BIBLIOTECA: LIBRI DEL FONDO MODERNO


















































In Biblioteca ...  per i bambini...

e studio critico sulla fiaba "Pinocchio"


 C. COLLODI

Copertina e tavole di Umberto Faini

Disegni nel testo di Roberto Sgrilli

 

C'era una volta .....

-Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori.

No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno.....semplice, di quelli che d'inverno  si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.

...il fatto è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname ....aveva nome Mastr'Antonio ma tutti lo chiamavano mastro Ciliegia per via della punta del suo naso che era sempre lustra e paonazza come una ciliegia matura.

...ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria perchè sentì una vocina sottile -Non mi picchiar forte!-


...fu bussato alla porta...entrò in bottega un vecchiettto il quale aveva nome Geppetto ...- Son venuto da voi, per chiedevi un favore. -Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno....che sappia ballare tirare di schema e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo  per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino; ...

Mastr'Antonio..andò subito a prendere quel pezzo di legno ..cagione di tante paure....e Geppetto prese con sè il suo bravo pezzo di legno, ringraziato mastr'Antonio se ne tornò zoppicando a casa. 

La casa di Geppetto era una stanzian terrena ..nella paret di fondo si vedeva un camunetto col fuoco acceso, ma il fuoco era dipinto. e accanto al fuoco c'era dipinta una piccola pentola he bolliva allegramente e mandava fuori una nuovola di fumo che pareva fumo davvero. 

-Che nome gli metterò? disse fra sè e sè- Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna....allora gli fece subto i capelli..poi la fronte, poi gli occhi..che lo guardavano fisso fisso. ...poi gli fece i naso...che cominciò a crescere...poi gli fece la bocca, poi gli fece il mento, il collo, le spalle, lo stomaco le braccia e le mani. ....quando le gambe..  cominciò a corere per la stanza.. saltò nella strada e si dette a scappare...un carabiniere che lo acciuffò... Povero buattino-dicevano alcuni- Ha ragione a non voler tornare a casa, Chi lo sa come lo picchierebbe quell'omaccio di Geppetto....il carabiniere  rimise in libertà Pinocchio e condusse in prigione il povero Geppetto...

Cri cri cri ...

Pinocchio si voltò e vide un grosso grillo che saliva lentamente su su per il muro.

Pinocchio ha fame e cerca un uovo per farsi una frittata; ma sul più bello la frittata gli vola via dalla finestra

Pinocchio si addormenta coi piedi sul caldano e la mattina dopo si sveglia coi piedi tutti bruciati

Geppetto torna a casa e dà al burattino la colazione che il pover'uomo aveva portata con sè


Geppetto rifà i piedi a Pinocchio e vende la propria casacca per comprargli l'Abbecedario

Pinocchio vende l'Abbecedario per andare a vedere il teatrino dei burattini



Il burattinaio Mangifuoco regala cinque monete d'oro a Pinocchio perchè le porti al suo babbo Geppetto; e Pinocchio, invece, si lascia abbindolare dalla Volpe e dal Gatto e se ne va con loro







 L'Osteria del Gambero Rosso

Pinocchio, per non aver dato retta ai buoni consigli del Grillo Parlante, s'imbatte negli assassini



La bella bambina dai capelli turchini fa raccogliere il burattino: lo mette a letto e chiama tre medici per sapere se sia vivo o morto

Pinocchio mangia lo zucchero ma non vuole purgarsi; però quando vede i becchini che vengono a portarlo via, allora si purga. Poi dice una bugia e per castigo gli cresce il naso.



Pinocchio è derubato delle sue monete d'oro e per castigo si busca mesi di prigione

Liberato dalla prigione si avvia per tornare a casa della Fata ma lungo la strada trova un serpente orribile e poi rimane alla tagliuola

Pinocchio è preso da un contadino il quale lo costringe a far da can di guardia a un pollaio




Pinocchio scopre i ladri e in ricompensa di essere stato fedele vien posto in libertà.

...appena Pinocchio non sentì più il peso durissimo e umiliante di quel collare intorno al collo, si pose a scappare attraverso i campi  ...per la casina della Fata....ma la casina non c'era più. C'era invece una piccola pietra di marmo sulla quale si leggevano in carattere stampatello quelle dolorose parole: 

   QUI GIACE 

LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI 

MORTA DI DOLORE 

PER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO 

FRATELLINO PINOCCHIO

Passò su per aria un grosso colombo il quale soffemandosi gli gridò:- Cosa fai costaggiù?

piango-disse Pinocchio.....Conoscerai Geppetto?

Se lo conosco! E' il mio povero babbo...Mi conduci da li?

L'ho lasciato tre giorni fa sulla spiaggia del mare...si fabbricava da sè una piccola barchetta per traversare l'Oceano.....in cerca di te.

-Dov'è la barchetta?

-Eccola, laggiù, diritta al mio dito..

Gli è il mi' babbo! gli è il mi' babbo! - 

E parve che Geppetto ..riconoscesse il figliuolo. Tutt'a un tratto venne una teribile ondata e la barca sparì. Quand'ecco che udirono un urlo disperato e voltandosi indietro videro un ragazzetto che di vetta a uno scoglio si gettava in mare gridando: -Voglio salvare il mio babbo! ...nuotò tutta quanta la notte. ...alla fine venne un'ondata ..che lo scaraventè di  peso sulla rena del lido. 

