Libri in biblioteca...Articoli su L'Ora







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Il primo articolo pubblicato da Leonardo Sciascia su un quotidiano italiano apparve su L'Ora del 25 febbraio 1955: una nota letteraria su <Micio> Tempio, poeta del settecento catanese. Era stato Vittorio Nisticò, (cfr. qui post  IL GIORNALE L'ORA pubblicato il  28.08.2018), da pochi mesi direttore del giornale, a cercare e invitare alla collaborazione il giovane scrittore, in quel momento ancora praticamente sconosciuto in Italia.  Si inizia così tra L'Ora e Sciascia un rapporto destinato a durare per oltre trentaquattro anni: ed esattamente fino a quel giorno di novembre del 1989 in cui lo scrittore, poche ore prima di cedere per sempre al suo male, dettò proprio per L'Ora quello che può considerarsi l'ultima sua riflessione pubblica: 
la prefazione, da tempo richiestagli dal giornale per il volumetto di scritti del Borgese apparso poi nella collana <Dalle pagine de L'Ora>

                                                                                                                 

 
Scelti tra le centinaia di articoli e interviste che Sciascia andò pubblicando su L 'Ora nel corso di tre decenni, gli scritti apparsi tra il '64 e il '68 nella rubrica, che lui stesso volle chiamare semplicemente "Quaderno".
L'Editore



L'Ora 31 ottobre 1964 - LA VISTA DEGLI OCCHI 
di Leonardo Sciascia

<Quant'è brutta la vista degli occhi> è, in Sicilia, un modo proverbiale di esprimere la condizione e la pena, di chi può soltanto da lontano, e macerandosi nel desiderio, contemplare l'abbondanza, la ricchezza, la bellezza. Con accentuazione comica lo si dice al passaggio di una bella donna oppure quando di una donna, lampeggia un nudo dettaglio. Ma più spesso, con tono doloroso, di fronte all'altrui ricchezza e privilegio; ed anche a giustificazione di chi attenta ai beni altrui. E' insomma il grido della povertà  e del desiderio, da maledire quella facoltà della vista per cui certe cose del mondo entrano a sollecitare, a provocare, a tentare i sentimenti e gli istinti. Questo modo di dire popolaresco, e il ricordo di quel bellissimo racconto di Anna Maria Ortese che si intitola, nel libro Il mare non bagna Napoli, Un paio di occhiali, avevo in mente mentre visitavo, a San Cataldo, i cinque ragazzi i cui occhi, dalla nascita spenti da una cataratta, hanno acquistato la vista grazie ad un ardito intervento operatorio del dottor Luigi Picardo. Ma in questo nostro tempo in cui i libri, anche quelli buoni, durano se non lo spazio di un mattino, non più dello spazi di una stagione, non saremo molti a ricordare, dopo undici anni, il racconto  dell'Ortese: che è la storia di una bambina di debolissima vista cui finalmente, con grande sacrificio per le ottomila  lire che costano, la famiglia si decide a comprare un paio di occhiali; e quando per la prima volta la bambina li mette, ecco la miseria del vicolo, della casa, delle persone che la circondano balzare nel suo occhio netta, precisa, terrificante: un urto, un capogiro, un delirio. E forse, in termini diversi, con diversi riferimenti o ricordi, anche quelli che erano con me pensavano la stessa cosa: che questi ragazzi entrano sì nel mondo della luce ( e viene da pensare, per questa loro scoperta, ai versi del Manzoni: <Come la luce rapida/Piove di cosa in cosa/ E i color vari suscita/ Dovunque si riposa>/, ma entrano anche in un mondo in cui la secolare esperienza dei diseredati ha distillato questa espressione disperata, quasi una bestemmia: < Quant'è brutta la vista degli occhi!> E credo che di ciò un pò tutti, di fronte ai cinque ragazzi, avvertiamo un senso di responsabilità o di colpa. Poichè vengono da un lungo, oscuro viaggio; e noi abbiamo un mondo sufficientemente giusto, da presentare loro.
 


