLUNZI GAETANO - Giuseppe Vaglica, studio critico e biografico. Siena 1887   1
MILLUNZI GAETANO - Il Mosaicista mastro Pietro Oddo ossia restauri e restauratori del Duomo di Monreale nel sec. XVI Tipografia Statuto. Palermo 1891  1
MILLUNZI GAETANO - Il poeta Antonio Veneziano. In AA.SS.N.S. anno XIX Palermo 1894   1
MILLUNZI GAETANO - San Castrenze protettore della Città di Monreale. Milano 1919     (?)
MODICA G. - Ricerche storiche e critiche sulla vita e opere di A. Veneziano. Palermo 1827    1 
PETRALIA GIUSEPPE - Giuseppe Fedele, sacerdote e poeta monrealese. Monreale 1979    1
POLLACI N.F. - Dell'Ufficio di Segretario comunale nei secoli scorsi di Antonio Veneziano.    1  
POZZEBON SILVESTRO LUIGI - Cinquantesimo della morte del servo di Dio Mons. Antonio Augusto Intreccialagli 1974   1
SALAMONE MARINO S. -  PUGLIA G.M. - CRISPI F. - Per Benedetto D'Acquisto in Monreale n. 1900. Biblioteca del Seminario arcivescovile di Monreale. Opuscola varia n.4      1
SCHIRO' GIUSEPPE - La Controriforma nel 600 monrealese. Girolamo Venero Y Leyla, Palermo 1986       2
SULLI GIUSEPPE - Gaetano Millunzi. Ed. Kefa. lo Giudice. palermo 1986     2
SULLI GIUSEPPE - L'opera sociale del Venero (1558-1628) n.n. Monreale 1769     2
TESTA FRANCESCO - De vita et rebus gestis Guglielmi II Siciliae regis. Monreale 1769     1

POESIA

EPIFANIO ANTONIO - Il Duomo di Monreale. versi Ed. Boccone del Povero. Palermo 1907      1
GERBINO ALDO -Maraldo quattro vedute di Monreale. Ed Accademia Siculo Normanna. Monreale 1981       2
GIACOPELLI PINO - Fontanalia. cartella con 3 serigrafie di S. Caputo    2 
MAMMINA GIUSEPPE - Poetastria. Ed. Fiamma Serafica. palermo 1969       (?)
NARDU LU VICCHIAREDDU - La cazzicatummula di li Bumma di Munriali.Palermo 1904         1

SCUOLA

D'AMICO INGLESE VINCENZO - La scuola di Monreale e la sua tradizione umanistica. Magliano Veneto 1955             1

SEMINARIO

CARUSO G.B. - Notizie riguardanti la storia letteraria del Seminario di Monreale raccolte da Biagio Caruso ed ora la prima volta pubblicate da Vincenzo Di Giovanni. palermo 1878      1
MILLUNZI GAETANO - Storia del Seminario arcivescovile di Monreale. Siena 1895       1

STORIA


BONGIOVANNI G. - GERBINO A. - GIACOPELLI P. - L'Anno di Guglielmo. Ed. Dorica. Ed. Palermo 1989     2
CALISTI BALDASSARE - Le reliquie di San Luiogi IX re di Francia nella cattedrale di Monreale. Ed. Scuoa Grafica salesiana. Palermo 1970      2
DI PIAZZA BARTOLOMEO - Cenni storici di Monreale. ed Croce d'oro. Monreale 1891       2
GIORDANO NICOLA - Pagine Monrealesi. ed. Pezzino. palermo 1968    2
GIORDANO NICOLA - Sul presteso incontro del 20 maggio tra Benedetto D'Acquisto e Garibaldi. palermo 1968     2
LA LUMIA ISIDORO -  La Sicilia sotto Guglielmo II Buono. Ed. Le Monnier. Firenze 1867     2
LELLO G.B. - Historia della Chiesa di monreale. Roma 1596      2
MILLUNZI GAETANO - Mons Regalis et rura adiacentia. Roma 1881        1
MILLUNZI GAETANO - Serie cronologica degli Arcivescovi, abbati e Signori della metropolitana Chiesa e dello Stato di Monreale. Palermo 1908      1
PITRE' GIUSEPPE - Una dimostranza in Monreale nel 1793. Monreale 1900     1
SCHIRO' GIUSEPPE - Il Carmine di Monreale. Ed. 1990      2
SCHIRO' GIUSEPPE - Monreale Capitale normanna. ed. Edigraphica Europa. palermo 1978   2
SCHIRO' GIUSEPPE - Monreale nel centenario dell'Unità d'Italia. Palermo 1961      1
SCHIRO' GIUSEPPE - Monreale. territorio, Popolo e Prelati dai normanni ad oggi. Ed. Augustinus. palermo 1984     2
SCHIRO' GIUSEPPE - Proteggero' questa città... Fede e cultura di un popolo. Il Crocifisso di Monreale. Monreale 1986        2

TERRITORIO

FEDELE G. - Raxalicheusi. Palermo 1893      1
MILLUNZI GAETANO - Il monte Caputo e il Castellaccio di Monreale. Palermo 1896      1
PAVONE GAETANO - Monreale e il suo conteso territorio. Ed. Scuola Tipografica R. Istituto d'Assistenza. Palermo 1988      2
SABELLA NATALE- Monreale e l'area metropolitana di Palermo. Palermo 1988      2
SABELLA NATALE - S. Martino delle Scale- Ipotesi per un parco metropolitano. "Labor" 1989      3



LEGENDA    (1) Biblioteca comunale - Monreale
                       (2) Centro "Federico II" Monreale 
                       (3) Biblioteche private







I ROMANZI DI MARIA SAPIENZA


"IL GRANDE ALBERO"
di Maria Sapienza

"Il Grande Albero" è il romanzo autobiografico della scrittrice monrealese Maria Sapienza che attraversa, in questo racconto, tutte le fasi salienti della sua vita, mettendo a fuoco sempre i rapporti familiari, le sue radici ed il forte attaccamento ai valori affettivi, della sua Sicilia e della città natale di Monreale: ricca di tradizioni, cultura e bellezze che l'autrice riesce a mettere in risalto per farle apprezzare ai suoi lettori.









"SOFIA" 
di Maria Sapienza

Sofia è una giovane quasi diciottenne, autoctona della cittadina arabo-normanna. E' la primogenita di tre figlie, vive in una famiglia tradizionale siciliana, della fine degli anni '80. Il suo desiderio è quello di riscattare la sua terra attraverso le risorse che il territorio propone. Lotta contro i falsi idoli, contro gli oligarchi, contro le ideologie che da secoli hanno ridotto le donne in stato di subalternità. Il suo sguardo è proteso verso l'altro da sè, si allarga in un abbraccio che ingloba il tutto ma che non si esaurisce a quel tutto che è parte di un immenso desiderio d'infinito. La sua lotta è la battaglia infinita di chi utilizza le armi bianche dell'amore; la scrittura, la musica, l'arte possono scardinare porte sprangate che chiudono alla circolarità del sapere.
Vive in prima persona l'attentato al capitano Basile, il dolore per la distruzione del negozio di famiglia incendiato dai mafiosi a cui lei si oppone per cambiare le regole "imposte" nel territorio. La morte, la sofferenza sono per lei esperienze che arricchiscono e accrescono il desiderio di Esserci.





Maria Sapienza (Palermo 30.11.1972) ha studiato presso il Liceo classico "E. Basile" di Monreale. Si è laureata in Pedagogia nel 1995. Ha conseguito l'abilitazione professionale all'insegnamento presso la scuola primaria e materna nel 2000. Ha insegnato Pedagogia e Filosofia presso il Liceo socio-psico-pedagogico  G. Ugdulena del Comune di Caccamo. Gestisce il negozio storico di famiglia, fondato dal bisnonno nel \1888. E' madre di due figli, Federico di 19 anni e Alessandro di 16. Scrive poesie e articoli per giornali locali. Ha ricevuto il riconoscimento per la scrittura presso la sala Onu Teatro Massimo (Donnattiva).Nel 2015 ha pubblicato il suo primo romanzo autobiografico "Il grande albero".
"Sofia" è il suo secondo romanzo




GIUSEPPE SCHIRO’
E LA SUA STORIA DELLA CITTA’ NORMANNA
di Giuseppe Schirò






(Articolo tratto dal giornalino “Il Guglielmo” di Onofrio Sanicola – 
Periodico di Monreale e dintorni, Maggio 2000)


Avevo appena finito le elementari che cominciai a frequentare la Biblioteca comunale. Volevo leggere il libro della storia del mio paese. Era bibliotecario il famoso padre Gullo, un vero pozzo di scienza, che noi ragazzi guardavamo con venerazione. Era un uomo pieno di premure e di incoraggiamento verso quei ragazzi che volevano studiare e persino i professori più bravi andavano da lui a chiedere spiegazioni su brani di latino o di greco. Egli mi mise sotto gli occhi, uno dopo l’altro, alcuni volumetti scritti dal Millunzi che trattavano di argomenti monrealesi particolari, come Antonio Veneziano, Pietro Novelli, il Collegio di Maria. Ma io cercavo un libro che parlasse della storia di Monreale nel suo insieme. Arrivò al punto da permettermi di tuffarmi nella monumentale opera del Gravina, un libro che quando aperto occupa tutto il piano di una scrivania, ma che parla solo del Duomo di Monreale. Insoddisfatto, decisi di scrivere io la storia di Monreale e, per cominciare, comprai sei quaderni da sedici fogli ad una riga, come si diceva allora (era da poco passato il 1940), per raccogliere le notizie che andavo prendendo dai libri, inserendole nei quaderni secondo vari argomenti. Naturalmente il primo quaderno lo dedicai al Duomo, che è stato sempre l’elemento che salta subito agli occhi non appena si pensa a Monreale. Il secondo all’arcivescovado, fattore che appare subito determinante nella vita del paese. Ancora conservo qualcuno di quei quaderni.
Ovviamente, al maggior parte delle notizie erano quelle che riguardavano il Duomo, ma, a poco a poco, anche gli altri quaderni videro completarsi alcune pagine. Ma più andavo avanti più aumentava la mia curiosità e la mia insoddisfazione. Questo paese come era nato? Dove trovare notizie sulle altre chiese, oltre che sul Duomo? E notizie sullo sviluppo del paese, sulle quattro porte, sulla porta Verghe all’uscita del paese verso Pioppo, sulla porta Venero sulla strada che percorrevo spesso per andare in campagna, sulla porta cappuccini, della quale ancora si vedeva un’arcata sulla discesa sottostante il palazzo arcivescovile ed oltre la quale noi ragazzi delle elementari alloggiate allora nel palazzo Cutò andavamo a soddisfare elementari bisogni fisiologici negli intervalli concessici dai maestri.
Ai miei occhi si stagliava la figura di quel personaggio che aveva pubblicato diversi libri su argomenti monrealesi e specialmente la guida ai monumenti di Monreale, quel canonico Millunzi, del quale pure mia nonna parlava raccontando che era stato assassinato dalla mafia alcuni anni prima che io nascessi.
In realtà feci più piena conoscenza di questo straordinario personaggio molti anni dopo e ne compresi l’animo a fondo. Quando egli venne ucciso, nel 1922, aveva 63 anni, essendo nato nel 1859. Aveva studiato nel seminario di Monreale , ed era divenuto sacerdote nel periodo in cui il clero di alcune nazioni europee, come la Francia e la Germania, era preda del modernismo, una dottrina nata nella mente di un sacerdote francese, Alfredo Loisy, il quale sosteneva che la verità della fede cattolica, i cosiddetti dommi, non potevano essere considerati come l’interpretazione che la fede aveva dato a quelle verità nel corso dei secoli, perché tutto si evolve in relazione all’evolversi stesso della società: era perciò necessario “modernizzare” le verità della fede, donde il nome di modernismo. In realtà quella teoria era molto più complessa perché il modernismo sfuggiva ad una organica sistemazione teorica e dottrinale, ma certamente esso finiva con lo svuotare i contenuti delle verità della fede. Del gravissimo pericolo ebbe la chiara sensazione il papa Leone XIII, Gioacchino Pecci, ma soprattutto Pio X, Giuseppe Sarto, poi proclamato santo, il quale, nel 1907, pubblicò l’Enciclica “Pascendi”, che conteneva una lucidissima sintesi della dottrina modernistica ed adottava energici provvedimenti per arginare i danni nel campo cattolico. Gaetano Millunzi fu un sostenitore dell’ortodossia ardente e acuto. Egli infatti si dedicò a profondi studi sulla dottrina di San Tommaso, arrivando anche ad esperia in un corposo poema in versi esametri latini, perché, come la pensava papa Leone XIII, suo amico personale, vedeva nel diffuso abbandono di quegli insegnamenti la causa più profonda dello sbandamento dottrinale (e non solo di quello) di buona parte del clero. La sua profonda preparazione teologica, filosofica e letteraria, la sua attività nel campo sociale e politico le resero un punto di riferimento, assai qualificato nella cultura monrealese e palermitana e nella difesa dei diritti della Chiesa di Monreale, al punto che in fine pagò con la vita. La figura del Millunzi è stata oggetto anche di una recente pubblicazione di un appassionato cultore delle memorie monrealesi, ma credo che questo non sia stato sufficiente a mettere in evidenza lo spirito da cui era mosso nella sua attività, che non esiterei a definire vulcanica. Era certamente uno che amava la sua terra, la sua Monreale, la sua proprietà di Realcelsi, sulle alture della Conca d’Oro, e per questo suo amore intraprese ricerche, che lo portarono a pubblicare tanti libri su cose di Monreale. Ai miei occhi appariva un gigante. Forse anche lui avrebbe voluto scrivere una storia di Monreale, ma non ci arrivò, e chi sa come l’avrebbe scritta, dato che non sapeva liberarsi da una certa mentalità clericale che gli impediva di scorgere, nella giusta dimensione, i valori della società civile.Certo che la sua personalità meriterebbe altri approfondimenti. In questo momento ricordo solo quanto mi ha interessato la sua “Guida ai monumenti di Monreale”, pubblicata senza il suo nome nel 1899, a Palermo, e ristampata a Roam nel 1986. Le notizie contenute erano pienamente degne di fede, ma mi fece impressione soprattutto una relazione del 1877 sull’esplorazione delle grotte sotterranee della piazza di Monreale.  
Nel 1877, in occasione dei lavori di sistemazione della piazza, si scopersero lunghe gallerie sotterranee, che attrassero subito la curiosità dell’architetto Giambattista Filippo basile, che dirigeva i lavori. Ne aveva fatto un fuggevole cenno il Gravina nella sua monumentale opera sul Duomo, pubblicata nel 1859. Il Basile organizzò subito una esplorazione, incaricando i due ufficiali del I Reggimento dei Bersaglieri, Giacinto Tua e Cesare Ferrari. Accompagnati da un ingegnere agronomo e dal capomastro, i due ufficiali perlustrarono le grotte compilarono una relazione che il Basile inviò al giornale palermitano “IL Precursore” che la pubblicò nel suo numewro 214 del 5 agosto 1877. Sull’esploraione delle grotte è stata pubblicata un’altra interessante relazione dallo speleologo Giovanni Mannino, il 7 settembre 1958, sul periodico del Club Alpino Italiano “Montagne di Sicilia”. Un’altra accurata esplorazione è stata eseguita  nel 1976, sotto la guida dell’architetto Lucio trizzino, accompagnato da alcuni speleologi del gruppo “Stela d’Artoi” ed alle grotte ha rivolto la sua attenzione, nel 1986, il circolo Arci di Monreale, che ha coinvolto la stampa, le soprintendenze e perfino il Museo di Paleontologia “Gaetano Giorgio Gemellaro” dell’Università di Palermo.

Giuseppe Schirò  








Chiese monrealesi
chiuse al culto

Dal libro
“DIETRO UN MURO TRA LE CREPE”

di ANTONELLA VAGLICA *


fotografie di Simone Cangemi


Cfr. Post



*ANTONELLA VAGLICA (Palermo 1977), in seguito alla maturità classica, si laurea in lettere classiche con il massimo dei voti, all’Università degli Studi di Palermo. Studiosa di storia dell’arte, continua e approfondisce gli studi presso il Dipartimento di studi storico-artistici dell’Ateneo palermitano. Conduce sul territorio monrealese una ricerca sul campo, prendendo in esame gli edifici religiosi chiusi al culto e non, ed individuando all’interno di essi opere d’arte inedite e trascurate dalla critica.




  
 “Spesso, nel corso della storia si è parlato, e si parla ancora oggi, di Monreale, delle sue grandi realtà artistiche, quali il Duomo di Santa Maria Nuova, il Chiostro Benedettino, il monastero, le quali, in molti casi, hanno messo in ombra bellezze altrettanto importanti: parlo delle tantissime chiese che Monreale ha al suo interno e soprattutto di quelle oggi chiuse al culto. Spesso tesori d’arte rimangono nascosti dietro muri cadenti, dietro vecchi portali che indossano ancora quella bellezza maestosa e antica che tutti hanno dimenticato”.
...Sono qui esaminati edifici che ricoprono grandi superfici, e che presentano tre navate, ariosi presbiteri, dotati di ampie absidi, cappelle laterali larghe e profonde, anche se spesso oscure.
Grandi navate maestose, conducono, nella maggior parte dei casi, ad altari sfarzosi che esprimono una devozione vistosa, che vedremo accomunarle tutte.
Altri presentano una planimetria più semplice, ad un'unica navata.
Altri ancora, si riducono a piccole cappelle, ma nelle quali le ridotte dimensioni dell'edificio sono riscattate dalla qualità delle decorazioni.
... Molti di questi magnifici scrigni ogi sono chiusi al culto e agli studiosi, che vi troverebbero un campo fertilissimo di studio e una affascinante luogo d'arte. 
…La loro condizione odierna, almeno per gli edifici chiusi al culto, è pessima. Si rileva uno stato di grave degrado: pavimenti sventrati, volte puntellate, stucchi cadenti, lacune dovute al trafugamento di oggetti, pitture scrostate.
…E’ bene finalmente che questi edifici, che hanno per anni interpretato parti secondarie sulla scena monrealese, tornino a rivestire la parte che ebbero nella storia. 
Il mio primo intento è quello di diffonderne la conoscenza.
...conoscenza feconda, che permetta di guardare attentamente a queste seducenti realtà, affinchè si ponga mano ad una loro veloce e sincera rinascita.
Redigere una tesi di laurea è per molti aspetti il giusto coronamento di un corso di studi universitari.
Nel mio intento particolare, questo lavoro, oltre ad un traguardo vuole anche essere l'avvio di una ricerca che possa ridare luce a queste chiese, alla loro storia e al loro valore artistico.

