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Il primo articolo pubblicato da Leonardo Sciascia su un quotidiano italiano apparve su L'Ora del 25 febbraio 1955: una nota letteraria su <Micio> Tempio, poeta del settecento catanese. Era stato Vittorio Nisticò, (cfr. qui post IL GIORNALE L'ORA pubblicato il 28.08.2018), da pochi mesi direttore del giornale, a cercare e invitare alla collaborazione il giovane scrittore, in quel momento ancora praticamente sconosciuto in Italia. Si inizia così tra L'Ora e Sciascia un rapporto destinato a durare per oltre trentaquattro anni: ed esattamente fino a quel giorno di novembre del 1989 in cui lo scrittore, poche ore prima di cedere per sempre al suo male, dettò proprio per L'Ora quello che può considerarsi l'ultima sua riflessione pubblica:
la prefazione, da tempo richiestagli dal giornale per il volumetto di scritti del Borgese apparso poi nella collana <Dalle pagine de L'Ora>
Scelti tra le centinaia di articoli e interviste che Sciascia andò pubblicando su L 'Ora nel corso di tre decenni, gli scritti apparsi tra il '64 e il '68 nella rubrica, che lui stesso volle chiamare semplicemente "Quaderno".
L'Editore
L'Ora 31 ottobre 1964 - LA VISTA DEGLI OCCHI
di Leonardo Sciascia
<Quant'è brutta la vista degli occhi> è, in Sicilia, un modo proverbiale di esprimere la condizione e la pena, di chi può soltanto da lontano, e macerandosi nel desiderio, contemplare l'abbondanza, la ricchezza, la bellezza. Con accentuazione comica lo si dice al passaggio di una bella donna oppure quando di una donna, lampeggia un nudo dettaglio. Ma più spesso, con tono doloroso, di fronte all'altrui ricchezza e privilegio; ed anche a giustificazione di chi attenta ai beni altrui. E' insomma il grido della povertà e del desiderio, da maledire quella facoltà della vista per cui certe cose del mondo entrano a sollecitare, a provocare, a tentare i sentimenti e gli istinti. Questo modo di dire popolaresco, e il ricordo di quel bellissimo racconto di Anna Maria Ortese che si intitola, nel libro Il mare non bagna Napoli, Un paio di occhiali, avevo in mente mentre visitavo, a San Cataldo, i cinque ragazzi i cui occhi, dalla nascita spenti da una cataratta, hanno acquistato la vista grazie ad un ardito intervento operatorio del dottor Luigi Picardo. Ma in questo nostro tempo in cui i libri, anche quelli buoni, durano se non lo spazio di un mattino, non più dello spazi di una stagione, non saremo molti a ricordare, dopo undici anni, il racconto dell'Ortese: che è la storia di una bambina di debolissima vista cui finalmente, con grande sacrificio per le ottomila lire che costano, la famiglia si decide a comprare un paio di occhiali; e quando per la prima volta la bambina li mette, ecco la miseria del vicolo, della casa, delle persone che la circondano balzare nel suo occhio netta, precisa, terrificante: un urto, un capogiro, un delirio. E forse, in termini diversi, con diversi riferimenti o ricordi, anche quelli che erano con me pensavano la stessa cosa: che questi ragazzi entrano sì nel mondo della luce ( e viene da pensare, per questa loro scoperta, ai versi del Manzoni: <Come la luce rapida/Piove di cosa in cosa/ E i color vari suscita/ Dovunque si riposa>/, ma entrano anche in un mondo in cui la secolare esperienza dei diseredati ha distillato questa espressione disperata, quasi una bestemmia: < Quant'è brutta la vista degli occhi!> E credo che di ciò un pò tutti, di fronte ai cinque ragazzi, avvertiamo un senso di responsabilità o di colpa. Poichè vengono da un lungo, oscuro viaggio; e noi abbiamo un mondo sufficientemente giusto, da presentare loro.
L'Ora 12 febbraio 1966 - GLI ANTENATI NORMANNI
di Leonardo Sciascia
Ho letto, in questi ultimi giorni, per un lavoro che sto facendo su narrativi siciliani che dicono la realtà della Sicilia, due scrittori siculo-americani: Jerre Mangione e Ben Morreale.