L'Ora 12 febbraio 1966 - GLI ANTENATI NORMANNI
di Leonardo Sciascia

Ho letto, in questi ultimi giorni, per un lavoro che sto facendo su narrativi siciliani che dicono la realtà della Sicilia, due scrittori siculo-americani: Jerre Mangione e Ben Morreale.
Del primo, già tradotto in italiano, un libro che tra il divertimento e l'idillio, con finissime notazioni psicologiche, rappresenta il mondo della <piccola Sicilia> nella città di Rochester: del secondo, con l'aiuto di un'amica inglese, un libro più duro, più complicato e problematico sia nella psicologia del protagonista che nella tecnica del racconto. 
Il libro s'intitola The seventh saracen, il settimo saraceno: e la ragione del titolo è spiegato chiaramente nel preludio, che raccoglie la leggenda di sei fratelli saraceni consegnati ai vincitori normanni dal tradimento del settimo fratello, e poi più sottilmente, con inquieta coscienza, da tutto il racconto: che è, in effetti, la vicenda di un tradimento e di un rimorso (ma di un rimorso che non travalica mai dalla rappresentazione alla confessione, e anzi avvolto da un volontario cinismo).
Jerre Mangione ama la Sicilia, la <piccola Sicilia> di Rochester e quella mitica e lontana che rivive nel ricordo della madre: una Sicilia chiamata a paragone di ogni odore e sapore, di ogni dolcezza di vita e di ogni intensità di sentimento: un luogo insuperabile di verità  e di bellezza. E si può dire che Mangione ha identificato la Sicilia con la madre, mentre Ben Morreale l'ha identificata col padre: e perciò, in termini quasi freudiani, la detesta e la ama. E un pò si sente <settimo saraceno> portatore di un tradimento ma al tempo stesso consapevole della necessità del tradimento: che è poi lo stato d'animo di chi è riuscito a passare la linea  dell'integrazione. E si potrebbe per questo siculo-americano, ripetere il discorso altra volta tentato a proposito di Pietro Chiara e del suo libro Con la faccia per terra: considerando, tra l'altro, che anche il libro di Morreale è nato da un viaggio in Sicilia, nel paese dal quale i suoi genitori erano emigrati durante una di quelle periodiche crisi delle industrie zolfiere. Piccoli industriali dello zolfo, dice Morreale, i miei genitori sono venuti in America per riuscir ad accumulare quel poco denaro che avrebbe permesso loro di tornar a vivere in Sicilia, nella miseria cui erano abituati: e invece in America c'erano rimasti; ed è lui, nato in America, professore di storia in una università americana, che torna a Racalmuto, paese dei suoi genitori: con quella inquieta coscienza che i suoi genitori certamente non ebbero. Come il settimo saraceno, che col tradimento cercò di mimetizzarsi tra i normanni vincitori  tornando in Sicilia e scoprendo che i siciliani lo riconoscono siciliano e non americano, il protagonista del libro cerca nel passato della Sicilia, nella storia, il punto in cui mimetizzarsi, il razziale che gli renda più facile il passaggio da siciliano ad americano: e lo trova, appunto, nei normanni... Praticamente un dramma tipico della società americana vien trasferito da Guy (questo è il nome del protagonista: normannizzazione, più che americanizzazione, di Gaetano)in una società, quale la nostra, assolutamente ignara di conflitti e mimetizzazioni razziali. E si arriva al grottesco di questo dialogo di Guy con le zie:
<Com'era nonno Giuliano? - chiese Guy. Rosa era seduta al tavolo e sbucciava fave; Pippina, seduta dall'altra parte, le schiacciava con un martello da calzolaia.
-   Che vuol dire, Gaetano?
-Voglio dire, era alto o...
-No, era basso; molto più basso di te, ma forte.
-Io l'ho sempre immaginato alto.
-No, era più basso di te, ma solido, non grasso, solido.
-Era di colorito chiaro?
-Sì, come te: così chiaro che potevi vedere il sangue sulla sua faccia.
-Aveva gli occhi azzurri dunque.
Aveva gli occhi scuri - Rosa disse.
-Comunque, era di origine normanna, no?
-No, veniva da Campobello.
-Voglio dire, i suoi antenati venivano dalla Normandia.
-No, erano tutti di Campobello; non si è mai parlato d'altro.
-Ma io li ho immaginati provenienti dalla Normandia.
-E dov'è la Normandia?
-In Francia.
-Più lontano di Caltanissetta?
-Sì, più a Nord dell'Italia.
-Più lontano di Roma?- domandò Rosa.
-Sì.
Rosa levò alte le braccia -  Mai papà Giuliano andava più lontano di Caltanissetta.->