… La nascita di Monreale è conseguente alla fondazione della Cattedrale e del gruppo abbaziale, che ormai, come <Arcivescovato Metropolitano> diverrà centro di attività religiosa, politica ed economica. Infatti un movimento di popolazioni verso i territori della nuova Arcidiocesi, favorirà la formazione di un abitato intorno al monumentale Duomo.
ANTONELLA VAGLICA



 CAPPELLA DI SANTA MARIA DEGLI ANGELI

Si ringrazia l'Autrice ANTONELLA VAGLICA per la sua gentile concessione


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Natale Sabella



SAN MARTINO DELLE SCALE: 
IPOTESI PER UN PARCO METROPOLITANO



Estratto 
da 
Labor  Anno XXX - Luglio-Settembre 1989



Questo scritto vuole porre l'attenzione su una realtà territoriale circoscritta e individualbile per la sua orografia, le caratteristiche naturali, i valori storico-architettonici nel bacino montano di San Martino delle Scale in considerazione del fatto che gli attuali spazi pubblici a verde del Comune di Palermo non sono più sufficienti alle esigenze della collettività.
Non rimane altro che l'attuale Parco della Favorita con il promontorio di Montepelligrino e la zona costiera relativa al lido di Mondello, spazi pubblici il primo da recuperare e valorizzare sotto molteplici aspetti, il secondo oramai sovrappopolato ed in parte zona residenziale della Città.
Si fa necessario, pertanto, valutare la possibilità di fruire del territorio montano di San Martino delle Scale che ricade nell'area di influenza metropolitana. 
Solamente attraverso una adeguata politica si potrà dare una risposta diversa al diritto di mobilità e di svago della popolazione e non limitatamente  al periodo stagionale estivo, con la possibilità di convogliare tutte le energie necessarie per un nuovo turismo montano prossimo al Capoluogo dell'Isola con l'intendimento di sviluppare nei modi migliori le attività legate al tempo libero che si incrementano sempre più nel processo di crescita e di sviluppo della società moderna.
Elemento dominante di questo ambito terriero è la presenza per buona parte del bosco pineta, patrimonio naturale ricco di vitalità, colori ed ombre, scorci suggestivi di un tessuto naturale quale il bosco siciliano che ha mutato nel tempo per mano dell'uomo la sua originaria configurazione.
Il bosco pervenuto a noi è assai diverso dal bosco descritto da D. Gregorio Frangipani Cassinese nella storia del Monastero di san Martino edita nel 1905; ha mutato la sua flora e la sua fauna, tipiche della foresta dell'Isola.
L'impianto attuale risale ad un intervento di programmazione forestale dei primi anni del 1930 e costituisce elemento di diversità tra il bosco che esisteva alla fine del '800 e l'attuale sistemazione realizzata con piante conifere. In proposito San Martino delle Scale presenta tutti i requisiti necessari, sempre che si conduca urgentemente una politica  di intervento nel tutelare un patrimonio d'interesse pubblico, per offrire, se si farà crescere bene il bosco, un ambiente sano, naturale aperto nei modi e nei giusti limiti alla dimensione urbana, da potere attrezzare per le attività ricreative del tempo in un armonico equilibrio che miri a rivalutare nel verde pubblico a dimensione territoriale, nell'uso delle aree attrezzate, nei segni di interesse storico-architettonico, una fruizione collettiva di un servizio.
Quest'area in prevalenza boschiva ha avuto, a partire dagli inizi degli anni '60, un continuo depauperamento del suo impianto boschivo e ciò per cause diverse quali incendi di tipo colposo o accidentale, comparsa di una edilizia autorizzata e abusiva, che si è violentemente innestata quest'ultima nel paesaggio montano, continua lottizzazione della proprietà privata.
Per un certo periodo il fenomeno edilizio aveva contribuito in un periodo di boom economico, a rafforzare una economia locale, della Frazione, che era essenzialmente legata all'antico binomio attività agricola-silvo pastorale, incentivato dal settore produttivo d'importazione trainante quale l'edilizia.
Di riflesso a questa incentivazione edilizia costituita dalla realizzazione di ville e villini ed in seguito di vere e proprie cellule abitative, non si è riscontrato con l'aumento del reddito pro-capite una adeguata offerta di servizi  che facessero della località montana un polo di attrazione e ricreazione indispensabile ad un centro ben organizzato.
Inoltre i canoni di locazione eccessivamente elevati in proporzione ai servizi e alle attrezzature pressochè inesistenti, causavano l'abbandono delle residenze stagionali.
E comunque, in genere, si è riscontrata una inesistente politica turistico-alberghiera di piccola e media dimensione, che con le sue strutture complementari potesse incentivare i servizi per lo sport e la ricreazione: questa è stata una fra le cause principali dell'abbandono in cui versa attualmente San Martino delle Scale, facendo sì che la domanda di ricezione si spostasse verso altre zone. Sebbene anche nella nostra società siciliana, che attinge a modelli di sviluppo ove ancora tutto cresce in modo rapido ed abnorme, dove la Città si sviluppa urbanisticamente a tappeto, senza la disponibilità di aree verdi, destinate per lo sport, il gioco ed il tempo libero in genere , è indispensabile continuare ad avere un rapporto aperto con il circostante territorio.
Questo al fine di rompere la concentrazione urbana e con essa tutti gli aspetti socialmente deteriori.
E' senza dubbio necessario più che mai ritornare alla natura, al bosco, ricercando, creando e incentivando le zone a verde. 
Riscoprire questi valori significa oggi, trascorrere meglio il proprio tempo libero, favorire la vita della famiglia o di gruppo in genere, riscoprire i semplici gesti quotidiani: passeggiare, conversare, riflettere, creare nuove e sane amicizie, vivere meglio e all'aria aperta il proprio tempo libero. San Martino delle Scale può rispondere a queste esigenze. In questi luoghi natura e storia si sono integrati in una simbiosi armonica, come del resto tante e tante sono le testimonianze presenti in tutta la Sicilia. Arricchiscono questa cornice naturale alcune testimonianze storiche architettoniche, presenza di segni fisici precisi quali il vasto complesso dell'abbazia benedettina con il monastero adiacente e l'antica fortezza del Castellaccio in parte diruta che si eleva sul monte Caputo denominato anticamente Put, manufatto militare che da lungo tempo presenta un notevole stato di obsolescenza.
Entrambi i manufatti sono testimonianza della civiltà del passato, affermazione di un potere politico e religioso.
San Martino delle Scale possiede, quindi, una duplice vocazione, quella naturale (il bosco) e quella a base storico-architettonica.
La ricostituzione di questi due insiemi in un'unica area di integrazione, il territorio Sammartinese, restaurandone i segni del passato, forti e incisivi sui luoghi, permette di riqualificare la duplice vocazione a base storica quale geometria creata dall'uomo, con l'elemento naturale, il verde, il suo clima e l'orografia del territorio.
Occorre restituire una memoria storica dei luoghi, restaurando gli antichi segni del passato, in un duplice connubio fra i segni fisici naturali, i sentieri, i solchi, i dirupi e le geometrie essenziali costruite dall'uomo, le mura, i casolari, etc.
Un appropriato uso dei segni, quale chiave di lettura di una natura antropizzata, più uno sviluppo della montagna che tragga dal turismo una fonte non solo di reddito, ma di creazione e salvaguardia di ambienti naturali, permettono una ricostituzione sia naturale che economica. Solamente una pianificazione seria e reale, in una visione del bosco non puramente romantica, ma connessa, ove possibile, ad uno sviluppo dell'economia, potrà contribuire alla formazione di un reddito proveniente dall'attività turistica e ricreativa, fonte di occupazione per la collettività ed in particolare per i giovani, in un equilibrato rapporto fra attività umane, servizi ricreativi, verde sociale e beni culturali del territorio.

Natale Sabella, Architetto



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San Martino delle Scale
(vedute)





(foto r.m.)




Natale Sabella



MONREALE 

E

L'AREA METROPOLITANA 

DI 

PALERMO





Estratto da Labor N. 3 - 1988 Palermo


La questione inerente le aree metropolitane meridionali pone precisi problemi sui sistemi di governo e di gestione, in particolar modo per la Sicilia autonomistica con la individuazione delle tre città dell'Isola, Palermo, Catania e Messina.
Si constata che è in vigore dal marzo dell'86 la Legge 9 che agli artt. 19-20-21 definisce i caratteri delle aree metropolitane, l'individuazione dell'area, la sua relativa delimitazione, specificandone le funzioni individuando nell'Ente Intermedio il livello di governo per la risoluzione dei problemi del sovracomunale. Tale Legge, però è rimasta del tutto inattuata e appare per certi versi solamente indirizzata ad un rapporto fra area urbana e territorio come ricerca dei fabbisogni, creazione dei servizi da organizzare in ambito metropolitano per la residenza e lo sviluppo di una economia di tipo terziario. Siamo del parere che poco potrà realmente concretizzarsi per lo sviluppo di una città e del suo hinterland come sistema economico organizzato, fintantochè si scinderà l'aspetto economico-amministrativo da quello fisico-urbanistico. 
Pertanto, solamente attraverso una azione che sia uno strumento progettuale concreto giustamente guidato, senza la necessità di ricorrere a mega-piani, si potrà intervenire per un riassetto in toto dell'ambito metropolitano che conduca ad interventi specifici, integrati e coordinati di tipo urbanistico-architettonico ove la dimensione economica sia giustamente guidata da una cultura della mobilità, sia nel sistema dei trasporti, sia essa mobilità di tipo telematico e delle informazioni, riuscendo a sviluppare una crescita economica tutta propria e specifica. E finalmente, liberarsi da una falsa cultura del Piano, da molti osannata, che si ostenta di interpretare esigenze collettive, che si contraddice tanto quanto basta per regolare un assetto del territorio, proponendo soluzioni schematiche, rigide, impasticciate, rigidezze strumentali, intralcio allo sviluppo dei luoghi, regole che non regolano un bel nulla e dal nulla creano lacerazioni nei tessuti naturali e nei segni fisici della storia, della cultura di un popolo, prodotti dalla urgenza e dalla necessità di partecipare un pò tutti alla costruzione dell'effimero, dell'immediato non meditato, frutto di calcoli politici non lungimiranti, opposti a quanto realmente la coscienza umana impone. E' evidente che la vicenda della cittadina di Monreale e del suo territorio non potrà continuare ad essere legata a ritmi di trasformazione che discendono da meccanismi medievali che legano alla vocazione storica dei luoghi, condizioni statiche di sviluppo produttivo importanti, non legati ad una fase della realtà locale vista come modernizzazione sociale conducendo ad oltranza ad una indifferenza territoriale.
E' forse il momento di guardare al territorio in grande scala, sia in senso giuridico-amministrativo che economico-urbanistico, senza farsi trascinare dall'astrazione a tutti i costi del sovracomunale inteso nella logica di chi vede di potere ipotizzare uno sviluppo senza contare sulle capacità autonome di intervento che ci sono e devono essere promosse ed incentivate attraverso un inserimento nei processi produttivi. 
L'effetto città, nel senso più degradante, ha causato una espansione a cerchi riflessi, che ha inglobato antiche concentrazioni in un disegno non più definito, unitario,ordinato, generando solamente aggregazioni periferiche, che non riconoscono limiti fisici ben definiti.
Così è avvenuto per tutto il bacino orografico della Conca d'oro da nord ad est da sud ad ovest, sia nell'ambito comunale di Palermo, sia nel territorio di Monreale.  Una espansione incontrollata, abnorme piena di contraddizione con scarsa qualità della vita, che dell'essere città ha tratto solamente gli aspetti negativi, quali inquinamento, congestione etc., che giorno per giorno conquistano la Conca; i rilievi che la circondano, fagocitandone i suoi alberi, il suo cielo, rendendo omogeneo il territorio ed indirizzandolo ad una unica e grande destinazione d'uso, inamovibile quella legata all'abitare, alla residenza, senza servizi ed attrezzature. 
Cosicchè Monreale Centro, ed il suo immediato intorno, traggono dalla città di Palermo modelli di attività terziaria che si trasferiscono lungo gli assi di attraversamento della città storica in maniera polarizzante senza verificarne il sistema urbano, una mobilità veicolare gommata di tipo privato che causa giornalmente problemi di congestione di viabilità e di sosta dei veicoli, dovuti sia al flusso commerciale, sia al fenomeno del turismo di passaggio, sia al pendolarismo al quale la città di Monreale in riferimento al Capoluogo di Regione non potrà giustamente mai sottrarsi.
Un pendolarismo legato alle diverse attività lavorative e del tempo libero, dove la soluzione del vivere e dell'abitare è legata per la città antica alla struttura urbanistica sviluppatasi nel corso dei secoli, per la parte aggiunta dagli anni '50 sino ai nostri giorni per la incapacità di programmazione e di sviluppo della Pubblica Amministrazione.
Non si esclude altresì il flusso turistico, singolo o organizzato, che da Palermo quale punto di arrivo si dirama verso la vicina Monreale che presenta per la notorietà dei manufatti storico-architettonici e dei luoghi, un patrimonio unico rilevante nella cultura occidentale e non in riferimento solamente al quadro grandioso del Complesso monumentale; Duomo, Chiostro, Palazzo reale, ma alla stessa struttura urbana della città, alla sua storia, al ruolo assunto rispetto alle altre cittadine siciliane. Orbene ci si domanderà adesso:- sarà possibile per un riassetto sociale-economico-urbanistico di questo immenso territorio fare parte integrante dell'area metropolitana?
Riteniamo di sì, se si opererà a costruire su questo territorio un organismo amministrativo operante a carattere comprensoriale e se si avvierà un adeguato potenziamento e realizzazione del sistema delle comunicazioni e dei trasporti che permettano una accessibilità alle aree interne con precisi nodi di interscambio quali punti forti e significativi del sistema.
Ed ancora:- la città di Monreale è una identità fisica culturale storica e civile ben definita che non dovrà fondersi con la vicina Palermo, solo perchè conurbazioni ed aggregazioni urbane coesistono sul territorio, ma abbisognano nel generale come nel particolare di interventi di ricucitura e di riqualificazione.
Insistiamo ancora nel ribadire, il ruolo fondamentale e singolare del suo Centro Storico nonchè di alcune località vicine. Un polo culturale e turistico al quale si potrà forse un giorno arrivare da un tronco metropolitano ferrato di superficie (posto in alternativa al traffico veicolare) che dovrà avere con la Città Regionale un giusto ed equilibrato rapporto. Rapporto che, all'interno dell'area metropolitana di Palermo o allo esterno di essa, dovrà esserci in un dialogo affidato al buon senso ed allo strumento progettuale che abbia come base una griglia di riferimento, capace di costruire avvenimenti urbani e di paesaggio di qualità: il tutto in una confluenza economica-urbanistica, in un giusto equilibrio delle risorse, che dovrà lavorare sul territorio soddisfacendo innanzitutto la domanda di mobilità a scala urbana, metropolitana e regionale, ricordandosi che interventi esclusivamente settoriali e di tipo involutivo, non solo non assumono significati precisi ma lasciano la Sicilia al di fuori dei circuiti nazionali ed internazionali.  

  Natale Sabella Architetto  







Natale Sabella

BENI CULTURALI
UN UNIVERSO DALLE INFINITE POTENZIALITA' CHE NECESSITA DI UNA POLITICA DI SVILUPPO RAZIONALE E CONCRETA


Tratto da "COMUNICAZIONE", il Giornale dei Comuni Siciliani - Anno 6 n.40 del 14 settembre 2005


In un periodo difficile come quello attuale, con la crisi economica in continua ascesa, se si pensasse solo per un momento all'Italia, come ad uno Stato che possiede meno dei due terzi dei beni mondiali di tipo storico-culturale e in considerazione di ciò, si applicasse un modello ed una politica di sviluppo, valorizzando le proprie materie prime, "i Beni Culturali", come risorsa da conservare e valorizzare, certamente in un prossimo futuro, i livelli occupazionali e l'incremento di una parte del mercato del lavoro, diverrebbero tali da sviluppare progettualità ed occupazione.
Affrontare queste scelte, ponendosi degli obiettivi, aprirebbe ancor di più le porte alla ricerca, all'impiego di soluzioni innovative, alla catalogazione informatica, al monitoraggio, all'applicazione di nuove tecnologie avanzate ad opera di studiosi, esperti e specialisti, di operatori culturali ed infine dei fruitori, visitatori: i cittadini, gli studenti, i turisti.
Significherebbe, proiettarsi in una prospettiva economica di sviluppo del sistema Italia, dalle realtà regionali e locali, di un Paese avanzato che compete con altre realtà culturali interregionali e nazionali nel contesto europeo e mondiale. 
L'abbondanza, la disponibilità di un patrimonio immenso ed universale dei beni conosciuti ed ancora da scoprire, si pensi all'archeologia, a tutto ciò che rimane non conosciuto, ai reperti sotto terra, sommersi, al di sotto del mare, ai siti, alle opere d'arte lasciate negli scantinati dei musei, ai beni librari, ai documenti esistenti negli archivi, nelle cineteche, nelle biblioteche, nei teatri, ed ancora al restauro infinito dei beni culturali  costituirebbero, per un prossimo futuro, delle immense risorse strategiche paradossalmente equivalenti all'oro nero: il petrolio.
L'abbondanza e la disponibilità di beni purtroppo rimane sino ad oggi, al di fuori di forti interventi e di una seria programmazione economica, di investimento dei settori dell'economia, della finanza e della cultura governativa degli ultimi anni, così come è risultato dalle precedenti finanziarie e come probabilmente avverrà con la prossima legge finanziaria 2006.
I Beni Culturali, sono e restano, una grande risorsa, una qualità strategica, un patrimonio da scoprire e tutelare, richiedono strategie di crescita, investimenti, programmazione, sana gestione imprenditoriale; economia, mercato e non mercantilismo, sviluppo sostenibile e non distruzione o accaparramento del patrimonio, affermazione della tutela come principio e come realtà oggettiva, incentivazione delle attività, dei servizi e del turismo di qualità. Pertanto si pongono degli interrogativi e perchè no, si può tentare di dare alcune risposte:
"perchè il nostro Paese, che seppur dispone di importanti Istituzioni statali e regionali, provinciali e comunali, pubbliche e private, centri di eccellenza nel solco della tradizione italiana ed europea, per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio artistico" non riesce a svolgere un ruolo centrale assegnando una dignità politica ed un giusto ruolo ai Beni Culturali?
Quali sono e quali saranno per il prossimo futuro le attese di sviluppo, i comportamenti, i ragionamenti e le scelte politiche in merito?
Come faremo ad essere competitivi senza adeguati incentivi e finanziamenti in un sistema culturale ed economico moderno e globalizzato?
E per le aree depresse del Mezzogiorno e del Sud d'Italia, cosa faremo per l'inserimento professionale e lavorativo dei nostri giovani?
Bisogna ripensare il sistema Italia nelle sue diversità e specificità, capire le trasformazioni e le complessità, guardare al passato, alle esperienze positive avendo una strategia per l'avvenire.
E' urgente rendere la pubblica amministrazione realmente più leggera e snella la burocrazia, più fruibile ai cittadini e agli utenti, eliminare le sovrastrutture, favorire la cooperazione, valorizzare le conoscenze e nello specifico, il nostro modello di tutela. 
La promozione di un nuovo orizzonte progettuale con atti di programmazione intersettoriale, svilupperebbe economia e lavoro attraverso il rilancio della gestione del patrimonio culturale, dei nostri tesori, riconoscendo che i Beni Culturali, sono l'insieme di tutto il nostro patrimonio genetico, "la nostra Cultura". 
Lo sforzo da compiere consiste nel coniugare cultura umanistica e scientifica, per comprendere la storia ultramillenaria della nostra terra, dell'intero territorio nazionale, delle realtà locali, dalle grandi città ai piccoli centri, avviando una serie politica di investimenti, istruzione, ricerca, promozione e continuando l'informatizzazione dei beni patrimoniali, con iniziative di comunicazione di rete attraverso Internet.
Tuttavia lo sforzo resterebbe vano, se non fosse sostenuto dalle politiche territoriali ed ambientali, necessarie allo sviluppo delle infrastrutture territoriali di collegamento.
La peculiarità e la straordinaria ricchezza del nostro universo di beni culturali può essere la risposta alla disoccupazione, alla necessità di certezze, alla creazione di sblocchi occupazionali, duraturi ma flessibili, in una moderna visione che affonda le radici nei luoghi di appartenenza.
Spero, che le nuove generazioni, i giovani possano essere i protagonisti culturali seri di una auspicabile e necessaria rivoluzione culturale.

Natale Sabella, Architetto





Monreale - Ex monastero dei Benedettini, antivilla comunale




(foto di R. M.)