Del primo, già tradotto in italiano, un libro che tra il divertimento e l'idillio, con finissime notazioni psicologiche, rappresenta il mondo della <piccola Sicilia> nella città di Rochester: del secondo, con l'aiuto di un'amica inglese, un libro più duro, più complicato e problematico sia nella psicologia del protagonista che nella tecnica del racconto.
Il libro s'intitola The seventh saracen, il settimo saraceno: e la ragione del titolo è spiegato chiaramente nel preludio, che raccoglie la leggenda di sei fratelli saraceni consegnati ai vincitori normanni dal tradimento del settimo fratello, e poi più sottilmente, con inquieta coscienza, da tutto il racconto: che è, in effetti, la vicenda di un tradimento e di un rimorso (ma di un rimorso che non travalica mai dalla rappresentazione alla confessione, e anzi avvolto da un volontario cinismo).
Jerre Mangione ama la Sicilia, la <piccola Sicilia> di Rochester e quella mitica e lontana che rivive nel ricordo della madre: una Sicilia chiamata a paragone di ogni odore e sapore, di ogni dolcezza di vita e di ogni intensità di sentimento: un luogo insuperabile di verità e di bellezza. E si può dire che Mangione ha identificato la Sicilia con la madre, mentre Ben Morreale l'ha identificata col padre: e perciò, in termini quasi freudiani, la detesta e la ama. E un pò si sente <settimo saraceno> portatore di un tradimento ma al tempo stesso consapevole della necessità del tradimento: che è poi lo stato d'animo di chi è riuscito a passare la linea dell'integrazione. E si potrebbe per questo siculo-americano, ripetere il discorso altra volta tentato a proposito di Pietro Chiara e del suo libro Con la faccia per terra: considerando, tra l'altro, che anche il libro di Morreale è nato da un viaggio in Sicilia, nel paese dal quale i suoi genitori erano emigrati durante una di quelle periodiche crisi delle industrie zolfiere. Piccoli industriali dello zolfo, dice Morreale, i miei genitori sono venuti in America per riuscir ad accumulare quel poco denaro che avrebbe permesso loro di tornar a vivere in Sicilia, nella miseria cui erano abituati: e invece in America c'erano rimasti; ed è lui, nato in America, professore di storia in una università americana, che torna a Racalmuto, paese dei suoi genitori: con quella inquieta coscienza che i suoi genitori certamente non ebbero. Come il settimo saraceno, che col tradimento cercò di mimetizzarsi tra i normanni vincitori tornando in Sicilia e scoprendo che i siciliani lo riconoscono siciliano e non americano, il protagonista del libro cerca nel passato della Sicilia, nella storia, il punto in cui mimetizzarsi, il razziale che gli renda più facile il passaggio da siciliano ad americano: e lo trova, appunto, nei normanni... Praticamente un dramma tipico della società americana vien trasferito da Guy (questo è il nome del protagonista: normannizzazione, più che americanizzazione, di Gaetano)in una società, quale la nostra, assolutamente ignara di conflitti e mimetizzazioni razziali. E si arriva al grottesco di questo dialogo di Guy con le zie:
<Com'era nonno Giuliano? - chiese Guy. Rosa era seduta al tavolo e sbucciava fave; Pippina, seduta dall'altra parte, le schiacciava con un martello da calzolaia.
- Che vuol dire, Gaetano?
-Voglio dire, era alto o...
-No, era basso; molto più basso di te, ma forte.
-Io l'ho sempre immaginato alto.
-No, era più basso di te, ma solido, non grasso, solido.
-Era di colorito chiaro?
-Sì, come te: così chiaro che potevi vedere il sangue sulla sua faccia.
-Aveva gli occhi azzurri dunque.
Aveva gli occhi scuri - Rosa disse.
-Comunque, era di origine normanna, no?
-No, veniva da Campobello.
-Voglio dire, i suoi antenati venivano dalla Normandia.
-No, erano tutti di Campobello; non si è mai parlato d'altro.
-Ma io li ho immaginati provenienti dalla Normandia.
-E dov'è la Normandia?
-In Francia.
-Più lontano di Caltanissetta?
-Sì, più a Nord dell'Italia.
-Più lontano di Roma?- domandò Rosa.
-Sì.
Rosa levò alte le braccia - Mai papà Giuliano andava più lontano di Caltanissetta.->
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