  

Libri in biblioteca...Principi sotto il vulcano di R. Trevelyan

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PRINCIPI SOTTO IL VULCANO

Storia e leggenda di una dinastia di "gattopardi" anglosiciliani dai Borboni a Mussolini


Udii  parlare per la prima volta di Tina Whitaker nell’inverno del 1944 mentre, giovane ufficiale, mi trovavo a Roma. Rimasi in Italia per altri due anni e, benché avessi frequentato alcuni membri della famiglia Whitaker praticamente durante tutta la mia vita, non conobbi mai di persona Tina che per me era una specie di leggenda: una gran dama,vecchia  e imperiosa, che viveva ai Parioli, alla cui casa non avrei mai osato presentarmi senza essere invitato. Comunque quando misi piede a Roma avevo appena ventun anni  ed ero troppo occupato a godermi le mie prime impressioni della città e a spassarmela con i suoi abitanti miei coetanei.

Sapevo però che la signora Whitaker aveva superato da un pezzo  l’ottantina e che aveva un passato in qualche modo <straordinario>. Sapevo inoltre che lei e le sue due figlie Norina e Delia, entrambe ormai anziane, conducevano una vita piuttosto agiata e, questo fatto era di per sé  già eccezionale. Infatti come si spiegava che la madre e le figlie, che portavano un cognome inglese, non fossero state molestate pur vivendo in un paese in guerra con al Gran Bretagna? Un po’ alla volta, con l’andar degli anni, mi giunsero all’orecchio aneddoti e particolari relativi ai Whitaker; le loro eccentricità, la fortuna inizialmente derivata dal commercio del marsala, i rapporti con i personaggi come Garibaldi, Wagner, l’imperatrice Eugenia e la regina Mary:

Sin da bambino, comunque, avevo frequentato vari membri della famiglia Whitaker e, fu per questo che nel maggio 1964 ricevetti improvvisamente un telegramma da Delia Whitaker che mi invitava nella sua isola di Morya fra Trapani e Marsala. Scoprii allora che ella desiderava che io curassi la pubblicazione delle carte e dei diari di sua madre.

Di fronte a una tale quantità di documenti rimasi scoraggiato, anche se Tina Whitaker aveva già pubblicato altri suoi scritti e era stata inoltre una cantante di notevole talento. Capii poi che Delia aveva in mente un volume imperniato su visite di regnanti, balli e ricevimenti stupendi a Palermo e Roma nel periodo dell Belle Epoque. E quando mi accorsi che i Lampedusa avevano fatto parte del mondo dei Whitaker – il Gattopardo era stato pubblicato da poco – cominciai a drizzare le orecchie. Successivamente scoprii che Tin, per quanto educata all’inglese, era figlia di genitori italiani e siciliani, e che tra le sue carte vi era anche del materiale riguardante il Risorgimento, e in particolare i patrioti esuli a Londra prima del 1860. Infine, cosa ancora più importante, vi fu la scoperta dei registri del fondatore delle fortune dei Whitaker, Benjamin Ingham. Le lettere che facevano parte di questo materiale andavano dal 1816 al 1860 e riportavano commenti di prima mano sugli avvenimenti politici ed economici sotto i Borboni.

Dopo di ciò non potevano esserci dubbi sull’accettazione dell’incarico da parte mia, e Delia accettò senza difficoltà un progetto articolato su due piani, cioè una saga di due secoli che trattasse rispettivamente di coloro che accumularono quella fortuna, e di quelli che la esaurirono.