CONCA d'ORO
NECESSARIA L'ISTITUZIONE DI UNA CONSULTA DEI SINDACI PER SALVARE DALL'ESTINZIONE IL PATRIMONIO "VERDE" DEL PALERMITANO

[dal settimanale dell'ANCI Sicilia COMUNICAZIONE anno 7 n.14 del 7 aprile 2006 ed. SI.S.COM.S.r.l]



Anno dopo anno scompare il patrimonio verde, la varietà dei giardini e degli orti della Conca d’Oro. Cresce la domanda di spazio, cambia il contesto, si trasforma l’ambiente e con esso la storia antropologica di un sito meraviglioso, unico, di un ambito territoriale dove colori, sensazioni, suoni, profumi e stati d’animo, memorie ed emozioni si mescolano fra terra cielo e mare. 
Le superfici coltivate residue restano frammentarie e disgregate in un'area metropolitana che ha tanto bisogno di aree verdi. Un mosaico ambientale d'impianti colturali, sopravvive ai margini ed oltre la Città, "aree verdi" tra migliaia di insediamenti abitativi e produttivi disseminati in tutta la piana. E' a rischio la memoria dei giardini, il fiume Oreto, l'intero ecosistema della Conca d'Oro.
Si è spezzata l'unità spaziale, identificazione di un paesaggio riconoscibile, di un territorio circoscritto che ha rappresentato l'immagine secolare della Città di Palermo al di fuori della Sicilia oltre oceano, di un'icona "estetica" produttiva che appartiene ad un tempo ormai trascorso.
Svanisce giorno dopo giorno un immenso polmone sempreverde che muta e genera aree improduttive e degradate, contesti di aree preurbane, urbane e semiurbane, nella continua alterazione delle condizioni spazio-temporali. Le abnormi trasformazioni delle aree verdi e la loro riduzione di superficie ha originato un lento e costante mutamento territoriale da un paesaggio prettamente agricolo, ad un ambito di paesaggio degradato, dove l'incremento urbano, ha generato l'attuale scenario ambientale. I terreni in alcune zone restano privi di alberi e si popolano di macchie, il suolo si inaridisce, i giardini si irrigano sempre meno, le acque di falda si inquinano, cambia la qualità dell'aria, la fauna, il microclima ed il clima ambientale. Si dissolvono le risorse identitarie. Se non si interverrà per mezzo di adeguate strategie di sostegno, con programmi operativi di riqualificazione, tutela e salvaguardia del verde, delle aree agricole e degli insediamenti storici, assisteremo inesorabilmente alla scomparsa di un ricco e variegato patrimonio che vede il territorio non più come una risorsa. Giardini impiantati faticosamente e mirabilmente con piante tipiche e di qualità in un periodo storico con fini economici di produzione e commercializzazione nella Piana di Palermo fra i territori dei comuni di Palermo, Monreale, Bagheria, Ficarazzi, Villabate, Altofonte, hanno subito a partire dalla metà del 1960 un graduale abbandono delle coltivazioni. 
Fra le diverse cause degenerative interne al sistema agricolo si devono considerare:
-Una migliore organizzazione del sistema produttivo agrumicolo sul fronte orientale dell'Isola, gli attacchi parassitari infestanti ai limoneti e agli aranceti, in particolare il cosidetto "male nero", un sistema d'impianti ed agricolo sempre più obsoleto e poco competitivo, lo sfruttamento della terra, l'uso dei sali chimici e degli anticrittogamici. Non per ultimo va ricordato il secolare controllo delle acque d'irragazione "la mafia dell'acqua".
La realtà odierna vede la parcellizzazione delle aree, un uso sproporzionato al contesto, un microcosmo distinto che si assoggetta ad una indifferenza territoriale.
Una parte della realtà "agricola" in zone di medio ed alto pregio resta una felice isola verde; un esempio sono gli agrumi e i nespoleti delle borgate del palermitano, sottoposte anch'esse ad un presidio mafioso di zona. In alcuni ambiti locali persiste l'attaccamento alla terra, nella consapevolezza di esservi nati e con la tenacia di continuare a vivere ed operare sui luoghi di appartenenza con volontà e testardaggine, malgrado le colture agro-fruttifere siano sempre meno produttive ed economicamente svantaggiate.
Un amore infinito che forte della tenacia e della fatica resiste, sino al sopraggiungere della stanchezza fisica dei coltivatori superstiti, che vede nel lento invecchiamento dei giardini, sempre meno verdi la morte degli alberi. Ricordi lontani rimangono le ricche fioriture e le proficue raccolte agrumicole di arance, limoni, cedri, mandarini, risorse economiche e di sostentamento delle popolazioni della Conca d'Oro. 
Nelle campagne ogni cosa assumeva una importanza, una ritualità ed un significato; 
- il fiume Oreto e le sorgenti venivano considerate sacre, rispettata e mantenuta la vegetazione indigena delle sponde del fiume, dei canali naturali e dei crinali.
- i pozzi, le cisterne, le pietre miliari di confine, le salibbe, i recinti in pietra e i corsi d'acqua curati e tenuti in efficienza. 
Filari d'alberi si disponevano a barriere per la protezione dal vento degli agrumeti, ai lati di una trazzera, di una strada che conduceva ad una villa o ad un gruppo di case. 
Oggi, più aree della piana, appaiono molto compromesse, pur tuttavia si individuano spazi di vita, nicchie ecologiche di valore biologico.
Rari esemplari d'alberi alani di cipresso e altissime palme, si elevano isolate e fra la vegetazione. Giganti di ulivi ultrasecolari forti ed imponenti, agavi ed altre rare bellezze naturali, alberi di noce e di caccamo resistono tra rovi e macchie, tra alberi secchi privi della corteccia imbiancati dal tempo. Si rinvengono rottami e cumuli di materiali inerti riversati a cielo aperto fra vernici ed oli contaminati, percolanti nel terreno in violazione delle regole di tutela ambientale. Specie di piante esotiche importate, ambiti di sommacchi, fichi d'India e canneti, impianti di viti, a filari e a pergole, essenze ornamentali, fiori e frammenti di bordure verdi in prossimità di vetusti caseggiati o vicini a specchi d'acqua sopravvivono privi di cure colturali.
Questo immenso patrimonio per la varietà e specificità delle diverse colture, per la sua biodiversità, per la sua orografia, compone l'unità di paesaggio  della piana di Palermo e rimane una risorsa sotto il profilo sociale ed economico.
La lettura è possibile attraverso le matrici segniche territoriali quali: la morfologia dei luoghi, la varietà degli impianti arborei, le aggregazioni zonali del verde, il tracciato della terra, i solchi degli argini, delle conche, dei vattali sinuosi o retti dei giardini, i canali irrigui; 
la viabilità: percorsi, tracciati, trazzeri, viottoli, sentieri, strade, ponti; 
i manufatti emergenti: ruderi, vestigia, cappelle, edicole votive, chiese, casolari, bagli, forni da pane, malaseni, mulini, masserie, ville signorili, fornaci, gebbie, canali, abbeveratoi, pozzi, muri di recinzione, torri d'acqua, torri fornaci, fontane. 
Tanto resta riportato dalle cartografie, dalle carte topografiche, dalle riprese aerofotogrammetriche e satellitari, dalle pellicole cinematografiche, dai documentari, dalle foto, dai filmati, dai reportage giornalistici, dalle cartoline. S.O.S. è il grido di speranza, di allarme che viene lanciato per salvare la Conca d'Oro dallo scempio, dall'incuria e dall'abbatimento delle piante: un patrimonio di tutti, una risorsa dell'intera area metropolitana.
Un immenso patrimonio diversificato per zone, per ambiti, fortemente antropizzato, da amministrare con una programmazione attenta degli interventi in termini di trasformazioni superando la negatività, il conflitto territoriale, la confusione del paesaggio.
Il paesaggio della Conca d'Oro "in trasformazione", l'intero sistema territoriale deve essere interpretato ed accompagnato nel cambiamento con processi di riqualificazione ambientale, di risanamento, rivitalizzato nelle diverse azioni del mutare. Tutto ciò rende necessario e non più procrastinabile che Palermo, la città capoluogo e i centri urbani minori, concorrano insieme alla riorganizzazione territoriale complessiva delle aree degradate in un equilibrio fra sviluppo e sostenibilità, stretti in una alleanza strategica attraverso l'istituzione della "Consulta dei Sindaci". Obiettivo strategico di questa "Autorità" metropolitana di governo dovrà essere lo sviluppo flessibile, ecologico nell'ambito di un sistema unico che con progetti determinanti di pianificazione integrata e negoziale, governi e controlli i processi di cambiamento, di mobilità e di trasformazione, in sinergia  con le comunità locali, gli enti pubblici, i soggetti privati e gli attori istituzionali, le associazioni di categoria e sindacali, nell'interesse e con la partecipazione dei cittadini, delle popolazioni che animano, vivono e lavorano nel territorio metropolitano.
Le municipalità coinvolte dovranno:
-perseguire obiettivi comuni per superare l'appartenenza territoriale, coordinandosi nelle azioni di pianificazione urbanistica ed ecologica in una visione che scorge nel futuro i nuovi possibili scenari;
-costruire una prospettiva condivisa di lungo periodo, con linee e azioni di crescita economica, di scambio, incontro, di mobilità, di sviluppo sociale, promozione del territorio, salute, cultura, turismo;
-assumere responsabilità solidali, di programmazione e gestione partecipata e globale, non più rinviabili, formulando politiche territoriali attraverso soluzioni negoziate delle questioni; 
-possedere forte capacità organizzativa e di collaborazione, credere ad un progetto comune, che metta insieme competenze, idee, energie per lo sviluppo delle città e dell'area metropolitana; 
-rispettare modalità e tempi di programmazione, pianificazione degli interventi futuri e di realizzazione degli stessi; 
Il percorso dovrà tendere a:
-consolidare una metodologia progettuale che conduce sul piano paesaggistico -urbanistico e giuridico - economico, ad una strategia comune che affronti il rapporto fra tutela e sostenibilità;
-accrescere attraverso interventi di progettazione integrata, la coesione sociale e l'identità locale;
-salvaguardare in toto l'unità di paesaggio, l'dentità locale, le differenti risorse, tutto ciò che è storico, difendendo le aree verdi a rischio, guidando i processi di trasformazione, accompagnando il cambiamento, verso uno sviluppo sostenibile; 
-sviluppare e realizzare progetti integrati coerenti, osservando e comparando le strategie di pianificazione coon gli obiettivi ed i traguardi raggiunti nelle altre realtà regionali italiane ed europee, consapevoli delle proprie identità e differenze.
Natale Sabella, Architetto 




CONCA D'ORO - Vedute





(foto R.M.) 






"Un pensiero sulla bellezza"
di

NATALE SABELLA


La bellezza sulla terra è vita, movimento, vibrazione, energia, forma, materia sostanza, dimensione e colore. La si scopre appena nati, attraverso i sensi poiché in essa è contenuta ogni cosa. La bellezza ci accompagna per tutta la vita, per tutta la nostra esistenza, essa ci sostiene e ci conduce. L’uomo coglie i frutti dalla bellezza e vive la sua sublime e immensa grandezza. La generosità offerta dalla bellezza si accumula, s’insinua in ciascuno di noi, dimora dentro e intorno a noi. La bellezza si espande ovunque, non ha confini, supera qualunque ostacolo, qualsiasi barriera visibile ed invisibile. E’ visibile in un lavoro ben fatto, nell’arte, nella musica, nella matematica. La bellezza è sorella dell’amore; è eterna, percepibile, palpabile. Sulla terra è diffusa ovunque. La si trova in ogni luogo del pianeta dalle latitudini più alte agli abissi più profondi. Genera continui scenari, paesaggi. I paesaggi della bellezza. Essa è il risultato di un processo che ha dato corpo, e immagine alla vita, ovunque presente trasmette energie positive. La bellezza che offre la natura è splendente e inquietante, impetuosa, dirompente, tranquilla, serena. La bellezza è soprattutto armonia, induce emozioni e sentimenti, stati d’animo. La bellezza, ci avvolge, ci cinge, ci permea, ci circonda, ci attrae, ci coinvolge, ci sostiene, è viva dentro e fuori di noi, non finirà mai di stupirci. Ci induce a riflettere, a meditare a pensare. La bellezza del mondo è una bellezza che si rigenera, si rinnova, si trasforma, si moltiplica in altrettante diverse e differenti forme e solo in apparenza permane in una sorta quiete. La bellezza non si può non riconoscere, ammirarla contemplarla, amarla profondamente, si può finanche piangerla e rimpiangerla. L’uomo è un esteta della bellezza, ha il culto per la bellezza. La bellezza è il simbolo e l’immagine della presenza della vita, il risultato di un lungo processo iniziato miliardi di anni or sono, un processo continuo e ininterrotto che al momento si spera non si arresti mai. La Terra è un esiguo frammento di bellezza, un granulo disperso nell’infinito universo, un pianeta ricco e fecondo, che ha generato cambiamenti biologici, geologici, climatici, epocali, ma che ha sempre prodotto vita e bellezza. Il ritmo della Terra è regolato da forze immense. La terra è deputata a vivere le sue fasi e i suoi cicli entro il tempo che le è stato assegnato, che le è stato concesso, all’interno di una ordinata – caotica esistenza cosmica. Il genero umano al pari degli altri essere viventi, senza distinzione fra le specie viventi, al pari degli oggetti, delle cose inanimate, è parte di questo processo evolutivo – creativo che ha generato la vita sulla Terra, ed essendo parte del Creato non può che nutrirsi e cibarsi della bellezza offerto da madre terra. L’uomo, a differenza degli altri esseri viventi, essendo un soggetto aventi capacità cognitive, ama la conoscenza, ricerca la verità, ama scoprire e ricercare la bellezza non solo sulla Terra ma anche fuori di essa. La bellezza non ha limiti e non appartiene solo alla Terra, essa si ritrova in ogni parte dell’universo, poiché permea e invade l’intero universo. L’uomo se ama la verità, ha desiderio, ha voglia di scoprire e ricercherà sempre la bellezza, la ricerca attraverso i suoi studi, le sue applicazioni, le sue ricerche il suo lavoro. Questo perché ricercare la bellezza diviene una questione importante e fondamentale per l’esistenza umana. L’uomo con il passare del tempo, andrà sempre più a ricercare nuovi mondi, nuove dimensioni, nuovi spazi, avendo sempre il desiderio di fare delle scoperte, la cosa importante e che non dovrà mai travalicare i confini del sogno e dell’immaginazione. Questo significa immergersi nel mistero. La bellezza è, soprattutto, fonte d’ ispirazione e creatività, suscita meraviglia, stupore; non è altro che il principio animatore che muove e anima il genere umano. La sua immagine in apparenza immutabile non appartiene solo al mondo in cui viviamo, alla terra, all’uomo, apparterrà all’eternità non al tempo. La bellezza muta, si trasforma e si riproduce. La bellezza generata dalla mente umana stenta e fa fatica a resistere al tempo. L’uomo fa tutto il possibile per conservarla e tramandarla ai posteri, ma tutto ciò non è altro che una triste ed effimera illusione. Sola la bellezza nelle sue svariate forme ed espressioni può salvare l’uomo, lo potrà redimere dal male che inesorabilmente avanza. La bellezza, sarà l’unico elemento che salverà il genere umano dalla distruzione che si ripete ogni qualvolta ci si accinge a mortificare e a violentare il nostro pianeta e noi stessi. Solo la bellezza ci sottrae alla morte in vita, poiché è un dono, un presente, segno di salvezza e di speranza. La bellezza, quella interiore, se è sentita ed è profonda e l’animo umano non è selvaggio, non può che annidarsi e germogliare dentro di noi. Di bellezza si può anche morire, ma rimane incomprensibile come l’uomo non veda il male che fa alla terra e di conseguenza a se stesso. L’acqua, la terra, il fuoco, l’aria, portano in sé l’essenza della bellezza. La bellezza, comunque ed in ogni caso, si trova dappertutto; è sempre riconoscibile, sebbene si presenti sotto diverse forme, per sua natura prevale sulla bruttezza che l’uomo ha creato, come il bene prevale sul male. E’ il presente e il futuro dell’umanità, anche nell’istante nel quale giungerà il tempo in cui l’umanità non esisterà più sopra il pianeta terra. La bellezza è all’uomo prestata, non le appartiene, poiché è di tutti e di nessuno. La bellezze è verità, conoscenza, gioia infinita, è soprattutto, mistero, non conosce confini, è compagna dell’amore e della verità, è la rotta dei sentimenti e della riconoscenza.

Natale Sabella, architetto                                       




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LA CATTEDRALE DI MONREALE





Il sacro tempio, che il re cristiano Guglielmo II di Sicilia eresse per glorificare Dio, dedicato alla Madonna.

di  NATALE  SABELLA

Saggio pubblicato in concomitanza della solenne celebrazione dell’immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, 8 dicembre 2018