Naturalmente la prima parte di questo volume doveva essere più estesa, per le implicazioni degli avvenimenti nazionali ed internazionali sulla comunità angloamericana, mentre la seconda concerne fatti più personali e pungenti, perché, come Delia sapeva bene, sua madre aveva, al contrario di lei, una lingua assai pungente. Per la prima parte ho consultato descrizioni  di viaggio di contemporanei e scritti di altre famiglie inglesi o americane, collegate un tempi con Marsala, Palermo e Messina, allo scopo di ricostruire il più verosimilmente  possibile il tipo di vita di questi spatriati in una Sicilia <sotto il vulcano>, espressione che non significa l’Etna – anche se per i siciliani esso è simbolo di violenza spontanea – ma è sinonimo di una continua successione di rivoluzioni, guerre, crisi finanziarie ed epidemie.

Benjamin Ingham partecipò agli avvenimenti direttamente, mentre Tina fu piuttosto una osservatrice, …

D’altro canto in seguito ai bombardamenti di Marsala e Palermo del 1943 da parte degli alleati, numerosi importantissimi documenti riguardanti soprattutto l’esportazione di vini  verso la Gran Brategna e gli Stati Uniti sono andati dispersi o risultano comunque introvabili. Il fatto che relativamente  poco si sappia delle attività personali quotidiane, di Ingham, eccezion fatta per quanto si è tramandato oralmente nelle storie di famiglia, è causa  - me ne rendo conto – di un divario fra le due parti del libro, ma anche questo rientrava nelle mie intenzioni.  Le vicende storiche della Sicilia sono tali da provocare quasi un senso di irritazione e di collera. Agli occhi di alcuni l’isola non è che un <incubo assolato<> e le sue miserie passate e attuali sarebbero il diretto risultato dello sfruttamento, oltre che dell’incuria e della stupidità. Altri, come il defunto lord Bridport, che ha ereditato da Nelson la Ducea di Bronte, oppongono un netto rifiuto ad abbandonare la vecchia interpretazione sul latifondo assenteista. Per quanto mi riguarda ho cercato di mantenermi imparziale in questo accanito scontro tra esperti. Questo volume si occupa per lo più di commercianti angloamericani all’estero, alcuni dei quali grandi filantropi; all’inizio nouveaux riches, erano però abbastanza riches da instaurare rapporti con le famiglie aristocratiche di Palermo, tali quindi da rappresentare un fenomeno mai più verificatosi. Spero inoltre di essere riuscito, sia pure di passata, a portare acqua alla celebre affermazione di Lampedusa circa i siciliani di ogni ceto sociale, i quali sarebbero , a suo dire, caratterizzati da una <terrificante insularità d’animo>. Mi sono sforzato di far mio il punto di vista dell’osservatore distaccato, estraneo agli avvenimenti narrati.

La Sicilia possiede luoghi di incomparabile bellezza, ma nel suo seno ospita anche miseria e squallore. Può essere violenta e sinistra e insieme dolce e sommessa. E’ stata teatro di molti efferati atti di crudeltà e di disastri, alcuni dei quali recenti. Ha attratto predatori di ogni specie che poi hanno finito per amarla e abbellirla. E’ stata definita un crocevia, una regione non europea, una porta per l’Europa. E tuttavia sia in arte che in politica ha dato i natali ad alcuni grandi europei. Da un certo punto di vista è la regione d’Italia più  tipicamente italiana, con virtù e difetti molteplici. Per un inglese la Sicilia è per molti aspetti l’Irlanda d’Italia, con la sua diversa civiltà, i suoi enigmi, il suo cristianesimo, per metà paganeggiante, la sua perversità, i suoi odi intestini, le sue disperate correnti di emigrazione prodotte da un sistema economico semplicemente mostruoso.

Ai Colli e a Bagheria le cadenti ville degli aristocratici, con le delicate balaustre e le statue ricoperte di licheni, provano ampiamente che i loro proprietari del XVIII e del XIX secolo, molti dei quali di ascendenza spagnola preferivano le delizie della Conca d’Oro alle loro polverose, assolate Donnafugate. E tuttavia, vien fatto di chiedersi fino a che punto alla mancanza di strade e alle asprezze di paesaggi esposti all’erosione degli agenti atmosferici per il fatto di essere stati denudati, in epoca romana e araba, del manto forestale  che li rivestiva: Mentre la distruzione era in atto i contadini poveri cercavano di sopravvivere, generazione dopo generazione, in preda alla superstizione  e alla paura, punta o poco al corrente di ciò  che accadeva nel resto del mondo  ....continua









"QUESTO LIBRO ...SAREBBE PIACIUTO A PROUST, COME IL RITRATTO DI UN TEMPO RITROVATO, RICOSTRUITO CON UN UNDERSTATEMENT BRITANNICO CHE VELA D'UMORISMO GLI ACCESI COLORI SICILIANI, IL RITRATTO DI UNA SICILIA VISTA DA UN COMPRENSIVO OCCHIO INGLESE CHE ARRICCHISCE E COMPLETA L'ORZZONTE SU CUI SPAZIAVA LO SGUARDO DEL PRINCIPE DI SALINA"

Guido Artom, Tuttolibri



Raleigh Trevelyan, storico di fama mondiale, ha vinto nel 1968 il Premio Florio per la sua traduzione inglese del volume di Luigi Meneghello I piccoli maestri. Durante la guerra ha partecipato allo sbarco di Anzio e, come capitano, per due anni è stato addetto militare a Roma. 

 

Libri in biblioteca...F. FELLINI

 

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Un po di .....(grande) Cinema





FELLINI Satiricon



a cura di Dario Zanelli




DAL SOGGETTO AL FILM

SOGGETTO: Il Satiricon di Petronio, riporta alla tradizione latina della satira: casi, racconti, rifacimenti di varia fonte e ben spesso in poesia, che fanno capo ad avventurieri senza scrupoli che si aggregano in ambienti diversi.... un filo conduttore  ...cui mai vien meno l'attrattiva della vita di ogni giorno,non solo per mettere in rilievo le turpitudini dei tempi, ma con un'agevole apertura a far discorsi di poesia, di filosofia,di educazione, quasi sempre con misurate citazioni e con abili rifacimenti; tutto questo trova corrispondenza nella satira latina. Qui questi altri motivi raggiungono una certa unità anche nel ripetersi degli argomenti  e nell'intercalazione di racconti e poesia, il che, arricchisce questa satira di motivi della novellistica diffusa a Roma e preannunzia il romanzo........Si nota il ripetersi di motivi cari alla commedia popolare, tutto un gusto popolare di presentare e di commentare gli avvenimenti con raffronti e allegorie.... 



FILM: Fellini si è avvicinato ad un grande testo dell'antichità classica, il romanzo di Petronio  col deliberato proposito di trasformarlo nell'occasione di un discorso che, proponendosi spregiudicatamente i termini del rapporto coi prodotti di una società lontana, contenesse, insieme  un presagio del nostro futuro, mescolando così, passato presente e futuro, nell'impasto di una personale avventura fantastica. La particolare intenzione naturalmente, ha creato problemi di ogni sorta: di rapporto col testo d'origine; di rapporto con la <romanità> in generale; di possibile raccolta di motivi del paganesimo per rilanciarli oltre l'esperienza cristiana; di più o meno riuscita emblematicità del mondo d'oggi; di validità della proposta finale; ecc. Tutto ciò spiega il dibattito culturale che si è incominciato a produrre quando ancora il film dopo le prime dichiarazioni del regista non era stato finito. Il volume, curato da Dario Zanelli, non raccoglie perciò, soltanto i documenti del trapasso di motivi-talvolta profondo- dalla prima idea del film alla sua realizzazione definitiva registrando le modificazioni spesso sostanziali introdotte  dopo il trattamento nella sceneggiatura poi nella fase delle riprese e del montaggio; ma compie una sorta di <resprint> dei testi più importanti  che hanno iniziato a muovere la vasta problematica suscitata da un'operazione artistica che non mancherà di impegnare col suo enigma inevitabile, la fantasia critica di coloro che ne tenteranno un consapevole approccio.