E’ diffuso e condiviso convincimento affermare, senza incertezza alcuna, che la Cattedrale di Monreale, <<chiesa fra le più importanti del medioevo>>, conosciuta nel mondo per l’eccezionale valore storico – artistico - religioso, conserva in sé, un mosaico d’emozioni “visive e tattili”.
Il visitatore, varcata la soglia d’ingresso si trova immerso in uno scenario eccezionale, prodotto dall’armonia insita nell’architettura chiesastica unita alla straordinaria bellezza delle immagini musive che ricoprono per intero le pareti della basilica.
Ricordi che restano indelebili per sempre oltre il tempo e la memoria nell’animo e nello spirito per le emozioni provate.
La sensazione è di rimanere coinvolti dal linguaggio universale della bellezza, dell’unicità e della diversità composita combinata da quel dolce e silente sentire che la bellezza del Duomo sprigiona unitamente agli aspetti della Fede che avvicinano lo spirito umano al trascendentale.
La basilica di Guglielmo, pertanto è la sintesi “ideale, religiosa, spirituale, politica”, il meglio di quanto è stato compiuto da Guglielmo II nell’ultimo quarto del secolo XII in Sicilia. Una fondazione regia, che non trova eguale in nessun’altra parte d’Europa: imponente, maestosa, solenne, magnificamente superba all’esterno, costruita di sana pianta su un luogo privilegiato, unico, ritenuto idoneo ad accogliere la basilica, con l’intento di glorificare il Creatore, il Cristo, il Messia Risorto, e ricordare nei secoli Guglielmo.
Si tratta di un progetto salvifico, portato a termine sotto gli auspici di una buona stella e la protezione della Vergine Maria, com’era in uso, utilizzando le “tecniche e la scienza del tempo”, questo alla luce del “sole e della conoscenza”, guidati dalla Fede, in Dio Unico e Trino, quale affermazione del “Sacro potere regale di Guglielmo”.
Eretta sopra un adeguato piano fondale, fu costruita con solide basi e materiali lapidei consoni, secondo tecniche costruttive antiche, in parte rivedute aumentando probabilmente le masse murarie in riferimento all’altezza e alla grandezza della costruzione ed alla luce dei frequenti terremoti che fecero tremare da un capo all’altro l’isola.
Un’opera unica ed eccezionale, che ha del “miracoloso, dello straordinario”, per i tempi di realizzazione, le energie profuse, le risorse umane e le ingenti somme di denaro impiegate alle quali si dovette ricorrere per la costruzione, <<fondi della Corona e sostanze personali dello stesso Guglielmo>>; per la capacità di avere elaborato un triplice programma: <<scenografico – ambientale>>; <<strutturale - stilistico architettonico – scultorio>>; - << musivo, teologico – iconografico - estetico>>, d’ampio respiro e completo, con una visione d’insieme che suscita oggi come nel passato un grande interesse, ammirazione, stupore finanche smarrimento e commozione.
Una Chiesa regale, costruita a testimonianza del messaggio, operato dall’Altissimo.
All'interno è un susseguirsi di pagine d’avvenimenti storici riportanti immagini, scene, personaggi, ambienti all’aperto, figure di santi e angeli, piante, animali, decorazioni, poste su tutte le pareti del sacro tempio; un connubio d’arte, culture, tradizioni, felicemente combinate e che interpretano, senza distorsione alcuna, gli aspetti della Fede Cristiana, il messaggio Cristologico, la cultura, la storia della Chiesa del tempo.
Una chiesa cattedrale adeguatamente connessa all’abbazia benedettina, con un fulcro centrale costituito da un grande chiostro quadrangolare. Il monastero governato da un abate, a capo di un consistente numero di monaci, “devoti e fedeli al sovrano”, giunti a Monreale dalla Campania, che si presero cura dell’Opera di Guglielmo, in quanto portatori del “Messaggio”, di Pace che il re si apprestava a compiere.
L’insieme che da forma al complesso abbaziale costituisce un’opera organica inscindibile,<<chiesa, monastero - chiostro>>, un tutt’uno e l’uno vive in funzione dell’altro. L’interesse che suscita  conduce ad emozioni intimamente legate alla sfera dello Spirito umano, oltre la ragione stessa, qualcosa che si sente, si respira nell’aria dentro il Duomo e nel chiostro.
Qui l'arte si traduce in sintesi, armonia, bellezza, contemplazione. L’utilizzo dell’arco a sesto acuto di duplice origine, <<islamica e nordica>> nel duomo, l’inserimento dell’arco trionfale che annuncia il transetto non sono altro che il segno della compiutezza raggiunta. Come pure l’utilizzo delle colonne di altezze diverse, degli splendidi capitelli che sembrano appena scolpiti, <<elementi appartenuti a templi non cristiani>>.
Un puro concentrato d’arte, di capacità tecniche, che  assurge a pura forma di “poesia”, tanto è l’equilibrio reso, l’armonia ricercata, il rapporto che intercorre fra pieni e vuoti, il passare della luce naturale che penetra dalle finestre all’interno della chiesa.
Ma ad ogni modo la sequenza della narrazione del dettato teologico, il filo conduttore dello svolgersi della storia Sacra Cristiana, reso vivo e vitale dal vigore della forma, dai colori, dalla disposizione e dall’accostamento delle tessere musive, dall’equilibrio riportato dalle raffigurazioni, dall’utilizzo dello sfondo dorato dei mosaici, rappresentano una forma d’arte antica che diviene  tramite,  espressione del pensiero teologico che si traduce in bellezza e annuncio.
Messaggio, ampiamente presente in tutta la sua spettacolare e singolare bellezza nelle formelle di un altrettanto importante capolavoro, la porta bronzea, realizzata a Pisa dal maestro scultore e architetto Bonanno Pisano.
Il fatto più incredibile per i tempi è stato il risultato complessivo che si è ottenuto, ovvero il far “cooperare”, insieme maestranze appartenenti a culture, lingue, Credi, fedi e tradizioni diverse, il cui unico scopo era di portare a compimento la Chiesa regale, di Guglielmo II. L’avere gestito un ampio cantiere, vasto e articolato, suddiviso in aree di lavoro, in un sito inizialmente impervio e non facile da raggiungere agevolmente; qui era necessario avvalersi di animali trainanti carri, di bestie da soma, deputati a trasportare i materiali necessari alla costruzione del complesso abbaziale e della cattedrale.
Un cantiere che, intorno al 1174, ha dato corso alla costruzione di una fra le più grandi basiliche del tempo. Un’impresa portata a compimento, nonostante le varie difficoltà incontrate in ordine a fatti “politici avvenuti in quel periodo, di “ordine militare, e soprattutto religioso”. Una vera e propria azione di presa, gestione e mantenimento dei territori sotto l’aspetto strategico, oltre che economico, commerciale, proprio a dimostrazione del potere regale, della presenza dell’istituzione ecclesiastica di Guglielmo in un’area della Sicilia non di facile gestione.
Assume grande importanza il dettato “trascritto in immagini e rappresentazioni” lasciato ai posteri, avente carattere divulgativo e conoscitivo riportato dalle Sacre Scritture in immagine. Un messaggio d’ampio raggio, utilizzato come cassa di risonanza, della raggiunta forza di Guglielmo, un Avvenimento che anticipa a Principi e Sovrani, la grandezza, l’importanza del Regno di Sicilia nell’area Mediterranea.
 Tutto questo per dettare un nuovo tempo: quello che, nonostante la comunanza e la generale pacificazione raggiunta, segnava la fine della dominazione Araba in Sicilia.
Era un monito alle etnie Arabe, di fede musulmana, nate e cresciute nell’isola da diverse generazioni, e a tutto coloro che continuavano a fare resistenza e si opponevano alla Corona.
Una Cattedrale abbaziale innalzata per dimostrare ed affermare lo Status politico e religioso in contrapposizione alla pratica di fede musulmana ancora presente in Sicilia, che per tanto tempo aveva relegato la Chiesa Bizantina in ambienti nascosti, lontani dalla zona.
Era così diventato un luogo simbolico per quella Cristianità da tempo costretta alla fuga.
 Il Duomo Monrealese pertanto è il frutto, la volontà preordinata di fermare anche l’avanzare del potere della chiesa Romana nel Regno, testimonianza della stabilità e del potere esercitato dalla monarchia Normanna; una Chiesa sorta per glorificare nei secoli Dio e lo stesso re Guglielmo fondatore del Sacro Tempio.
Rimane alla base di tutto questo, l’aver predisposto anticipatamente un accurato progetto che si poneva l’obbiettivo di costruire il Tempio, e dimostrare che la struttura monarchica, regge su solide basi consolidate. Una cattedrale, affiancata ad un’abbazia di nuova fondazione, munita e sorretta da monaci, al vertice l’abate – vescovo, divenuto in seguito Arcivescovo, di una delle più vaste diocesi territoriali che ha reso la Chiesa Metropolitana di Monreale “eccelsa ed incontrastata” in Sicilia, nelle isole minori e oltre i domini e i possedimenti del Regno dell’Italia Meridionale.
Risorse fondamentali per la vita della Chiesa di Monreale erano le rendite ricavate dalle terre dell’arcivescovado, denari utilizzati per custodire, mantenere, reggere, curare e fare prosperare la Cattedrale ed il monastero. Una Cattedrale abbaziale concepita ed ispirata al principio assoluto della grandezza e della bellezza, della dignità regale, costruita con criteri e connotati che qualcuno direbbe ai giorni nostri, all’avanguardia, per le tecniche adoperate, i servizi connessi e annessi realizzati nella cittadella “santa”, fortificata in un arco temporale alquanto contenuto.
La Chiesa a croce latina a tre navate e tre absidi Romaniche recuperano nell’impostazione l’architettura bizantina ed islamica; suddivisa in spazi gerarchizzati, principiati ed illustrati da immagini musive, ove era dato ascoltare a pochi la parola di Dio, sentire e non vedere al di là della transenna di marmo che divideva l’area liturgica dalle navate, il respiro, le voci dei monaci, i canti, le preghiere, le suppliche, la voce del silenzio.
Una cattedrale che ha dato corso a percorsi – religiosi, umani, di fede, concepita per riscattare ed affermare la rinascita del Cristianesimo latino, nella quale si officiava il rito Bizantino. Una costruzione ideale che poneva fine a quanto era avvenuto nell’isola, con Guglielmo I, una chiesa rinnovata “autonoma,  libera” sorta per consacrare Dio Padre, rivelatosi all’Umanità tramite il Cristo Redentore, un gioiello di fede e di arte d’incommensurabile bellezza, d’indiscusso valore spirituale, un concentrato di ricchezze consacrato sull’altare delle arti.
Un suggello, un diadema dedicato alla Vergine Madre di Dio protettrice dell’insigne, gloriosa Cattedrale, una chiesa nella quale la preghiera rivolta al Signore Dio, unisce e rimane viva senza dividere i Popoli.
Una Cattedrale, pensata come un’imponente nave di pietra, della “conoscenza” e della fede, con la prua posta ad Oriente“arca di Alleanza tra il Padre Onnipotente, e i figli”, come un sostegno alla fede, ad un credere incondizionato in un Dio unico e Trino che si è rilevato all’uomo, nel frangente del cammino umano.
Un tempio innalzato a Dio, un modo tangibile per testimoniare la parola del Signore, le Sacre Scritture ed enunciare il mistero della fede, il desiderio di un re “giovane”, che si era illuso di diventare un giorno imperatore” di un regno grande e vasto rimasto in attesa del nascere di un figlio legittimo che non ci sarà mai.
La chiesa di Dio è la reggia di Guglielmo, una chiesa nata per narrare e illustrare le opere, la vita, i miracoli del figlio di Dio, Gesù di Nazareth, morto ed infine risorto, unitamente alla Storia della Chiesa e dei Santi; una fiaccola che propaga la sua luce ed irradia da oltre otto secoli scintille di fede, conoscenza, amore, misericordia, concepita quale mezzo e tramite tra la terra e il Cielo, che illumina il cuore e la mente e riscalda le profondità dell’animo umano.
Un dono di libertà, deputato a far dialogare le coscienze più controverse, un simbolo della rinascita religiosa, segno di magnificenza e gloria, eretto ai margini del Parco Reale di Guglielmo, sull’apogeo naturale dello scenario dei monti della Conca d’Oro, sulle pendici naturali del versante di un monte chiamato in Arabo: Africa.
Un luogo spogliato dell’ambiente naturale rigoglioso che lo ricopriva, che ha dato vita ad una stupenda Cattedrale.
Un posto ove la quiete, la tranquillità predominava sopra ogni cosa. Un Tempio cristiano che però consente a tutte le civiltà di apprezzare l'immanenza di Dio e di capire quanto possa essere possibile concentrare nell'arte le varie culture, nella pace e nell'armonia, seppur frutto di equilibri politici.
<< Il Padre Celeste, severo nella sua grandiosa immagine, posto nell’alto del catino dell’abside centrale>> è un Padre accogliente, misericordioso, che si rivolge a tutti e il Cristo Risorto venuto per sostenere l’uomo è immagine della vita terrena e di quella dopo la morte. La Cattedrale di Monreale è luogo dell’esegesi biblica espressa tramite l’arte musiva che consente conoscere il suo unico Figlio, Gesù, Cristo inviato per risorgere e trionfare sopra la morte, inviato dal Padre a redimere l’umanità e sconfiggere il peccato.
Monreale è stato quindi un sito, appositamente selezionato fra tanti altri luoghi nel quale si sono convogliate le pietre necessarie per l’edificazione di una grande Cattedrale, che riceve luce dal sole e dalla stella più brillante che appare luminosa e lontana nella notte.
Una cattedrale “fortezza” costruita in un’epoca apparentemente tranquilla, piuttosto controversa, in una Sicilia abitata da molteplici etnie.
Un gigante di pietra scolpito, sostenuto dalle colonne della conoscenza e del sapere, sorrette dalla Fede, concepito per descrivere la storia autentica dei Vangeli e promuovere il trionfo dei cieli in terra.
Un libro Sacro che narra la Bibbia nelle cui pagine di pietra restano impresse ed impaginate immagini a mosaico, poste liberamente alla vista di quanti desiderano vedere la luce di Cristo, sotto la protezione degli arcangeli Gabriele e Michele e la super visione degli angeli celesti, il benestare del profeta Giovanni Battista, sotto attenta dettatura troviamo le parole in immagini delle Sacre Scritture, in un trascorre di scene ed episodi che illustrano la Storia dei Vangeli, il Vecchio e il Nuovo Testamento.
Una sequenza d’immagini puntuali, dettate da conoscitori profondi della Bibbia, non da menti istruite, da persone illuminate dalla “Luce Divina”, conservatori delle tradizione, d’immagini care e volti conosciuti, raccolti in appositi scenari accarezzati dagli sporadici bagliori dei raggi del sole, illuminati sul lato ad oriente da una stella non facilmente visibile posta sul lato destro dello spigolo arrotondato del catino dell’abside, indicante il cammino da percorrere. Un ipertesto sacro di “pietra” che supera per contenuti ed immagini quanto riportato nelle “Bibbie imperiali” d’età Carolingia e Ottoniana.
Un annunzio a Popoli e Sovrani lontani. Un Codice biblico custodito da monaci in una cattedrale fortezza fondata da un re, irradiazione del Regno Normanno Siciliano, fecondo e ricco d’immagini, di significati, nella quale ogni cosa rimane al suo posto, organicamente composta e raffigurata su “tavole musive vergate” accompagnate da diciture e scritture essenziali, da tramandare alle genti di Sicilia, ai Popoli del mondo conosciuto, il messaggio Divino della Chiesa Universale.
Un tempio che è scaturito come l’acqua fuoriuscita da una fresca sorgente, dal sentimento, dalla fede di un sovrano cristiano, Guglielmo II, re di Sicilia (nato a Palermo nel 1153deceduto il 18 novembre dell’anno 1189). Un re che ancorché giovane, muore in modo improvviso, inaspettato, senza un erede, che si è prodigato ad innalzare la Chiesa di Monreale nel corso della sua intensa e breve esistenza.
Un tempio nel quale Gesù è presente nell’Eucaristia, è la luce che sconfigge  la morte e predomina sul buio delle tenebre, nel  quale in alto, alla sommità dell’arco trionfale che precede l’immagine di Cristo sopra il catino absidale, è posto il trono vuoto che attende il ritorno glorioso di Cristo Giudice Universale.
Un grazie illimitato all’illuminato sovrano Guglielmo II re di Sicilia
di Natale Sabella  - architetto  All rights reserved

PUBBLICATO SULLA TESTATA GIORNALISTICA ON LINE MONREALE NEWS IN DUE PARTI,  17 e 18 NOVEMBRE 2015 ; SUL BLOG MONREALE FUTURA CITTA’ E TERRITORIO, IN DATA 25 DICEMBRE 2015






"L’ABBAZIA DEI CENTO MONACI" 

di Natale Sabella


Documento pubblicato (*) in concomitanza dell’apposizione della targa a ricordo dell’inserimento del DUOMO di MONREALE,  nell’itinerario arabo – normanno, dichiarato  dall’UNESCO, patrimonio dell’umanità.