I personaggi del film  saranno come statue abitate da altri pensieri







































Federico Fellini è nato a Rimini il 20 gennaio 1920. Dopo aver sceneggiato alcuni importanti film del dopoguerra nel 1950 passa a alla regia con  <Luci del varietà> cui seguono : Lo sceicco bianco -I vitelloni -Una agenzia matrimoniale- La strada -Il bidone- Le notti di Cabiria -La dolce vita -Le tentazioni del dottore Antonio -Giulietta degli spiriti -Toby Dammit ...










Libri in biblioteca ...Santa Rosalia



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"Santa Rosalia" 

                                        ( foto tratta dal libro S ROSALIA di Castrenze Civello 1967)



                                                                                         

                                                                                    dal libro: SANTA ROSALIA E PALERMO del Benef. Emmanuele Salemi Battaglia  maestro di canto della Real Cappella Palatina di Palermo 1885



alla gloriosa romita della quiquisna e del pellegrino che vegghiando amorosa la terra ove fu nata e cresciuta nella luttuosa moria dell'ultima lue asiatica cesso' dai figli suoi il calice delle amarezze e della morte devotamente l'autore O.D.C. 


CAPITOLO i 
Palermo-Nascita di S. Rosalia- Sua fuga


La ragion di nobil cuna 
    Nell'April della speranza,
Le delizie, la fortuna 
Di regal fecondità 
L'oro, i suoi, la patria stanza
Pel suo Ben disprezza, e va. 

                                                                                                                  

Siede Palermo in amenissima valle difesa contro Borea e Greco da' monti, ed aperta del resto al Mediterraneo. La floridezza de' campi nelle vigne intrecciate agli olmi e nelle biade guardate dall'olivo: la fragranza de' simmetrici giardini inghirlandati dall'arancio e dal limone: le deliziose colline pomate e ridenti; che correndo attorno aggiungono grazia e brio: l'andare e venire sollazzevole da' villaggi qua e là graziosamente seminati fanno bella e deliziosa questa regione incantevole, baciat in riva dalle acque del Mediterraneo. La vasta pianura in estensione di ben quaranta miglia coltivata e ben messa, da placidi rigagnoli e marmoreggianti ruscelli inaffiata, è feracissima nelle produzioni di vino, olio frumento, canape, cotone ed altri cereali: per cui a buon dritto s'appella la Conca d'Oro. Abbondanti praterie favoriscono a dovizia i prodotti di burro, cacio, latte nutricando ben pingui vacche, fetose capre, lanute pecore. dalla parte di mare, cui inoltrarsi le sentinelle dei monti il Pellegrino ed il Gerbino, formanti cosi vasto seno, si ritrova ad Oriente il piccolo porto detto Cala, in cui le navi se ne stanno a riparo dagli sbuffi de venti. A settentrione è guardato dal porto grande, detto Molo, con bellissimo faro, che tra il buio pesto della notte e l'irato imperversare  delle procelle, incuora lo smagato nocchiero, e n'addita il riparo e la salvezza. Ad Ostro, il fiume Oreto, come a guardia della città regina, passando dalla Guadagna si scaica nel Mediterraneo; mentre ad Occidente, in distanza sui erge come corona la maestosa catna de' monti, che per essere discoscesi e ripidi, formano un circuito di naturali muraglie che solo consentono l'ingresso per dodici porte. 
In sì floridissima città sortiva i natali l'illustre vergine ROSALIA  figlia a Sinibaldi, signore de' monti della Quisquina e delle Rose, sulla metà del dodicesimo secolo. Non avendo pertanto precisione dell'anno in cui Ella nacque, pure, affin di accattare credito all'antica tradizione che dice<aver Rosalia soggiornato nella corte di re Guglielmo e Margherita,> c'è parso opportuno mandare avanti alcune pagine della nostra sicula.
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Presso a morte Ruggero II faceva coronare Re il suo terzo figlio Guglielmo, che nel 1150  conduceva in moglie Margherita figlia del Re di Navarra. Or nel mentre cotali cose avvicendavansi in Palermo, sortiva i natali l'illustre vergine ROSALIA. La tradizione, che dice <esser ella stata cara alla Regina Margherita, anzi essere stata una delle sue ancelle,> ci fa conoscere avvenuta la nascita di Lei o su' primordi del governo di Guglielmo, o in sugli ultimi di Ruggiero II. ...Ala giovinetta Rosalia che soggiornava in corte....ben potè apprendere quant'è fugace la gloria mondana, e quanto vane e piene di veleno le gioie terrene; sicchè per tutto questo trambustìo affermatasi vie più ad aspirare le pure gioie celesti, verso cui quale purissima colomba sollevavasi, determinava solo pel suo Dio vivere e morire. 
....Si vuole che la Santa desse inizio al suo eremitico tirocinio da una grotta vicino Morreale, quattro miglia distante da Palermo.
..... 