          Poco è dato sapere riguardo ai monaci venuti a popolare l’abbazia di Monreale, se non, che l’abate Benincasa di Trinità di Cava nell’anno 1174, si era premurato di inviare due monaci al monastero di Monreale per far sì che il  monastero fosse dotato delle cose necessarie e che trascorsi due anni, Guglielmo II re di Sicilia chiedesse all’abate Benincasa di Trinità di Cava, di inviare a Monreale, un ulteriore congruo numero di monaci.
          Sappiamo inoltre che cento monaci, con a capo l’abate Teobaldo, insieme ai ministri del re, partiti dall’abbazia di Cava si imbarcano a bordo della triremi reale ed approdano in Sicilia il 20 marzo dell’anno 1176, vigilia della festività di San Benedetto, accolti con tutti gli onori da re Guglielmo che consegnò loro il monastero.
          <<Cento, numero, perfetto, il quadrato di 10, ritenuto “magico, divino”, dalle religioni e dai Pitagorici>>. Cento monaci, nè più, nè meno, provenienti dall’abbazia di Santa Trinità di Cava, in Campania osservanti la Regola Benedettina, Cluniacense, scelti personalmente, dall’abate Benincasa, per doti e capacità, che prendono possesso di un monastero ancora probabilmente in fase di completamento, che da lì, a qualche anno sarà considerato il maggiore centro religioso della Sicilia.
          Un monastero, in un certo senso, all’”avanguardia”, orgoglio, e vanto della Chiesa di Roma, e della monarchia Normanna,  che, vedrà nella sua conduzione, (dal 1176 al 1230) tre monaci, del Sacro Ordine Benedettino  Cavense. Teobaldo, il primo, abate -  vescovo, “noto, in vita per la sua fama di santità”, (1176 – 1178), Guglielmo, abate, consacrato arcivescovo per mano di Alessandro III, Papa , (1182 – 1188), e Caro, suo successore, arcivescovo di Monreale (1194 e il 1230 ?).
          Per Guglielmo, aver portato a “compimento” un’opera così importante assunse un valore, un significato di non facile comprensione per l'uomo moderno, anni luce
distante dal modo di pensare, di quel tempo, da quel sentimento religioso “astratto”, difficile da essere compreso ed interpretato, poiché a prevalere era l’invisibile sul visibile, il sogno sulla realtà.
          In Guglielmo, il sogno è mezzo, tramite, tra il mondo divino e la realtà umana, motivo che lo ha indotto a compiere un’azione di mediazione in cui egli stesso è  esecutore “materiale” del messaggio celeste, manifestato dall’Onnipotente all’umanità, tramite il figlio dell’Uomo, Gesù Cristo, il Salvatore, inviato sulla terra a redimere l’uomo dal peccato.
          In verità, Guglielmo, non fa altro che rendere “visibile”, un “mondo”, misterioso, al quale intende dare forma e, consistenza. L’intento, glorificare Dio, sostenere, la fede in Cristo, avvicinare, l’uomo, a conoscere, e vedere, il Volto umano del Padre, attraverso l’immagine di Cristo (vero Dio e Vero uomo), il Pantocratore.
          Motivo che porta Gugliemo a realizzare un progetto straordinario e speciale: la monumentale Ecclesia di Monreale, un gigante di pietra, maestoso, imponente, solenne, nel quale perpetuare il culto divino eucaristico, (simbolo, della fede cristiana). Un progetto che fa riferimento a sincretismi stilistici, di matrice culturale diversa di derivazione Romanica, Bizantina, Islamica, chiamati ad interpretare in chiave, “rinnovata” il culto cristiano Cattolico nel segno della tradizione liturgica Bizantina.
         Una chiesa in cui lo spazio è pensato, come sequenza, d’immagini ordinate, (ricchezza spirituale, culturale, storica) narranti episodi Biblici, leggende sacre e profane. Un raccontare, attraverso il linguaggio dell’arte musiva, la tradizione dei Padri della Chiesa, la cultura Sinodale, mostrare Gesù di Nazareth, bambino, giovane, uomo adulto. Spazio ove la parola tace, cede al silenzio, e si affida all’immagine. Capolavoro musivo, scultoreo e architettonico, unico e straordinario, di una perfezione, e una compiutezza mai vista prima.
          Compendi, “fotogrammi” di pietra viva dai sfavillanti colori, che narrano la storia della Chiesa, dalle origini al tempo di edificazione della cattedrale. Quadri, da considerare autentiche “sceneggiature” musive, con viste interne ed all’aperto, paesaggi, “terrestri, marini”, alberi, palme stilizzate, animali, avvolti da ornati geometrici, e rappresentazioni floreali.
          Un luogo ove ogni cosa, risponde ad un preciso significato fa rifermento a tradizioni religiose, e culturali, ebraiche, e cristiane, il cui filo conduttore, è il trionfo dell’immagine, dell’iconografia sacra, che insieme alla parola scritta, giungono a scaldare, l’animo umano, con il  dono della fede.
          Una moltitudine di figure in mosaico dal contenuto simbolico su fondo d’oro ricoprono le pareti della Basilica, col manto generoso dei mosaici colorati. Episodi biblici, invitati a proclamare Parole di Verità, diffondere Amore, rendere misericordia, infondere saggezza, trasmettere fede, speranza e concedere misericordia.
          Un corpus straordinario di figure composte, solenni, di scenari terreni “paradisiaci” di una bellezza tale da togliere il fiato, animare il respiro, imprimere nella memoria, nel ricordo, il messaggio salvifico, di Gesù di Nazareth.
          Non è un caso, se Guglielmo, ricorre a modelli e sistemi spaziali gerarchizzati  “classici”, pone, uno accanto all’altra la pianta a croce greca e la pianta basilicale a croce latina, accostamento ideale e perfetto, considerato il risultato raggiunto.
          E’ nel modulo che si ripete il “miracolo”, compiuto che genera proporzione,  misura, dispone geometrie, attribuisce allo spazio maggiore tridimensionalità, diffonde armonia, aggiunge bellezza,a bellezza.
          Il risultato, felice combinazione tra area sacra del Santuario, spazio della liturgia, delle sacre cerimonie, dell’adorazione, della divinità Sacramentale e il corpo di Cristo. “Cielo, e Terra”, insieme e lo spazio “laico - profano”, l’aula della basilica,  luogo dell’assemblea e raduno del Popolo di Dio.
          Chiesa, irripetibile, fortezza munita con annesso un monastero Benedettino, complesso fortificato, frutto di egemonie culturali – storico, artistiche di tradizione islamica, bizantina, romano antica. Centro del potere politico con funzione religiosa, con finalità ed esigenze feudali.
Imponente opera da gestire e governare nella sua interezza, motivo che porta re Gugliemo II a popolare l’abbazia, con i monaci benedettini di Santa Trinità di Cava e non con monaci appartenenti ad altri ordini religiosi.
           Questa in sintesi la chiave di lettura, che ci fa comprendere, il motivo che induce Guglielmo, a realizzare un complesso chiesastico,  importante ed autorevole come quello di Monreale.  Luogo “sacro, simbolico”, regale e prezioso “contenitore”  che accoglie dentro di sé l’universo, “divino” e il mondo umano.
          Un complesso edilizio religioso, funzionale e “moderno” al quale conferire  piena, autonomia, importante e fondamentale per la gestione ed il governo di un territorio vasto, abitato da genti in prevalenza di fede islamica, di religione mussulmana, portatrice di culture e valori islamici, un progetto attuabile solo attraverso la presenza autorevole della Chiesa cristiana latina d’Occidente.
           Un modo per attuare la “Re conquista”, di una realtà, feudale, instabile e controversa, difficile da gestire, e governare. Uno dei motivi che porterà Guglielmo ad affidare il complesso abbaziale ai monaci di Cava, sotto la Regola di San Benedetto e le “costituzioni” di Cluny, fedeli custodi della Fede cristiana, portatori di un bagaglio religioso e spirituale, detentori del “sapere, della conoscenza”, provati maestri nel gestire in autonoma patrimoni fondiari vasti e complessi.
           Monaci Benedettini, impegnati a lavorare in condizioni non facili. Per l’abate, di Monreale signore, principe feudale, delle terre dell’abbazia di Monreale, arcivescovo, dal 1182 (bolla di Lucio III), un compito arduo,  che lo vedrà impegnato a vigilare e controllare le proprietà feudale, le attività agricole, e silvo – pastorali, a  far valere la legge e i diritti feudali, ad attuare un equilibrio sociale “tollerabile”.
           Se si tralascia da parte quanto riportato dalle cronache, è la Storia a venirci  incontro e a farci comprendere anche qualcosa di più.  Ed allora, è il caso di mettere in evidenza i primati posti in capo, alla Comunità di SS. Trinità della Cava.
Prima fra tutti, che la comunità Cavense è parte di una prestigiosa, consolidata, e affermata “Congregazione”, che sovrintende ad un gran numero di chiese, priorati, badie e monasteri, (centinaia e centinaia), parte di una rete capillare estesa che controlla buona parte delle regioni della Bassa Italia, su cui esercita, il dominio diretto.
          Un Ordine, “riformista”, impegnato, nella mediazione politica e nell’arte della diplomazia, attento ad esercitare la giustizia sociale, diffondere la Pace, compiere azioni a vantaggio della popolazioni locale e del ceto nobiliare, (baroni, Normanni, Longobardi), con profonde conoscenze nel campo agrario, botanico, economico e  commerciale, che sebbene svolge la sua attività “missionaria” entro le mura del monastero, determina, la sorte ed il destino delle popolazioni.
          Un Ordine monastico, legato ad un luogo speciale, e privilegiato, la sacra basilica di Cava dei Tirreni in Campania, nella quale si sono resi operosi eremiti, e penitenti vissuti in grazia di Dio, Beati, e Santi della Chiesa Cattolica Romana. Monaci benedettini, portati a guardare in faccia la nuda realtà, amare il Prossimo, e avere  grande interesse riguardo il lavoro manuale.
Intellettualmente attivi, dediti alla scrittura, e traduzione di testi, all’arte nelle sue molteplici forme ed espressioni.
          Strutturato gerarchicamente, devoto servitore della Chiesa Cattolica di Roma, dalla quale dipende direttamente, che si avvale talune volte di servitori domestici, di condizione libera o servile.
Operatore di pace impegnato ad agire per conto della Chiesa, di Roma, debole, impreparata, quando è chiamata ad eleggere il Pontefice, succube delle scelte di potentati nobili che, per propria convenienza, fama di potere, sete di rivalsa, si contengono, il potere, al punto tale da condizionare la Chiesa, nell’elezione del Pontefice, attraverso i suoi cadetti.
           Una potente, ricca, comunità monastica che detiene ingenti tesori e ricchezze,  che la Monarchia Normanna ha modo di incrementare, quando se ne presenta l’occasione, con donazioni a favore della Congregazione abbaziale Cavense. Altro dato a favore dell’Ordine Cavense è che esercita il controllo diretto su gran parte delle attività commerciali e produttive.
           Dalla lettura di alcuni documenti storici emerge che la Congregazione curava il commercio ed il trasporto delle merci, sia per  terra, che per mare, ulteriore fonte di entrate che si aggiunge alle ricchezza provenienti dalla gestione dei possedimenti. Il fatto stesso che le navi da trasporto commerciale dipendessero dall’Ordine Cavense conferma e rafforza ancor più, il senso della questione.
         E così,  come avvenne per l’abbazia di Cava, per i monasteri Basiliani, di rito greco – bizantino, Guglielmo, assegna all’abbazia di Monreale, uno seguito l’altro, a sei anni dall’insediamento dei monaci, ulteriori possedimenti che si vanno ad aggiungere ai precedenti, concede ulteriori diritti e privilegi, conferisce patrimoni  immobiliari in diversi luoghi e città del Regno.
          Un accrescere  la ricchezza che ha come conseguenza un aumento del potere e un rafforzare l’abbazia Monrealese, sotto il piano economico, giuridico e politico, sino a che la Chiesa di Monreale sia un “Principato Ecclesiastico”, autonomo e indipendente.
          E sarà forse per questi motivi che Guglielmo II, inizia a sottrarre alle maggiori Chiese, dell’Isola, parte dei beni, ne riduce la giurisdizione, a favore della prediletta, Chiesa di Monreale.
          Il progetto, di Guglielmo, appare chiaro, evidente, logico, sin dal principio. Rendere quanto più stabile un territorio “ricco e produttivo”, non facile da gestire e amministrare. Ricorrendo se necessario anche all’uso della forza.
Un progetto che è possibile attuare, se si provvede a realizzare non tanto un avamposto militare, ma un centro stabile, (per l’appunto una abbazia) dal quale impartire azioni di comando e ai quali far seguire azioni di controllo.
          Motivo che porta Guglielmo a sottomettere le Chiese di Catania prima, (Papa Lucio III) e Siracusa dopo, (Papa Clemente III), alla Chiesa basilica metropolitana di Monreale.
          Fattori tutti favorevoli, ad accrescere, e rendere visibilmente potente, autorevole, finanche “temibile” l’abate - arcivescovo di Monreale, Signore spirituale e temporale, investito del mero e misto imperio, maggiore prerogativa che il sovrano Normanno poteva a quel tempo concedere.
          Un principe – arcivescovo che governa per diritto regale con potere pieno sulle  popolazioni ricadenti i territori di appartenenza dell’arcivescovado di Monreale, un comprensorio di terre, tra valli, monti e colline, animato da corsi d’acqua, alimentato da ricche sorgenti, parte di un entroterra, situato nella Sicilia Occidentale, produttivo, abitato da coloni e villani, disseminato di casali e mulini percorso da tracciati di percorrenza pubblica, attraversato da strade alberate. Un territorio il cui paesaggio è molto diverso da quello attuale, per varietà e tipologie di impianti colturali adottati, dagli Arabi di Sicilia.
          Diverso, nella portata di fiumi e nei corsi d’acqua, nelle quantità di polle  sorgive, ridotte, e impoverite, alcune non più esistenti.
          Una realtà feudale, che Guglielmo scompone, seleziona e divide in Divise, nelle quali il casale  è il luogo dello svolgersi delle attività umane, sociale e di lavoro, “motore dell’economia rurale agricola, delle attività del commercio e delle attività manuali ed “artigianali”. Realtà nella quale il castello, il maniero fanno parte integrante di un sistema difensivo ancora più ampio.
          Luogo nel quale si ritrovano a stanziare mussulmani avversi alla Corona, giunti da altre parti dell’isola, che si sono insediati nelle città di Jato e Entella, centri urbani, attivi al tempo della fondazione della Cattedrale di Monreale.
          Due centri che pur distanti tra loro hanno in comune la presenza di etnie  provenienti originariamente dall’Oriente Islamico, rimasti in contatto con i centri d’Africa e d’Egitto. Entroterra, via di accesso e di collegamento all’Agrigentino, ai porti bagnati del mare d’Africa. Un distretto soggetto a rivolte e guerriglie, focolaio che si riaccende ogni qual volta, sono messi in discussione gli interessi delle comunità che in esso stanziano, soprattutto quando giunge il tempo di rendere i servizi e pagare i tributi al Signore feudale.
          Una sorta di “riserva”, nella quale i mussulmani giunti da rifugiati si sono insediati e hanno fatto sì che questo territorio diventasse produttivo e rigoglioso, un territorio alquanto controverso, al quale mancano riferimenti “Occidentali”, posto  tra la Valle dello Jato, l’Alta Valle del Belice e il Vallo di Mazara.
          Un’area feudale da rimettere in sesto e che ha bisogno quanto prima di essere gestita, governata e mantenuta secondo le regole e il diritto feudale. E allora, chi, se non un’abbazia adeguatamente attrezzata ed organizzata potrà sovrintendere, e porre sotto  controllo, un comprensorio, sconfinato, vasto quale quello Monrealese?
Chi più dei monaci di Cava ha la forza, la determinatezza, le capacità, il carattere di porre in campo azioni indirizzate a trasformare il territorio ed a far convergere i proventi, e gli introiti ricavati all’abbazia di Monreale?
          Chi meglio dei monaci di Cava può provvedere al mantenimento, ai bisogni, alle necessità del monastero, e sostenere la maggiore chiesa dell’isola, la Metropolitana chiesa di Monreale?
          E chi se non i monaci Cluniacensi potrà rendere “migliore” una realtà,  che ha  bisogno di essere quanto prima di essere “Occidentalizzata”?
         Adesso mi si consenta di prendere in prestito la frase dello psicanalista Statunitense, Robert Hopke, “Nulla nasce per caso”, che ci aiuta a comprendere le ragioni che portano Guglielmo II a vedere i monaci di Cava come coloro che più di altri possono guidare l’abbazia di Monreale.
          A tal proposito farò riferimento ad un episodio accaduto nel 1174, pressa poco coincidente con l’arrivo dei due monaci Cavensi a Monreale. Un episodio riportato dalle cronache del tempo che ci consente di capire qualcosa in più, ma non tutto, che sintetizzo nel modo che segue: Guglielmo, soggiornando a Salerno, si ammala, in modo grave, dolori intestinali insopportabili, lo affliggono, (calcoli!!, forse, dissenteria?).
           In quella circostanza riceve, le cure dei monaci dell’abbazia di Santissima Trinità di Cava, sino a che non è guarito, episodio successivo a quando si trovava  nella città di Taranto.
E’ indubbio che le cure premurose che Guglielmo ricevette dai monaci di Cava hanno finito con il determinare, una maggiore attenzione nei confronti dei monaci, ma non al punto tale da far pensare che questo evento sia stata la causa determinante nell’affidare l’abbazia di Monreale ai monaci di Cava.
           Un evento che certamente si poteva concludere in modo tragico con la morte del sovrano, che Guglielmo intese valutare come presagio, segno favorevole, che gli ha consentito di guarire dalla malattia e continuare a regnare, che sembrerebbe incoraggiare Guglielmo a che il monastero e la sua amata Chiesa venisse  affidata ai Benedettini di Cava, come segno di riconoscimento e gratitudine.
          Giunti a questo punto, è il caso di guardare indietro nel tempo in modo da  comprendere l’importanza dei rapporti che i Sovrani e Principi Normanni, avevano intrattenuto con i monaci di Cava, prima ancora di Guglielmo, e come immensa e grande era la devozione, che Principi, Papi e Sovrani riversavano nei confronti del  Sacro luogo, di Cava.
          Un fatto di grande importanza che non va trascurato, punto da cui partire che consente di chiarire meglio le cose e mettere al suo posto il pezzo mancante del nostro puzzle.
         Il legame tra la monarchia Normanna e i monaci di Cava, risale prima dell’intronizzazione di Guglielmo II, a Ruggero II, e prima ancora ai Principi Normanni, che in diverse occasioni hanno mostrato la loro grande benevolenza concedendo all’abbazia, donazioni, privilegi e diritti.
          E questo per il fatto, che l’Ordine monastico Cavese è custode fedele di un luogo da molto tempo ritenuto Sacro e Santo, la Grotta Arsicia, eremo del nobile monaco Alferio Pappacarbone, (divenuto Santo), monaco dell’abbazia di Cluny, che si era trasferito a Cava dei Tirreni, fondatore dell’abbazia di Cava nell’anno, 1011, che aveva avuto in visione la Santissima Trinità sotto le sembianze di Tre raggi luminosi, provenienti da un solo punto della roccia.
          Un episodio che porterà fama, lustro, notorietà al Sacro Luogo ed alla Congregazione Cavese.
          E fu proprio grazie a questi, più che buoni e ottimi rapporti intrattenuti tra la monarchia Normanna e l’Ordine Cavense, che l’abate B. Benincasa, legato al re Guglielmo II, da grande amicizia finì col cedere e provvide ad inviare all’abbazia di Monreale, cento monaci con servitori al seguito (non menzionati nelle cronache ufficiali), che attraversano  il Mare Tirreno, e la vigilia del ventuno marzo del 1174, giungono in Sicilia, in una terra dove non era mai stati.
          Questo è quanto avvenne al’incirca tredici anni prima, la scomparsa improvvisa del cristiano e credente, Guglielmo, II re di Sicilia che Dante annovera fra le cinque anime dei giusti nel Canto XX nel Paradiso della Divina Commedia (cielo di Giove),  e che gli storici finirono con l’appellare con “buono”.
          Sappiamo pure che i contatti e i rapporti tra l’Abbazia di Santa Trinità di Cava ed il monastero Benedettino di Monreale non si interruppero, anzi continuarono. Come sappiamo pure che a seguito dell’inaspettata morte di Guglielmo II, la situazione mutò improvvisamente in negativo.
          Come,del resto, siamo al corrente che le abbazie rimasero legate ad un filo invisibile che le riconduce all’ Abbazia di Cluny, nella regione di Borgogna, al centro della Francia e ad una figura di rilievo, Henri de Blois. E’da Cluny, la strada che conduce alla badia di Cava, che da più di un millennio propaga la luce della Fede di Cristo da quel sacro luogo dal quale un raggio splendente si è spinto sino a raggiungere e ad illuminare un’altra nuova e grande, religiosa e spirituale abbazia, quella di Monreale.
di Natale Sabella – architetto all rights riserved
(*) documento pubblicato in due parti il 13 e 20 Novembre c.a. su Filo diretto Monreale.it, (testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Palermo al n.29 del 30.12.2009). Direttore editoriale: Luigi Gullo – Direttore responsabile Alex Corlazzoli
























750 ° anniversario della dedicazione delle storiche Cattedrali di Cefalù e Monreale
(1267 – 2017)

Personaggi, luoghi, storie, avvenimenti di due realtà tra loro poste a confronto, Cefalù e Monreale

di Natale Sabella

Tre quarti di millennio sono trascorsi dal giorno in cui le Cattedrali di Cefalù e Monreale sono state consacrate.
Dalla storiografia ecclesiastica apprendiamo come i riti di dedicazione abbiano avuto inizio nello stesso anno, il 1267, quindici giorni l’uno dall’altro. Il 10 aprile, giorno della consacrazione della cattedrale di Cefalù. Il 25 aprile consacrazione del tempio di Monreale. Due celebrazioni avvenute alla presenza del Legato apostolico di Papa Clemente IV, Raoul Grosparmy normanno di nazione, Vescovo di Albano. Italianizzato con il nome di Rodolfo Grasparmi, nominato cardinale da papa Urbano IV, nel concistoro di Albano tenutosi a Viterbo. Proveniente dalla Francia al pari dei pontefici Urbano IV e Alessandro IV. Eminente personalità della Chiesa di Roma, residente in San Clemente in Laterano. Già vescovo di Evreux e canonico di Bayeux, diocesi di Normandia.
Legato pontificio incaricato di presiedere alla dedicazione della chiesa normanna di Naro nel medesimo anno in cui Carlo I D’Angiò, sopraggiunge in aiuto del pontefice e compartecipa alla sconfitta di re Manfredi di Sicilia, (eletto dai baroni dell’isola nel 1258) nella battaglia di Benevento. Un episodio da considerare di auspicio alla dedicazione delle cattedrali che avverranno l’anno successivo in Sicilia. Diverso nella persona che compierà i riti di celebrazioni che in altre chiese d’Italia aveva visto il Papa a presiedere la liturgia. Nella Sicilia di Carlo d’Angiò spetta al legato pontificio, il compito di consacrare le chiese normanne. Celebrazioni, che assumono un valore e una importanza eccezionale, anche per il modo con il quale procedono i preparativi e per come sono state celebrate le solenni funzioni religiose.
Un rituale liturgico al quale assistono fedeli giunti da ogni parte del regno, prelati, chierici, nobili, visitatori pellegrini. Una opportunità, occasione per revisionare il rito liturgico, offrire stabilità alle celebrazioni sacramentali, e al sacramento dell’Eucaristia. Nonché modo per attenuare controversie, contrasti, rapporti animosi, nei Capitoli delle Cattedrali tra ordini religiosi e clero secolare. Rimuovere acredini e rancori. Mostrare la forza, la pienezza della Chiesa di Roma, alle sedi episcopali e al mondo feudale dell’isola.
È Clemente IV ad incoronare re di Sicilia di Carlo D’Angiò, (figlio del re Luigi VIII,e fratello di Luigi IX re dei Francesi), il Papa che attraverso combinate azioni politiche, diplomatiche, militari ha determinato il destino della Sicilia, e far si che sieda sul trono un principe angioino d’arme francese. Ed è in questo clima di apparente stabilità politica che Clemente IV provvede alla dedicazione delle Chiese regie normanne di Cefalù e Monreale.
Per la Chiesa di Roma è un modo per riappacificare gli animi in seno alle comunità ecclesiali, in un  tempo in cui i dominatori dell’isola sono francesi, la “mala Segnoria “ come l’apostrofa Dante Alighieri nel canto VIII del Paradiso. I feroci oppressori del popolo Siciliano, che dopo quindici anni dalla consacrazione delle cattedrali sono soggetti a furibonde rivolte di popolo e baroni, che coinvolgeranno in pochi anni l’isola tutta.
Si tratta della guerra dei Vespri Siciliani come riportato nei libri di Storia. Epilogo culminato con la cacciata degli Angioni dall’Isola. Chiusa questa parentesi storica, proiettata in avanti rispetto a quando sono avvenute le celebrazioni, tenteremo di comprendere perché la Chiesa di Roma abbia celebrato la festività delle dedicazioni con una solennità tanto così imponente. Alcune risposte potrebbero essere le seguenti: occasione per ridimensionare la liturgia di rito greco, affermare la dottrina della Chiesa cattolica, rafforzare quanto più il Culto divino, la liturgia, il canone giuridico quali strumenti validi per garantire l'osservanza delle regole; concedere e assegnare diritti e privilegi che spettano solamente alla Chiesa Universale di Roma conferire. Condurre a sé quel che prima era diviso. Sostenere che in forza del diritto divino sia il Pontefice di Roma a concedere al sovrano il potere di regnare.
Per la Chiesa di Guglielmo si tratta dell’inizio di un nuovo tempo, di un nuovo percorso. Linea di demarcazione fra quanto avvenuto in passato e quanto deve avvenire in futuro. Compiere il rito liturgico nella lingua latina e non più nella lingua greca diviene un passaggio obbligato. Così come ridimensionare quanto più possibile ogni aspetto che riguardasse la liturgia della tradizione della Chiesa greca in Sicilia, legata al patriarcato di Costantinopoli. <<…La neolatinizzazione condotta dalla dinastia Aragona nel Trecento, la caduta di Costantinopoli nel 1453 ed il Concilio Tridentino (1545 – 1563) unitamente a considerazioni di opportunità politica posero definitivamente in minoranza la Chiesa Bizantina di Sicilia nel corso del XVI secolo…>>.
E’ quindi probabile che le consacrazioni abbiano rappresentato una opportunità, una occasione in tal senso. L’inizio di un nuovo tempo che porterà la Chiesa di Monreale a guardare avanti e aprirsi all’esterno, aldilà, oltre le mura dell’Abbazia. Questo nonostante il potente, sacro ordine monastico benedettino dell’abbazia Monrealese dal tempo in cui ha occupato il monastero si era tanto prodigato ed agito in tal senso. Per la Chiesa di Monreale, dal giorno seguente alla festa della dedicazione, si è dato il via ad un nuovo e glorioso periodo di apertura al mondo, attraverso, in primo luogo, l'incontro con i pellegrini.
Accolti con benevolenza secondo lo spirito della tradizione della Regola benedettina all'interno della Basilica. Per la Chiesa di re Ruggero, qualcosa di molto diverso. Come diversi lo sono stati i monaci conventuali, che si sono presi cura della chiesa, i frati  mendicanti di Sant’Agostino che Ruggero fa giungere a Cefalù da Bagnara Calabra.<<Gli agostiniani, infatti, sono i più indicati a insediarsi in questa zona dove è ancora forte il rito bizantino, avendo più volte dato grande prova di elasticità tra le diverse esigenze religiose. Potranno, dunque, mediare tra la nuova fede latina portata dai Normanni e quella tradizionale greca>>.
Non è, infatti, un caso che il movimento dei crociati si riconosca nella regola di Sant’Agostino. Ma discutendo sulle origini di Cefalù non possiamo non ricordare che essa fu Città fortezza nella quale al tempo di dedicazione della basilica si era insediata l’aristocrazia feudale che faceva riferimento alla influente famiglia Ventimiglia la cui origine era Ligure.
Signoria feudale che da li a poco entrerà in diretto contrasto con la civitas episcopale. Un esercizio del potere in diretto contrasto con quello a guida episcopale. Realtà nella quale chi sta al capo di tutto è un nobile “laico” feudale che si contrappone al vescovo che dipende dal pontefice. Ma ciò che a tanti ancora oggi non è dato sapere è che le regie cattedrali rimasero collegate dal tempo della fondazione alla tradizione episcopale greca. E che nello specifico, il Santuario del Tempio di Monreale è espressione di una spazialità architettonica di matrice culturale bizantina. E le solenni liturgie che in essa si svolgeranno seguono la liturgia di tradizione greca e quindi non è un caso se <<all’inizio la nuova fondazione viene collegata alla tradizione episcopale greca rappresentata nella cappella di Santa Kiriaca presso Monreale>>.
Il fatto di collegare la fondazione di Monreale alla  chiesa di Santa Ciriaca, che si trova immersa nelle campagne fuori la Città di Palermo (nella cui chiesa trova rifugio e celebra messa in segreto il Vescovo Nicodemo), non è altro, che un intelligente escamotage al quale ricorre Guglielmo II al fine di conferire dignità canonica alla fondazione e portare a compimento in autonomia il Tempio e l’annesso complesso residenziale del monastero. È con la bolla del 1176 che il Pontefice riconosce (perchè posto innanzi ad un avvenimento compiuto) canonicamente il nascente monastero benedettino di Monreale. A questo deve aggiungersi quanto ha inciso scegliere, come luogo di sepoltura di Ruggero II e di Guglielmo II, le cattedrali di Cefalù e Monreale. Scelta che conferisce dignità ed esprime maggiore valore simbolico alle due reali fondazioni. Azioni da interpretarsi come gesto, segno di indipendenza ed autonomia dei monarchi, nei confronti della Chiesa di Roma.
Una decisione che sottolinea e pone in maggiore evidenza le fondazioni delle regie Cattedrali dalla Chiesa di Palermo, sede dell’arcivescovo, che dipende dal pontefice di Roma. Nello specifico la chiesa di Monreale assolve più funzioni: chiesa di palazzo associata  ad un monastero di obbedienza reale e mausoleo. Chiesa la cui  giurisdizione è di gran lunga superiore alla Chiesa di Palermo. Anche i contesti nei quali si maturano gli eventi, riconducibili per la chiesa di  Cefalù al periodo che intercorre tra il 1131 e il 1170 e per la chiesa di Monreale, tra il  1174 e il 1189, è assai diverso. Come diversa è l’epoca e quanto accadde in quel frangente della storia. Epoca nella quale le Chiese regie in un modo e nell’altro restano al centro della storia Siciliana ed Europea. Alcune parole, adesso, si devono spendere in relazione ai due sarcofagi di porfido della chiesa di Cefalù. Si tratta di sacelli porfirei commissionati da re Ruggero donati dallo stesso alla Cattedrale di Cefalù nel 1145 che Federico II, nel 1225, sottrae forzatamente alla città, insieme al tesoro della Cattedrale, per poi trasferirli nella Chiesa Cattedrale di Palermo. Come pure è da valutare quel che avviene causa l’improvvisa scomparsa dei sovrani. Ad iniziare da quando muore Ruggero II, la cui morte improvvisa non consente il proseguire i lavori del duomo. Preludio al trasferimento dei sarcofagi reali e del seppellimento del corpo del sovrano in tomba situata nella Chiesa Cattedrale Metropolitana della Capitale, Palermo. Questo nonostante il Capitolo Cefaludense avesse addotto una serie di motivati argomenti e si fosse tanto speso affinché i sarcofagi rimanessero nella Chiesa di Ruggero II e non fossero spostati a Palermo.
Tutt’altra cosa quel che avviene a Monreale, alla morte di Guglielmo nel 1189. La  chiesa ultimata di Guglielmo consente di accogliere le tombe reali dei suoi familiari. Al suo interno, come noto, troviamo posto il primo sarcofago di  Re Guglielmo I, e a seguire i sacelli dei principi, fratelli di Guglielmo, ai quali fa seguito la tomba della regina madre di Guglielmo, (1182) Margherita di Navarra. E nel 1270 il sepolcro di Luigi IX Re di Francia, canonizzato Santo nel 1297. E secoli dopo il sarcofago cinquecentesco che contiene le spoglie del fondatore della Cattedrale Guglielmo II. Terminata questa concisa sintesi è il caso di soffermarci su come Guglielmo si ponga nei confronti del Pontefice in termini giuridici e canonici: <<… la libertà di azione del re, per quanto riguarda la realizzazione del suo piano nella Capitale Siciliana era limitata dal punto di vista giuridico canonico; d’altra parte egli doveva avere grandi interessi, per ragioni politiche a non contrastare il Papa, come aveva fatto suo nonno a realizzare i suoi piani in pieno accordo con Roma…>>. La considerazione da farsi in proposito è la seguente: Legazia Apostolica si, Legazia Apostolica no, la monarchia normanna, è parte dell’Occidente latino. Politica e religione, un connubio perfetto inscindibile, in un'epoca altrettanto controversa ed instabile. Un tempo in cui ogni azione, ogni atto che compie il sovrano se non adeguatamente calibrato, conduce inevitabilmente a creare rapporti non buoni, motivo pertanto di scontro con il Pontefice romano. Fatti che comunque andavano evitati. Non in ultimo, la questione canonica e ogni cosa che attiene e fa riferimento alla liturgia e al rito. La consacrazione delle cattedrali conferma quanto ho sostenuto prima.
Ma in realtà, quindi, cosa hanno in comune le due cattedrali, essendo trascorsi tra una fondazione e l’altra più di quaranta anni?
La cattedrale di Cefalù risale come anno di fondazione al 1131; la fondazione del duomo di Monreale al 1174. Ciò che alla fine risulterà evidente è che nonostante le cattedrali siano parte dello stesso “Stato” normanno, il contesto nel quale si trovano è completamente diverso l’uno dall’altro, come sono diversi l’ambiente, la realtà sociale, la politica, l’ economia  ed il territorio. E questo non solo con riferimento ai luoghi di edificazione; come è noto, infatti, la Cattedrale di Monreale è parte di un complesso territoriale molto più ampio e vasto rispetto a quello di Cefalù, collegato precedentemente sia al Parco Reale che ad una precedente magione.
La Chiesa di Cefalù prossima al mare, quella di Monreale, invece, adagiata sopra il rilievo di un alto pianoro che  guarda il mare.
Solo una cosa accomuna le due località: la bellezza dei luoghi, l’abbondanza e la freschezza delle sorgenti. C’è certezza soltanto nel sapere che i fondatori hanno avuto in comune una grande fede, credere in Dio unico e Trino e che  entrambi i sovrani sono passati alla storia come colti e “giusti”, dediti a mantenere alto il prestigio della monarchia normanna, in un tempo che ha visto avvicendare, vescovi,  papi, antipapi, dignitari, imperatori e sovrani, nel quale, peraltro, non sono mancate epidemie, terremoti, battaglie, guerre cruente mitiche, epocali. Un fatto solo è certo, la Chiesa di Guglielmo, dai primi anni della fondazione mantiene a sé il titolo di Città. Un fatto che non deve sorprendere e stupire nessuno, essendo Monreale in origine un nome non di città. Monreale, è prima un borgo e secoli dopo una stupenda città arcivescovile. Solo a pochi anni dalla fondazione con la bolla di papa Lucio III, “Licet Dominus” (1182 o 1183?) la sede di Monreale elevata ad arcivescovado, riporta per la prima volta la dicitura Monreale. Il primo documento a sancire la nascita della chiesa, e non della Città di Monreale. Ma bisogna attendere la consacrazione del 1267 affinché i primi pellegrinaggi giungano all’abbazia di Monreale non nella basilica di Guglielmo, la cui stella è volta ad Oriente, ma nella basilica cattedrale della Chiesa di Roma, saldamente stabilizzata ad Occidente. Chiesa e Santuario Mariano. Se invece si pone attenzione alla Chiesa di Cefalù ed al monastero edificato dall’illuminato Ruggero (coronato da Anacleto antipapa della chiesa di Roma) forse appare in qualche modo comprensibile il motivo per il quale il normanno Ruggero II, figlio, successore di Ruggero I, fece rinascere l’episcopato, Cefaludense non più esistente da  più di due secoli.  Ancora una volta è la cronaca a venirci in in aiuto e ci consente compiere una lettura “cronologica” degli eventi accaduti. L’avo del buon Guglielmo, re Ruggero II, per edificare la Chiesa di Cefalù, chiede e riceve l’assenso dell’arcivescovo Ugone di Messina. Ma è con bolla di Anacleto II, del “settembre 1131”, che la chiesa di Ruggero è consacrata Basilica, Cattedrale; ma devono più o meno trascorrere altri quarant’anni per essere riconosciuta dalla Chiesa di Roma. L’intenzione del sovrano è rifondare la primitiva sede episcopale, riportare in auge e in vita la chiesa Cefaludense ridare dignità al suo Status. Dignità goduta in passato,poiché chiesa importante dalle origini antiche, come antico è importante è il suo insediamento urbano. Luogo del mito e della bellezza. Città, ricca, prospera e con differenti toponimi. Piazza culturale, economica, mercantile. Cristiana, intorno al IV secolo (le preesistenze venute alla luce negli ultimi decenni del secolo passato testimoniano e confermano la sua antica esistenza). Città fortezza, avamposto, in età bizantina e mussulmana. Città munita, fortificata. Lume della fede, oltraggiata, oscurata, più volte rasa al suolo. Onte che Ruggero elimina e cancella quando caccia via dalla città i “fratelli mussulmani”. Città portuale, adagiata su un leggero declivio delle coste settentrionali della Sicilia, prossima a Palermo, più distante da Messina. Insediamento sicano - fenicio, infine, in parte greco. Città decumana in epoca romana. Punto di arrivo dalla via del mare. Luogo dal quale partire, intraprendere viaggi per mare e per via terra, attraverso aspri, tortuosi valichi montani che conducono verso le montagne più interne della Sicilia. Polo strategico e militare. Sede vescovile dall’ VIII secolo. Essendo il vescovado di Cefalù prima ancora della dominazione araba appartenuto al patriarcato di Costantinopoli. La volontà di Ruggero II, fare risorgere dalle ceneri la Città e la Diocesi. Un fatto prioritario per Ruggero del quale la cattedrale che innalza al Salvatore è segno, testimonianza di fede. Fede e devozione, non alla “Chiesa”, che ne è tramite, ma a Gesù Cristo, al quale rivolgere un voto di ringraziamento. Ecco il motivo che anima il sovrano a dedicare con fervido sentimento religioso, la Chiesa al SS. Salvatore.
Sì proprio Ruggero II, re di Sicilia, padre nobile, costruttore di uno  “Stato moderno”, solido reso efficiente e ben organizzato, secondo le regole del diritto comune. Uno Stato che riunisce in un solo regno i territori conquistati dell’Italia Meridionale. Un’impresa non solo audace ma straordinaria tenuto conto che avviene nel Medioevo. La sua Cattedrale, da lì a pochi anni, sarà centro e testimonianza di una fede che seppur legata ad un mondo religioso antico, si esprime attraverso linguaggi bizantini. La Chiesa, un segno concreto, tangibile, di rinascita, e splendore, di una rinnovata ricchezza che ricorda Cefalù in età greca. Città nella quale, sotto il dominio bizantino prima ed arabo dopo, gli abitanti trovano rifugio sul pianoro della rocca, simbolo che ha  contraddistinto da tempi immemori la Città di Cefalù, per la sua particolarità. Orientata con sapienza, eretta con una acume intelligenza non comune di un sovrano che prima ne ha stabilito e ordinatone l’impianto e poi l’ha dolcemente adagiata al piede, discosta dalla rupe. Cattedrale il cui sfondo è un pezzo di cielo infinito. Un re che ha acconsentito a chi vi abita e dimora di costruire le loro case entro il perimetro delle mura cittadine, che  Ruggero ha innalzato sulle primitive rovine. Resti di mura megalitiche molte antiche. Corrisponde a verità quel che monsignor Salvatore Fertitta (abate e canonico della cattedrale di Cefalù, Vicario Capitolare rettore della sede vacante episcopale della diocesi per ben 33 anni), ha avuto modo di scrivere e pubblicare in un suo libro dal titolo: (Cenni storici su la chiesa di Cefalù edito a Napoli, tipografia Moschitti, 1847) con il quale ha inteso esprimere  l’importante dell’episcopio Cefaludense: nella greca Diatiposi, (autorevole fonte d’epoca bizantina)  che sopra detta è, presso l’Assemanni, all’appendice di Carlo da San Paolo, l’ordine dei vescovi al siracusano metropolita suffraganei, è a questo modo:<<…1,°Catanae,2°Tauromeneii,3,°Messanae,4.° Cephaledii,5.°Termarum,,6:°Panormi,7,°Lilybaei,8.°Trocaleorum,9.°Agrigenti,10.°Tyndarii,11.°Leontines,12.°Aleses, 13.°Melitae…>>. Cefalù, in ordine numerale e non alfabetico, è quarta diocesi episcopale suffraganea dell’arcidiocesi metropolitana, chiesa di Siracusa. (suffraganea, che segue le disposizioni e obblighi di diritto canonico). Ruggero II, alla luce della storia quando si accinge a realizzare la cattedrale di Cefalù, ne recuperare la storia e le sue gloriose tradizioni, ne riconferma dignità e prestigio.
Cosa assai diversa da ciò che avviene con la fondazione regia della Cattedrale di Monreale quarantatrè anni dopo. Il progetto di Guglielmo è quello di realizzare di sana pianta la chiesa, alla quale assegna la sede episcopale. Un progetto che Guglielmo porta a “compimento” in modo straordinario, grandioso, preciso e puntuale. Chiesa abbaziale concepita negli stili e nella forma, a un repertorio classico antico, che la monarchia riscopre e fa proprio. Un intervento che ricorre a risorse non da poco, di tipo economico, materiale culturale ed umano non indifferente. Concentrate in un luogo inizialmente impraticabile, impervio sul quale è stato eretto un grandioso complesso architettonico, splendido, definito, completo, dal quale è possibile contemplare un panorama di una bellezza incomparabile. Chiesa abbaziale, “monumento” dell’anima e dello spirito, simbolo della rinascita cristiana latina nell’isola. Luogo appositamente sorto per narrare, celebrare la Storia della Chiesa, mostrare la Santa immagine di Cristo Redentore, il figlio di Dio, che parla e dialoga col Padre Celeste, onnipotente e misericordioso, Gesù di Nazareth venuto sulla terra ad offrire la redenzione e la salvezza eterna. Ciò che nella chiesa di Cefalù inizio e termina con l’immagine del Pantocratore, nella chiesa di Monreale, dal Pantocratore si espande sino a farsi Cosmo. Monreale, in modo diverso da Cefalù, incarna una concezione nuova, “moderna”.
Lo dimostra il fatto stesso che Guglielmo sceglie con cura un sito “vergine ed incontaminato” sul quale erigere la maggiore chiesa del regno di Sicilia che dedica alla Madre di Gesù, ascesa in cielo ed alla quale conferisce il nome di Santa Maria La Nuova. Chiesa,  abbazia e vescovado di uno “Stato dentro un altro Stato” dal quale governare in autonomia assoluta vasti territori, gestire esistenze e vite di uomini e donne. Chiesa abbaziale alla quale è suffraganea la Chiesa di Siracusa nel 1188, quella che un tempo fu la prima chiesa di Sicilia, Siracusa nella cui comunità, San Paolo, venne a spargere la parola del Vangelo per far germogliare il seme del cristianesimo.
Ultimato questo raffronto viene naturale affermare che la gloriosa storia delle cattedrali normanne di Cefalù e Monreale sono la faccia  di una sola medaglia.
Tanto che la ricorrenza della consacrazione del 1267, finiranno col rivestire un grande significato simbolico. Se poniamo inoltre una giusta attenzione alle “ricorrenze liturgiche”, ed osserviamo con una lente di ingrandimento fatti ed avvenimenti avvenuti, ci viene molto più facile comprendere quel periodo storico. Due avvenimenti vicini, fra loro suggellati da due Santi, il Profeta Ezechiele, che la Chiesa festeggia il 10 aprile e i Santi, Stefano vescovo e martire e Marco evangelista che la Chiesa festeggia il 25 aprile. Santi venerati dalla Chiesa d’Oriente e dalla Chiesa Occidente, secondo la tradizione del calendario liturgico del  martirologio di San Beda e di altri  santi autori.

NATALE SABELLA, Architetto


SAGGIO PUBBLICATO SU FILO DIRETTO – MONREALE IT IL 25 APRILE 2017
E VDS (GIORNALE DEI VESCOVI SICILIANI) IN DATA 26 APRILE 2017


CONSULTAZIONE BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

ENCICLOPEDIA ITALIANA di SCIENZE, LETTERE ED ARTI. TRECCANI.
SULLE PRESTAZIONI pretese DALLA MENSA VESCOVILE DI CEFALU’  BREVI CONSIDERAZIONI DI ENRICO PIRAJNO BARONE di MANDRALISCA. Palermo. Stamperia di Franc. Lao 1844. (Stamperia di D. M. A. CONSOLE VIA S. Giuseppe ab  Arimathea 1844) RIPRODUZIONE ANASTATICA. FONDAZIONE MANDRALISCA DI CEFALU’. PUBBLISICULA PALERMO, Giugno 1999.
SALVATORE FERTITTA. Brevissimi Cenni Storici su la Chiesa di Cefalù. Stampato per la prima volta a Napoli nel 1847. RISTAMPA ANASTATICA a cura della Fondazione Culturale Mandralisca CEFALU’.Pubblisicula Industria Grafica Editoriale, Palermo, Marzo 2001.
CEFALU’ Kalòs LUOGHI di SICILIA Collana monografica a cura di Guido Valdini, Edizione Ariete. Palermo - Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo Corso Ruggero 77, Cefalù.
La Cattedrale di Palermo Studio per l’Ottavo centenario della fondazione a cura di Leonardo Urbani. Sellerio editore Palermo via Siracusa 50, Palermo 1993.
IL TESORO DELLE CITTA’ Strenna dell’Associazione Storia della Città Edizione Kappa. VI - 2008/2010. Giuseppe Antista. Cefalù: l’assetto urbano in età medievale.
RODO SANTORO, Spazio Liturgico Bizantino Nell’Architettura Panormita DAL XII AL XVI Secolo, Renzo Mazzone editore. I.l.Palma  Palermo – San Pauolo, 1978.
Beni Culturali ed Ambientali Sicilia anno II – N.3-4 1981. Bollettino trimestrale per la divulgazione delle attività degli organi dell’Amministrazione per i Beni culturali ed ambientali della Regione Siciliana. Stampa POLIGRAF/Palermo.
De VITA, ET REBUS GESTIS. GUGLIELMI II SICILIAE REGIS MONREGALENSI ECCLESIAE FUNDATORIS LIBRI QUATUOR MONREGALI MDCCLXIIX EXCUDEBAT CAJE TANUS M. BENTIVEGNA  IMPRESSOR CAMERALIS POTESTATIBUS PERMITTENTIBUS.
SALVATORE SPOTO, SICILIA SEGRETA E MISTERIOSA. VICENDE ENIGMATICHE FAVOLE POPOLARI E CRONOCA CONTEMPORANEA  di UN’ISOLA  CONTROVERSA. NEWTON  COMPTON  EDITORI. PRIMA  EDIZIONE EBOOK GIUGNO 2016.
KITZINGER, E.  – I mosaici di Monreale, Palermo, 1960.
KRONING, W. – Il duomo di Monreale e l’architettura normanna in Sicilia, Palermo, 1965.
LA CHIESA di MONREALE Annuario 1997. Stampato nel mese di Gennaio 1997nella Tipografia – Litografia Puccio di Fiorello Paolo&C. Via Castiglia Partinico.
GIUSEPPE MANDALA’, VICENDE E FIGURE DELLA CHIESA MONREALESE SILLOGE  ARCIDIOCESIDI MONREALE ARCHIVIO  STORICO  DIOCESANO. STAMPA  TIPOGRAFIA  FIORELLO. Via  Castiglia 69/71 Partinico (PA) ANNO 2015.





