E' un fatto ed un ricordo glorioso per la città di Monreale non solo l'avere essa conservato nel suo Duomo memoria della Verginella palermitana S. Rosalia sin da una epoca assai precedente al ritrovamento del suo corpo, ma l'avere poi gareggiato con le principali città della Sicilia nel renderle onore, omaggio e culto devotissimo. In mezzo alle tante incertezze che occupano tuttavia una buona parte della storia civile ed ecclesiastica dell'Isola nostra, per quel che riguarda l'epoca precedente al secolo XVI., è impossibile determinare con precisione il tempo in cui S. Rosalia cominciò ad avere il suo culto in Monreale, come del resto è impossibile determinarlo per tutte le altre città siciliane. Però nessuna di esse è in grado di vantare una memoria più certa e più antica di quella che nel dicembre del 1620 si ritrovò nel Duomo monrealese, quando si restaurava il tetto. Allora in un'antichissima trave, che era la terza contando dalla porta maggiore del tempio, si trovò dipinto il mezzo busto di S. Rosalia tra cinque figure di altri santi, cioè San Domenico, S. Francesco , S. Angelo e S. Alberto. Era la verginella circondata da un festone di rose e vestita in abito monacale di color nero, che per l'antichità si degradava al bigio. Con la sinistra teneva una rosa sbocciata e con la destra il Rosario della Madonna: una ghirlanda, anch'essa di rose, le cingeva la fronte esotto di lei in lettere latine stava scritto <Sancta Rosalea>. ...una taccia di questo culto sia...che S. Rosalia  ritornando dal luogo del primo romitaggio si sia fermata in una grotta presso Monreale nella contrada di Buarra, e che lì per suo favore sia sgorgata una bella sorgente di acqua.  


........ L'abitatrice dell'orrosa Quisquina, la real Vergine del Signor delle Rose, la Figlia tua, la Solitaria.l'Eroica. L'Immortal Rosalia forma, o Palermo, la verace l'intera, l'immancabil tua gloria. Che? Al nome solo già il core coi palpiti ti balza in petto? Già il soave pallore ti sbianca il volto? Già sul ciglio ti corrono le dolci lacrime di tenerezza? Segui pur, fortunata, segui così dolci impressioni. Son io commosso, che ospite solo, e peregrino a tesser laude mi accingo, benchè inesperto , alla tua Figlia; non dovrai esserlo Tu , che sei di Essa e Patria , e Madre? Scorda per tanto qualunque onore, che vienti da Lei: volgi uno sguardo a quel Monte, che beato sovrasta alle tue mura; tempra il cor tuo insieme a riverenza, e stupore, e poi m'ascolta, Rosalia nell'involarsi dal mondo volle occultarsi a tutt'altri che a te, perchè il suo Nome sempre grande suonasse.....