Dinamiche storico - evolutive dei rioni Pozzillo e Carrubella

di Natale Sabella


Tratto da:  Anno 1626 -  Edizione 2017
A CURA DELLA CONFRATERNITA DEL SS. CROCIFISSO DI MONREALE (*)


Trattare circa l’aspetto storico - urbano dei rioni Carrubella e Pozzillo di Monreale, è compito arduo da percorrere, ma non impossibile se chiamati a scrivere un articolo in cui la sintesi è la necessaria tecnica da applicare per consentire al lettore di ricevere informazioni riguardo gli abitati. Ancor più, se chi scrive si rivolge ad un pubblico eterogeneo. Fatta questa breve premessa, è doveroso sapere che lunghi silenzi si alternano a periodi d’intenso risveglio, affinchè il cuore antico di questo insediamento umano, si avvii a divenire il centro della vita sociale, civile, culturale di un urbano in divenire: la futura Città di Monreale. Un contesto articolato, conseguenza di stratificazioni sedimentate. E se è pur vero che non c’è monrealese che non conosca i luoghi di cui si tratta, molto spesso sconosce la sua storia. Sarà pertanto utile cogliere con occhi diversi realtà trascorse di un urbano che ha avuto come punti cardine le chiese San Vito e SS. Salvatore, la fontana del Pozzillo, Casa Veneziano. Un contesto di edilizia civile e religiosa, non particolarmente esteso, e pur tuttavia rilevante, importante sotto l’aspetto storico, antropologico, chiamato a relazionarsi con le vicine Contrade Arancio e San Sebastiano. Alla luce di questi presupposti risulta più agevole cogliere il delinearsi di un sito omogeneo già nella metà del ‘500, conseguenza delle trasformazioni avvenute in epoca precedente, insomma il luogo più antico della città. Un compendio abitato, sottoposto a mutamenti ripetuti e trasformazioni consistenti. Ritengo quindi ogni volta se ne presenti l’occasione o sia utile ai fini di una maggiore immedesimazione del lettore, operare dei fermo immagine, dei flash descrittivi che agevolino la comprensione della genesi “evolutiva” dei rioni Pozzillo e Carrubella, le dinamiche maturate, il rapporto che l’abitato ha avuto con le emergenze monumentali, la Cattedrale abbaziale e il territorio vallivo e montano. Idem per i tragitti, i percorsi di un urbano chiuso su stesso, successivamente aperto alle contrade, al territorio, per mezzo delle nuove arterie viarie terminanti nelle porte cittadine. Aperto verso un esterno, tutto da scoprire, che consente agli abitanti cambiamenti importanti, come il passaggio da una economia di tipo “domestico”, ad una economia mercantile. Aver intrapreso lo scambio economico, commerciale, consente il miglioramento delle condizioni stesse


         
                  Charles Claude Bachelier, Monreale (sic.) – Veduta generale, Parigi 1848, litografia



di vita che, in virtù di una economia non più di sussistenza ha generato mutamenti esteriori, e che prende a prestito colori, tinte nuove, tali da rivisitare “l’estetica” dell’abitato. Non per nulla intorno a questo antico luogo simbolico si crea una particolare e suggestiva atmosfera. Non è un caso se vi dimori la famiglia Veneziano. Pensiamo per un momento ai culti, ai rituali religiosi che in essa si svolgono, i rapporti sommersi, sottaciuti, che gli abitanti hanno con il mondo della magia e dell’occulto, l’importanza sociale, culturale, che i luoghi della partecipazione, le Confraternite, offrono. Lo svolgersi periodico delle processioni quaresimali, anticipatrici della processione annuale del 3 maggio, (nata dall’atto della Deputazione della Sanità del 30 Aprile 1625), il passare tra le strette vie statue di Santi, condurre in processione il legno della Croce, il lento, faticoso peregrinare dell’effige del Crocifisso condotto a spalla. Indicativo a tal proposito è l’atto del notaio Baldassare Mili dell’11 gennaio 1626, dove si legge: il Crocifisso uscito dalla Collegiata «tiri affaccio le case d’Antonino Fragapane, et venga dritto et entri nella vanella delle case di Pietro Lo Seggio, tirando per la strata publica del Pozzillo esca nella strada di San Francesco per insino a San Castro, e poi cali per la via grandi e per la piazza publica e si riduchi alla propria Chiesa [Collegiata], et ita fieri et observari debeat anno quolibet omni futuro tempore in perpetuum [e così si faccia ogni anno in perpetuo]». Un fatto è certo, tutto questo non si sarebbe mai potuto realizzare senza la volontà dell’arcivescovado e la costruzione di un palazzo arcivescovile. Data la particolare circostanza, non si può fare a meno del riferimento ad un’epoca storica controversa e complessa che ha visto la terra di Sicilia sottoposta all’egemonia Spagnola. Sarà quindi obbligo citare un illustre personaggio religioso, l’arcivescovo Venero (1620-1628). Tenendo presente che il religioso, cavaliere, letterato e poeta Antonio Veneziano è defunto da ventisette anni quando si insedia Venero a Monreale e Pietro Novelli è un giovane attivo pittore venticinquenne nel 1628. Venero è un attivo, operoso investitore ed “urbanista”, un prelato che mostra grande riguardo per il popolo monrealese e la chiesa Collegiata Farnesiana, amata creatura e sua sposa, verso cui pone grande attenzione ed impegno. Pastore, Signore ecclesiastico, amministratore illuminato che ha a cuore le sorti della comunità monrealese afflitta e straziata dal male della peste che porta con sé: premurandosi affinché il flagello della peste non tocchi la Città. Una epidemia insinuatasi a causa della negligenza e dell’agire di uno sconsiderato incosciente, nonostante la civile e religiosa città di Monreale sia stata appositamente recinta con mura. Un vescovo-principe spagnolo che utilizza risorse rilevanti e realizza il cappellone del Crocifisso (1625-1628), che riconferma il suo personale impegno verso la Chiesa Collegiata e attua la costituzione del Capitolo dei Canonici, che fa il possibile affinché Monreale sia sempre più “civile, religiosa e produttiva”. Un centro che ha ragione di esistere solo quando tra il 1418 ed il 1449 si edifica il palazzo arcivescovile, che ha consentito il sorgere di un abitato che mai era esistito prima e che si relazionerà con le contrade. Insomma, comincia la trasformazione di quel che era un borgo rurale in un centro cittadino, che segna il divenire del luogo in cui sorge la fontana del “Pozzillo” nel centro dell’abitato. Una Signoria ecclesiastica che ai fini produttivi promuove l’incremento demografico, consente all’urbe in nuce, in divenire, di accogliere contadini, artigiani, maestranze, “produttori di reddito” e all’arcivescovado, di introitare i primi diritti esigibili. Un avvenimento che prova come l’abbazia, sino a metà del Quattrocento, rimane immersa nel suo originario silenzio e priva di un intorno urbano. A questo punto, vediamo un po’ cosa era successo poco più di due secoli addietro, quando Papa Gregorio IX elegge nuovo abate, un monaco di Montecassino, avocando a se la nomina. Un gesto di grande significato politico, con cui il Pontefice pone sotto il suo diretto controllo l’Arcivescovado di Monreale. La premessa di un contrasto che vide contrapporre benedettini e arcivescovo, protrattosi nel tempo con risvolti negativi riguardo la comunità monrealese. Un grande silenzio sovrasta Monreale tra Trecento e Duecento, nessun ordine mendicante è presente poiché non esiste ancora una comunità “civile”. Sappiamo solo che fuori dell’abbazia vivevano dei “borgesi”, presenza che Federico II attesta in un documento del febbraio 1212, indicandone la posizione e la etnia: ad occidente arabe “saracene” ad oriente cristiane. Riguardo la genesi delle contrade si rinviene dalle fonti storiche che l’utilizzo di questo nome non avviene certo per caso: contrada è sinonimo di rione, ossia “abitato di più case”. Quel che sappiamo è che la contrada del “Pozzillo” è partecipe di una spazialità che si confronterà con il rilievo del Pianoro, prima e dopo, avanti la Chiesa di Guglielmo, il “Palazzetto reale” e lo spazio antistante le mura fortificate dell’abbazia. Cosa diversa per il quartiere Carrubella, abitato che s’erge sul lato di tramontana, posto a scrutare la valle dell’Oreto, i monti del versante opposto ed il minuto contesto edilizio della Ciambra. Che l’abitato del Pozzillo preesista alla fondazione della Cattedrale è fatto risaputo, ma non provato. In esso si presume che insista in epoca antecedente alla fondazione dell’abbazia, un impianto tipicamente rurale, case tra spazi interposti, situati a differenti quote, superiormente alla sorgente del Pozzillo: abitazioni sparse tra percorsi scoscesi. Un costruito “poco, quasi invisibile” che anziché relazionarsi con il Pianoro, resta chiuso nel suo ambiente. La Platea o Pianoro, il cui andamento è scosceso, non è facilmente raggiungibile da altri luoghi, se non dall’interno del complesso monumentale abbaziale, un esterno parte di un “interno”, uno spazio che nonostante sia lì “immutato” da secoli anche dopo la fondazione abbaziale, si configura come area “invalicabile”. E questo nonostante sul lato settentrionale della Chiesa apra la seconda porta della Basilica. Un rurale che non ha nulla a che vedere con “l’urbano” che ancora deve sorgere, la cui morfologia del costruito ha subito crescite e decrescite, modifiche anche rispetto all’attuale configurazione, posto più in basso rispetto alla sistemazione odierna. Area marginale al Pianoro, ricoperta e rialzata più volte, nel cui basso del costruito si sono rinvenuti resti di presistenti costruzioni. Un’area protetta dalla stessa condizione naturale dei luoghi, dalla rupe, circondata dal perimetro come il resto della città nel ‘600 dalle mura del Venero. Comunicante con l’esterno attraverso porta Carrubella a tramontana e porta San Michele. Tanta ricchezza, insieme a tanta povertà. Catoi, casupole con rari balconi, strette aperture d’aria, poche finestre. Un urbano aggregato intorno la fontana del “Pozzillo”, nella cui bassa pozza si raccoglie l’acqua di una sorgente che scaturisce dalla roccia. Area limite e marginale, di un pendio con rocce affioranti, che incontra la formazione di calcarenite della Platea. Spazio di demarcazione naturale di un fossato ampliato, ridotto, ricolmo nel tempo, convogliante le acque piovane torrentizie provenienti dal Caputo, condotte a scorrere al lato del maggiore perimetro delle mura fortificate dell’abbazia, oltre la torre d’angolo ovvero “la fossa carcere” della torre “belvedere”. Forse aver ricondotto in età araba la fondazione del Pozzillo è stato anche il fatto che i muri di alcune case fossero di tapia ovvero un modo di fabbricare tipico delle popolazioni berbere musulmane di Spagna, che usavano realizzare muri con impasto di cemento, di calcina e sabbia entro casseri di legno. Il Pozzillo, ad ogni modo, è il luogo dal quale ha inizio l’evoluzione diacronica avvenuta sul monte Caputo, un sito, la cui portata, la valenza storico – culturale e antropologica, è il naturale teatro dello svolgersi della vita urbana monrealese la cui “Realtà locale”, di volta in volta ha mutato immagine e consistenza.
(*) Ideato da Valentino Mirto – Coordinamento generale di Don Giuseppe Salamone.
     Con la collaborazione di Don Giovanni Vitale e Anna MannoArchivio Storico Diocesano
     di Monreale
di Natale Sabella  architetto - all rights riserved




LA CATTEDRALE DI MONREALE





Il sacro tempio, che il re cristiano Guglielmo II di Sicilia eresse per glorificare Dio, dedicato alla Madonna.

di  NATALE  SABELLA

Saggio pubblicato in concomitanza della solenne celebrazione dell’immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, 8 dicembre 2018

E’ diffuso e condiviso convincimento affermare, senza incertezza alcuna, che la Cattedrale di Monreale, <<chiesa fra le più importanti del medioevo>>, conosciuta nel mondo per l’eccezionale valore storico – artistico - religioso, conserva in sé, un mosaico d’emozioni “visive e tattili”.
Il visitatore, varcata la soglia d’ingresso si trova immerso in uno scenario eccezionale, prodotto dall’armonia insita nell’architettura chiesastica unita alla straordinaria bellezza delle immagini musive che ricoprono per intero le pareti della basilica.
Ricordi che restano indelebili per sempre oltre il tempo e la memoria nell’animo e nello spirito per le emozioni provate.
La sensazione è di rimanere coinvolti dal linguaggio universale della bellezza, dell’unicità e della diversità composita combinata da quel dolce e silente sentire che la bellezza del Duomo sprigiona unitamente agli aspetti della Fede che avvicinano lo spirito umano al trascendentale.
La basilica di Guglielmo, pertanto è la sintesi “ideale, religiosa, spirituale, politica”, il meglio di quanto è stato compiuto da Guglielmo II nell’ultimo quarto del secolo XII in Sicilia. Una fondazione regia, che non trova eguale in nessun’altra parte d’Europa: imponente, maestosa, solenne, magnificamente superba all’esterno, costruita di sana pianta su un luogo privilegiato, unico, ritenuto idoneo ad accogliere la basilica, con l’intento di glorificare il Creatore, il Cristo, il Messia Risorto, e ricordare nei secoli Guglielmo.
Si tratta di un progetto salvifico, portato a termine sotto gli auspici di una buona stella e la protezione della Vergine Maria, com’era in uso, utilizzando le “tecniche e la scienza del tempo”, questo alla luce del “sole e della conoscenza”, guidati dalla Fede, in Dio Unico e Trino, quale affermazione del “Sacro potere regale di Guglielmo”.
Eretta sopra un adeguato piano fondale, fu costruita con solide basi e materiali lapidei consoni, secondo tecniche costruttive antiche, in parte rivedute aumentando probabilmente le masse murarie in riferimento all’altezza e alla grandezza della costruzione ed alla luce dei frequenti terremoti che fecero tremare da un capo all’altro l’isola.
Un’opera unica ed eccezionale, che ha del “miracoloso, dello straordinario”, per i tempi di realizzazione, le energie profuse, le risorse umane e le ingenti somme di denaro impiegate alle quali si dovette ricorrere per la costruzione, <<fondi della Corona e sostanze personali dello stesso Guglielmo>>; per la capacità di avere elaborato un triplice programma: <<scenografico – ambientale>>; <<strutturale - stilistico architettonico – scultorio>>; - << musivo, teologico – iconografico - estetico>>, d’ampio respiro e completo, con una visione d’insieme che suscita oggi come nel passato un grande interesse, ammirazione, stupore finanche smarrimento e commozione.
Una Chiesa regale, costruita a testimonianza del messaggio, operato dall’Altissimo.
All'interno è un susseguirsi di pagine d’avvenimenti storici riportanti immagini, scene, personaggi, ambienti all’aperto, figure di santi e angeli, piante, animali, decorazioni, poste su tutte le pareti del sacro tempio; un connubio d’arte, culture, tradizioni, felicemente combinate e che interpretano, senza distorsione alcuna, gli aspetti della Fede Cristiana, il messaggio Cristologico, la cultura, la storia della Chiesa del tempo.
Una chiesa cattedrale adeguatamente connessa all’abbazia benedettina, con un fulcro centrale costituito da un grande chiostro quadrangolare. Il monastero governato da un abate, a capo di un consistente numero di monaci, “devoti e fedeli al sovrano”, giunti a Monreale dalla Campania, che si presero cura dell’Opera di Guglielmo, in quanto portatori del “Messaggio”, di Pace che il re si apprestava a compiere.
L’insieme che da forma al complesso abbaziale costituisce un’opera organica inscindibile,<<chiesa, monastero - chiostro>>, un tutt’uno e l’uno vive in funzione dell’altro. L’interesse che suscita  conduce ad emozioni intimamente legate alla sfera dello Spirito umano, oltre la ragione stessa, qualcosa che si sente, si respira nell’aria dentro il Duomo e nel chiostro.
Qui l'arte si traduce in sintesi, armonia, bellezza, contemplazione. L’utilizzo dell’arco a sesto acuto di duplice origine, <<islamica e nordica>> nel duomo, l’inserimento dell’arco trionfale che annuncia il transetto non sono altro che il segno della compiutezza raggiunta. Come pure l’utilizzo delle colonne di altezze diverse, degli splendidi capitelli che sembrano appena scolpiti, <<elementi appartenuti a templi non cristiani>>.
Un puro concentrato d’arte, di capacità tecniche, che  assurge a pura forma di “poesia”, tanto è l’equilibrio reso, l’armonia ricercata, il rapporto che intercorre fra pieni e vuoti, il passare della luce naturale che penetra dalle finestre all’interno della chiesa.
Ma ad ogni modo la sequenza della narrazione del dettato teologico, il filo conduttore dello svolgersi della storia Sacra Cristiana, reso vivo e vitale dal vigore della forma, dai colori, dalla disposizione e dall’accostamento delle tessere musive, dall’equilibrio riportato dalle raffigurazioni, dall’utilizzo dello sfondo dorato dei mosaici, rappresentano una forma d’arte antica che diviene  tramite,  espressione del pensiero teologico che si traduce in bellezza e annuncio.
Messaggio, ampiamente presente in tutta la sua spettacolare e singolare bellezza nelle formelle di un altrettanto importante capolavoro, la porta bronzea, realizzata a Pisa dal maestro scultore e architetto Bonanno Pisano.
Il fatto più incredibile per i tempi è stato il risultato complessivo che si è ottenuto, ovvero il far “cooperare”, insieme maestranze appartenenti a culture, lingue, Credi, fedi e tradizioni diverse, il cui unico scopo era di portare a compimento la Chiesa regale, di Guglielmo II. L’avere gestito un ampio cantiere, vasto e articolato, suddiviso in aree di lavoro, in un sito inizialmente impervio e non facile da raggiungere agevolmente; qui era necessario avvalersi di animali trainanti carri, di bestie da soma, deputati a trasportare i materiali necessari alla costruzione del complesso abbaziale e della cattedrale.
Un cantiere che, intorno al 1174, ha dato corso alla costruzione di una fra le più grandi basiliche del tempo. Un’impresa portata a compimento, nonostante le varie difficoltà incontrate in ordine a fatti “politici avvenuti in quel periodo, di “ordine militare, e soprattutto religioso”. Una vera e propria azione di presa, gestione e mantenimento dei territori sotto l’aspetto strategico, oltre che economico, commerciale, proprio a dimostrazione del potere regale, della presenza dell’istituzione ecclesiastica di Guglielmo in un’area della Sicilia non di facile gestione.
Assume grande importanza il dettato “trascritto in immagini e rappresentazioni” lasciato ai posteri, avente carattere divulgativo e conoscitivo riportato dalle Sacre Scritture in immagine. Un messaggio d’ampio raggio, utilizzato come cassa di risonanza, della raggiunta forza di Guglielmo, un Avvenimento che anticipa a Principi e Sovrani, la grandezza, l’importanza del Regno di Sicilia nell’area Mediterranea.
 Tutto questo per dettare un nuovo tempo: quello che, nonostante la comunanza e la generale pacificazione raggiunta, segnava la fine della dominazione Araba in Sicilia.
Era un monito alle etnie Arabe, di fede musulmana, nate e cresciute nell’isola da diverse generazioni, e a tutto coloro che continuavano a fare resistenza e si opponevano alla Corona.
Una Cattedrale abbaziale innalzata per dimostrare ed affermare lo Status politico e religioso in contrapposizione alla pratica di fede musulmana ancora presente in Sicilia, che per tanto tempo aveva relegato la Chiesa Bizantina in ambienti nascosti, lontani dalla zona.
Era così diventato un luogo simbolico per quella Cristianità da tempo costretta alla fuga.
 Il Duomo Monrealese pertanto è il frutto, la volontà preordinata di fermare anche l’avanzare del potere della chiesa Romana nel Regno, testimonianza della stabilità e del potere esercitato dalla monarchia Normanna; una Chiesa sorta per glorificare nei secoli Dio e lo stesso re Guglielmo fondatore del Sacro Tempio.
Rimane alla base di tutto questo, l’aver predisposto anticipatamente un accurato progetto che si poneva l’obbiettivo di costruire il Tempio, e dimostrare che la struttura monarchica, regge su solide basi consolidate. Una cattedrale, affiancata ad un’abbazia di nuova fondazione, munita e sorretta da monaci, al vertice l’abate – vescovo, divenuto in seguito Arcivescovo, di una delle più vaste diocesi territoriali che ha reso la Chiesa Metropolitana di Monreale “eccelsa ed incontrastata” in Sicilia, nelle isole minori e oltre i domini e i possedimenti del Regno dell’Italia Meridionale.
Risorse fondamentali per la vita della Chiesa di Monreale erano le rendite ricavate dalle terre dell’arcivescovado, denari utilizzati per custodire, mantenere, reggere, curare e fare prosperare la Cattedrale ed il monastero. Una Cattedrale abbaziale concepita ed ispirata al principio assoluto della grandezza e della bellezza, della dignità regale, costruita con criteri e connotati che qualcuno direbbe ai giorni nostri, all’avanguardia, per le tecniche adoperate, i servizi connessi e annessi realizzati nella cittadella “santa”, fortificata in un arco temporale alquanto contenuto.
La Chiesa a croce latina a tre navate e tre absidi Romaniche recuperano nell’impostazione l’architettura bizantina ed islamica; suddivisa in spazi gerarchizzati, principiati ed illustrati da immagini musive, ove era dato ascoltare a pochi la parola di Dio, sentire e non vedere al di là della transenna di marmo che divideva l’area liturgica dalle navate, il respiro, le voci dei monaci, i canti, le preghiere, le suppliche, la voce del silenzio.
Una cattedrale che ha dato corso a percorsi – religiosi, umani, di fede, concepita per riscattare ed affermare la rinascita del Cristianesimo latino, nella quale si officiava il rito Bizantino. Una costruzione ideale che poneva fine a quanto era avvenuto nell’isola, con Guglielmo I, una chiesa rinnovata “autonoma,  libera” sorta per consacrare Dio Padre, rivelatosi all’Umanità tramite il Cristo Redentore, un gioiello di fede e di arte d’incommensurabile bellezza, d’indiscusso valore spirituale, un concentrato di ricchezze consacrato sull’altare delle arti.
Un suggello, un diadema dedicato alla Vergine Madre di Dio protettrice dell’insigne, gloriosa Cattedrale, una chiesa nella quale la preghiera rivolta al Signore Dio, unisce e rimane viva senza dividere i Popoli.
Una Cattedrale, pensata come un’imponente nave di pietra, della “conoscenza” e della fede, con la prua posta ad Oriente“arca di Alleanza tra il Padre Onnipotente, e i figli”, come un sostegno alla fede, ad un credere incondizionato in un Dio unico e Trino che si è rilevato all’uomo, nel frangente del cammino umano.
Un tempio innalzato a Dio, un modo tangibile per testimoniare la parola del Signore, le Sacre Scritture ed enunciare il mistero della fede, il desiderio di un re “giovane”, che si era illuso di diventare un giorno imperatore” di un regno grande e vasto rimasto in attesa del nascere di un figlio legittimo che non ci sarà mai.
La chiesa di Dio è la reggia di Guglielmo, una chiesa nata per narrare e illustrare le opere, la vita, i miracoli del figlio di Dio, Gesù di Nazareth, morto ed infine risorto, unitamente alla Storia della Chiesa e dei Santi; una fiaccola che propaga la sua luce ed irradia da oltre otto secoli scintille di fede, conoscenza, amore, misericordia, concepita quale mezzo e tramite tra la terra e il Cielo, che illumina il cuore e la mente e riscalda le profondità dell’animo umano.
Un dono di libertà, deputato a far dialogare le coscienze più controverse, un simbolo della rinascita religiosa, segno di magnificenza e gloria, eretto ai margini del Parco Reale di Guglielmo, sull’apogeo naturale dello scenario dei monti della Conca d’Oro, sulle pendici naturali del versante di un monte chiamato in Arabo: Africa.
Un luogo spogliato dell’ambiente naturale rigoglioso che lo ricopriva, che ha dato vita ad una stupenda Cattedrale.
Un posto ove la quiete, la tranquillità predominava sopra ogni cosa. Un Tempio cristiano che però consente a tutte le civiltà di apprezzare l'immanenza di Dio e di capire quanto possa essere possibile concentrare nell'arte le varie culture, nella pace e nell'armonia, seppur frutto di equilibri politici.
<< Il Padre Celeste, severo nella sua grandiosa immagine, posto nell’alto del catino dell’abside centrale>> è un Padre accogliente, misericordioso, che si rivolge a tutti e il Cristo Risorto venuto per sostenere l’uomo è immagine della vita terrena e di quella dopo la morte. La Cattedrale di Monreale è luogo dell’esegesi biblica espressa tramite l’arte musiva che consente conoscere il suo unico Figlio, Gesù, Cristo inviato per risorgere e trionfare sopra la morte, inviato dal Padre a redimere l’umanità e sconfiggere il peccato.
Monreale è stato quindi un sito, appositamente selezionato fra tanti altri luoghi nel quale si sono convogliate le pietre necessarie per l’edificazione di una grande Cattedrale, che riceve luce dal sole e dalla stella più brillante che appare luminosa e lontana nella notte.
Una cattedrale “fortezza” costruita in un’epoca apparentemente tranquilla, piuttosto controversa, in una Sicilia abitata da molteplici etnie.
Un gigante di pietra scolpito, sostenuto dalle colonne della conoscenza e del sapere, sorrette dalla Fede, concepito per descrivere la storia autentica dei Vangeli e promuovere il trionfo dei cieli in terra.
Un libro Sacro che narra la Bibbia nelle cui pagine di pietra restano impresse ed impaginate immagini a mosaico, poste liberamente alla vista di quanti desiderano vedere la luce di Cristo, sotto la protezione degli arcangeli Gabriele e Michele e la super visione degli angeli celesti, il benestare del profeta Giovanni Battista, sotto attenta dettatura troviamo le parole in immagini delle Sacre Scritture, in un trascorre di scene ed episodi che illustrano la Storia dei Vangeli, il Vecchio e il Nuovo Testamento.
Una sequenza d’immagini puntuali, dettate da conoscitori profondi della Bibbia, non da menti istruite, da persone illuminate dalla “Luce Divina”, conservatori delle tradizione, d’immagini care e volti conosciuti, raccolti in appositi scenari accarezzati dagli sporadici bagliori dei raggi del sole, illuminati sul lato ad oriente da una stella non facilmente visibile posta sul lato destro dello spigolo arrotondato del catino dell’abside, indicante il cammino da percorrere. Un ipertesto sacro di “pietra” che supera per contenuti ed immagini quanto riportato nelle “Bibbie imperiali” d’età Carolingia e Ottoniana.
Un annunzio a Popoli e Sovrani lontani. Un Codice biblico custodito da monaci in una cattedrale fortezza fondata da un re, irradiazione del Regno Normanno Siciliano, fecondo e ricco d’immagini, di significati, nella quale ogni cosa rimane al suo posto, organicamente composta e raffigurata su “tavole musive vergate” accompagnate da diciture e scritture essenziali, da tramandare alle genti di Sicilia, ai Popoli del mondo conosciuto, il messaggio Divino della Chiesa Universale.
Un tempio che è scaturito come l’acqua fuoriuscita da una fresca sorgente, dal sentimento, dalla fede di un sovrano cristiano, Guglielmo II, re di Sicilia (nato a Palermo nel 1153deceduto il 18 novembre dell’anno 1189). Un re che ancorché giovane, muore in modo improvviso, inaspettato, senza un erede, che si è prodigato ad innalzare la Chiesa di Monreale nel corso della sua intensa e breve esistenza.
Un tempio nel quale Gesù è presente nell’Eucaristia, è la luce che sconfigge  la morte e predomina sul buio delle tenebre, nel  quale in alto, alla sommità dell’arco trionfale che precede l’immagine di Cristo sopra il catino absidale, è posto il trono vuoto che attende il ritorno glorioso di Cristo Giudice Universale.
Un grazie illimitato all’illuminato sovrano Guglielmo II re di Sicilia
di Natale Sabella  - architetto  All rights reserved

PUBBLICATO SULLA TESTATA GIORNALISTICA ON LINE MONREALE NEWS IN DUE PARTI,  17 e 18 NOVEMBRE 2015 ; SUL BLOG MONREALE FUTURA CITTA’ E TERRITORIO, IN DATA 25 DICEMBRE 2015






CERIMONIA
d'intitolazione 
della biblioteca dei libri del fondo moderno
presso
CASA CULTURA Santa CATERINA

in ricordo
del filosofo monrealese

Prof. Antonino Noto
scomparso il 16 febbraio del 1991


7 marzo 2019




Presenti alla Cerimonia, l'Amministrazione Comunale del Sindaco Pietro Capizzi,  i figli del filosofo, il Prof. Franco e la Prof.ssa Giulia Noto, il Prof. Carmelo Botta, la Prof.ssa Francesca Lo Nigro, ex alunni di Antonino Noto che hanno tratteggiato un profilo dell'epistologo, logico, linguistico, insegnante di Liceo e dell'Università di Lettere,  di filosofia morale e filosofia della scienza; presente inoltre  l'artista Anna Russo che ha donato un ritratto ad olio del padre alla famiglia, i fratelli Riccardo e Federico Botta che hanno eseguito al violino un brano musicale The lament di Frank Bridge.












Libri e Riviste del Prof. Antonino Noto per la Biblioteca Comunale 




L'AMORE E LA LEGGE (saggio sul moralismo)
L'ARTE COME MORTE DELL'ARTE
RIFLESSIONI DI UN ATEO
LA RAGIONE CONTRO SE STESSA
LE LOGICHE NON CLASSICHE
LINGUAGGI E METALINGUAGGI
DA NIHILO (note sul problema della "morte di Dio")

QUID EST VERITAS?
SOLITUDINE ANGOSCIA MITO  
 
DIALOGO luglio-dic 1973 n.58-60
DIALOGO 27-28 
I CRISTIANI OLTRE I PARTITI?
QUADERNI ELEUSINI 3
QUADERNI ELEUSINI 8
I GIOVANI E LA PARTECIPAZIONE POLITICA Ass. IL QUARTIERE  



















MATTEO LAMIA 
presenta il suo libro

<LE MIE PAROLE LE TUE PAROLE> 

CASA CULTURA Santa CATERINA 






















Presentazione libro 


Pietro Maria Sabella
"FOTOGRAMMI SOSPESI"

CASA DELLA CULTURA
29 Dicembre 2016









La felicità  è quel pezzo di alba che,
 mordendo il mare per istinto 
si aggrappa al cielo con tutte le sue forze


...A chi vive con un cuore senza dighe


L'AMMINISTRAZIONE COMUNALE NEL PARTICOLARE
IL SINDACO AVV. PIETRO CAPIZZI E L'ASSESSORE ALLA CULTURA DOTT. GIUSEPPE CANGEMI  PORGONO IL SALUTO E DANNO IL BENVENUTO AI PRESENTI


I
I Relatori: Prof. Francesco Alesso, docente di lettere presso il liceo classico Vittorio Emanuele di Palermo, la Professoressa M. Rita Fedele, docente di filosofia presso il Liceo scientifico E. Basile di Monreale

La lettura di alcune poesie a cura di Anna Leto
















L'autore dona il libro....


"Alla Biblioteca della città di Monreale, questo luogo dalla socialità laica dovrà essere sempre baluardo di luce ogni qual volta sarà necessario.
All'arte e alla libertà"
Pietro Maria Sabella 
29 - XII - '16



Note biografiche dell'autore

Pietro Maria Sabella 
nasce a Palermo nel 1986. Terminati gli studi classici si trasferisce a Roma, dove studia Giurisprudenza presso la LUISS Guido Carli, appassionandosi soprattutto al diritto ed alla procedura penale. Dopo avere svolto la pratica presso l'Avvocatura Generale dello Stato ed avere collaborato come consulente presso il Senato della Repubblica, si diploma presso la SSPP ed intraprende un dottorato in diritto penale dell'economia in LUISS, dove collabora anche in qualità di tutor di Ateneo; si abilita alla professione forense nel 2014.
Scoprendosi fin da piccolo amante della letteratura, inizia a comporre poesie all'età di dodici anni.. E' del 2010 la sua prima raccolta, Intabilità; agli anni successivi risale la pubblicazione di numerosi suoi componimenti sulla rivista letteraria Poeti e Poesia. In essi, l'evocazione di temi come l'amore, l'attaccamento alla terra natìa e al mare, si fonde con istanze quali la legalità e la lotta alle mafie, e con l'indagine del disagio generazionale, delle crisi economiche e spirituali della società contemporanea, dell'immigrazione, da cui risulta una poesia eterogenea, aperta, dinamica, come la formazione dell'autore. Negli anni partecipa a diversi concorsi letterari nazionali, riportandoapprezzamenti e riconoscimenti. Nel 2011 fonda, insieme ad altri amici, l'associazione culturale The Freak, con lo scopo di dare voce e spazio ad un'intera generazione. Nel giro di quattro anni l'associazione si espande su tutto il territorio nazionale, vantando più di centocinquanta collaboratori. Nel gennaio 2016 trasforma, insieme ai colleghi più appassioanti, The Freak in una realtà imprenditoriale, che oggi opera come casa editrice, web magazine e organizzatore di eventi culturali a Roma e in Italia.






Presentazione libro in Biblioteca: 

  "STRANIERI" 
di Andrea Cozzo
Docente di Lingua e Letteratura Greca all'Università di Palermo 


Come "l'altro", lo straniero, veniva considerato nell'antica Grecia e  fino ai giorni nostri, dibattendo e riflettendo  sul tema   dell'immigrazione.










W LA DIVERSITA'


































Libri in Biblioteca….


"PROTEGGERO' QUESTA CITTA'..."
Fede e cultura di un popolo: <Il Crocifisso di Monreale>



FERVORE DI ATTIVITA’ E PARTECIPAZIONE POPOLARE
di Giuseppe Schirò


Il Concilio di Trento, avendo posto come causa della giustificazione la “santissima passione di Cristo sul legno della Croce” aveva confermato  e rafforzato il culto e la venerazione verso il Crocifisso, che può considerarsi il filo conduttore della vita e dell’ascesi cristiana, San Carlo Borromeo, (1538-1584) prescelto a semplificare ed a divulgare gli insegnamenti del Concilio di Trento, dava nel Catechismo Romano, pressanti norme ai pastori delle anime  “Il parroco curi con la massima diligenza affinchè i fedeli rinnovino nel loro animo spessissimo il ricordo della Passione del Signore, come insegna l’Apostolo che affermava non sapere altro che Gesù Cristo e questi Crocifisso. Perciò in questo argomento bisogna dibire ogni cura ed opera, affinchè esso sia illustrato il più possibile; ed i fedeli, mossi dal ricordo di così grande beneficio si convertono interamente all’amore di Dio verso di noi ed a riceverne la bontà”. Ed ancora “Bisogna insegnare al fedele che si confessa che non permetta che passi alcun giorno senza meditare qualcosa sui misteri della Passione di Nostro Signore e che si ecciti e si infiammi ad imitarlo e ad amarlo col più grande amore”. A lui fa eco un altro grande trascinatore delle folle, s. Alfonso dei Liguori (1694-1775), nelle “Riflessioni sulla Passione” ed il suo contemporaneo s. Paolo della Croce (1694-1775), fondatore dei Passionisti. Sono solo esempi scelti da un ampio contesto, che è dato dall’indirizzo generale della fede e della pietà cristiana. Ed a conferma della risposta data dal popolo cristiano a tali stimoli basta citare il favore riservato all’opera di frate Umile di Petralia, (1601-1639) che proprio negli stessi anni in cui il Venero operava a Monreale, scolpiva i suoi numerosi Crocifissi che si diffondevano in Sicilia e fuori. Lo storico non può misurare gli effetti spirituali della fede, ma può registrare fatti e comportamenti documentati che scaturiscono da questa fede.
La venerazione verso il Crocifisso è il filone principale della religiosità popolare a Monreale e questo sentimento ispira opere ed attività diverse, ma ha la sua massima espressione nella celebrazione della festa, che culminava nella processione.
La processione del Crocifisso dall’epoca del Venero in poi, divenne un avvenimento sempre più importante. Il giorno 3 maggio essa polarizza tutta la cittadinanza ed ha la precedenza su ogni altra processione, compresa quella della s. Spina che da tempi precedenti si teneva la prima domenica di maggio. Quando si fosse verificata quella coincidenza, la processione della Spina doveva farsi di mattina per lasciar libero il pomeriggio alla processione del Crocifisso. Abbiamo visto che una Deputazione formata da canonici funziona almeno dal 1654. … una Deputazione formata da canonici funziona almeno dal 1654. Ad essi si affiancano poi dei laici. I deputati venivano eletti il 10 maggio, nel contesto del rinnovo delle cariche capitolari: era una carica permanente e non messa in funzione nella immediata vicinanza della festa. La festa, ovviamente, assume ben presto, aspetti anche esteriori di esultanza popolare.

La “vara” veniva conservata in apposito locale. La sua costruzione era a carico del Comune o dei privati o del Capitolo, come avviene nel 1706. In quell’anno infatti, i fratelli Andrea e Gaspare Bisagna e Nunzio Di Paola, che già conosciamo quale autore del tabernacolo  del sacramento, scultori palermitani, costruiscono per conto del Capitolo una “vara nuova”. Questa vara era particolarmente robusta ed adorna, di forma quadrata. Su una struttura di legno di castagno erano applicati gli esterni di legno di pioppo che comprendevano due piani sovrapposti divisi da una balaustra. Agli angoli, quattro angeli scolpiti in legno, con un ero in una mano e con un simbolo della Passione nell’altra. Sopra la balaustra quattro puttini, uno per ogni lato. Al centro un monte, per innestarvi la croce, ai cui piedi due puttini in preghiera. Ai quattro lati del monte vi erano quattro scudi con lo stemma della città di Monreale. Costo complessivo onze 40. Onze 50 è invece il costo dell’indoratura della stessa vara eseguito in oro zecchino puro, non lucido, da artigiani monrealesi e palermitani. Oltre la consueta processione annuale del 3 maggio vi erano le processioni penitenziali specialmente per l’invocazione della pioggia, che si svolgevano nel rispetto del Rituale romano e che quasi sempre erano sollecitate dal popolo, tramite il Pretore ed i giurati. Questa usanza non apparteneva solo a Monreale, ma era propria di vari altri centri, come Collesano, dove si venerava un’immagine del Crocifisso scolpita proprio dal frate Umile da Petralia ed in vari altri centri ancora. A rendere più solenne il culto contribuivano donazioni ed offerte. ....















Dopo il testo di avventura e fantasia fatto per ragazzi dal titolo
"GEREMIA FIORE E IL LIBRO DI OBERON"  (2006) 



"SOTTO LE STELLE DI ROMA "
di 
Massimo Benenato 

PRESENTAZIONE LIBRO
del figlio dell'attore Franco Franchi
presso 
CASA CULTURA S. Caterina 





 
....Sono Massimo Benenato nato a Palermo da Francesco Benenato in arte Franco Franchi.
Da lui ho ereditato l'amore per ogni forma d'arte e l'ironia necessaria per affrontare questa enigmatica vita...




Eugenio ed Elvira, due fratelli, lui musicista e lei promettente attrice, si stanno recando ad una serata mondana in compagnia del loro amico Marcello, vulcanico dentista vicino di pianerottolo, amante del gossip e della vita gaudente. Durante il tragitto verso la villa, dove si tiene la festa. il destino vuole che soccorrano Paola Dini , la più grande attrice del mondo, rimasta in panne con la propria auto . Per ringraziarli dell'aiuto, la diva l'invita al tavolo con i propri ospiti , tra cui Ajna, una donna indiana dotata di capacità al limite della credibilità. innescando una serie di intrecci amorosi, situazioni impreviste e colpi di scena dai risvolti insospettabili. Tutto si svolge in pochi turbolenti giorni che cambieranno la vita esteriore e interiore di ogni personaggio per sempre. Come sfondo, Roma e alcuni dei suoi luoghi più belli. Il romanzo è un invito alla riflessione sui rapporti umani e amorosi, sulla bellezza della diversità e sul significato più ampio della vita. Ogni personaggio rispecchia questi temi, rappresentando la realtà di oggi.   





Libri in Biblioteca...
 Franco Franchi, in un rione popolare, agli inizi della carriera

dal libro "Sicilia felicissima" pag.119 edizioni Il Punto-
Palermo 1978  copia n. 1050






Presentazione libro 

"LA SILENTE COLPA DEL PECCATO" 
della 
Prof.ssa Anna Maria Sciurba

presso Casa Cultura a cura di Nadia Olga Grana'













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