Pinocchio ariva all'Isola delle <Api industriose> e ritrova la Fata....- Birba di un burattino! Come mai ti sei accorto che ero io? ..Mi lasciasti bambina e ora mi ritrovi donna; 

Pinocchio promette alla Fata di essere buono e di studiare, perchè è stufo di fare il burattino e vuol diventare un bravo ragazzo. 

...Dimmi mammina; dunque non è vero che tu sia morta?

-Pare di no-rispose sorridendo la Fata. 

-Io studierò. io lavorerò, io farò tutto quello che mi dirai. perchè insomma la vita del burattino mi è venuta a noia e voglio diventare un ragazzo a tutti i costi. Me l'hai promesso, non è vero? 

..Pinocchio ...andò alla scuola comunale...Ora avvenne che un bel giorno và coi suoi compagni di scuola in riva al mare per vedere il terribile pescecane

Gran combattimento fra Pinocchio e i suoi compagni uno dè quali essendo rimasto ferito Pinocchio viene arrestato  dai carabinieri. ..gLiaizzarono dietro un grosso mastino., Alidoro il suo nome.  Pinocchio correva e il cane correva più di lui. Sulla spiaggia il burratino spiccò un bellissimo salto  e andò a cascare in mezzo all'acqua . Alidoro invece che non sapeva nuotare ..cominciò ad annaspare 

-Aiutami Pinocchio mio! slavami dalal morte. ...-Ma se io ti aiuto a salvati mo prometti di non darmi più noia e di non corrermi dietro?

-Te loprometto! Te lo prometto!

...Il  burattino seguitò a nuotare . . vide sugli scogli una specie di grotta..vide uscire un pescatore  tanto brutto...- Ora vediamo un pò che pesci abbiamo presi!disse il pescatore...-Che razza di pesce è questo?..L'infelice Pinocchio a quest'antifona, cominciò a piangere a strillare e piangendo diceva: -Com'era meglio che fossi andato a scuola..Ho voluto dar retta ai compagni e ora la pago!. Mentre il pescatore era proprio sul punto di buttar giù Pinocchio nella padella, entrò un grosso cane... che ...riconobbe subito la voce di Pinocchio ...spicca un gran lancio da terra, abbocca quel fagotto infarinato e ..via come un baleno. 

-Quanto ti debbo ringraziare!  disse il burattino. Non c'è bisogno, replicò il cane. Tu salvasti me e quel che è fatto è reso.

- Come farò a presentarmi alla mia buona Fatina? 

...-Anche per questa volta ti perdono- gli disse la Fata.  

Ma ..

Pinocchio invece di diventare un ragazzo parte di nascosto col suo amico Lucignolo per il Paese dei balocchi.

...Dopo cinque mesi di cuccagna, Pinocchio con sua gran meraviglia sente spuntarsi un bel paio d'orecchie sinine e diventa unciuchino con la coda e tutto





...Perchè?...Perchè, Marmottina mia io sono un burattino senza giudizio.. e senza cuore.?.....

...il compratore del ciuchino.....che sarebbe rimasto zoppo per tutta la vita, gli  mise un sasso al collo lo gettò in acqua.. 

Pincchio andò subito a fondo .... e risalì...burattino....Intanto Pinocchio nuotava alla ventura , quando ecco uscir fuori dall'acqua e venirgli incontro una orribile testa di mostro marino...era quel gigantesco Pesce-cane ...che lo aveva raggiunto  e lo inghiottì....cammina, cammiana alla fine, trovò una piccola tavola apparecchiata con sopra una candela accesa e seduto a tavola un vcchietto tutto bianco...e a Pinocchio, gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia  e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vcchietto, cominciò ad urlare: Oh babbino mio Finalmete vi ho trovato! Ora non vi lascio più, mai più, mai più!- Dunque gli occhi mi dicono il vero? - replicò il vecchietto stropicciandosi gli occhi

- Dunque tu se' proprio il mi' caro Pinocchio?

...Allora Pinocchio, offrendo il suo braccio a Geppetto che aveva appena il fiato di reggersi in piedi, gli disse: -Appoggiatevi pur al mio braccio, caro babbino e andiamo....in cerca di una casa o di una capanna....

e videro seduti sul ciglio di una strada il Gatto e la Volpe, ma non si riconoscevano più da quelli di una volta....-Mi avete ingannato una volta e ora non mi ripiglaiate più..."la farina del diavolo va tutta in crusca"...

Pinocchio e Geppetto seguitarono per la loro strada  finchè videro una bella capanna....videro il grillo parlante...ma ti rammenti di quando per cacciarmi di casa tua mi tirasti un martello di legno? - hai ragione Grillino ..e io terrò a mente la lezione ch mi hai data...e questa capanna?

-Mi è stata regalata da  una graziosa capra....

-Era la mia cara Fatina! singhiozzando e piangendo...dimmi Grillino dove potrei trovare  un bicchiere di latte per il mio povero babbo? 

-c'è l'Ortolano Giangio  che tiene le mucche... Pinochio andò ...

-Tirami su cento secchie d'acqua e io ti regalerò in compenso un bicchiere di latte...

Pinocchio si pose subito al lavoro...!

nella stalla vide un bel ciuchino... era Lucignolo...

Un mio compagno di scuola!

-Come? urlò Giangio avevi dei somari per compagni di scuola!...Figuriamoci i belli studi che devi aver fatto!... Il burattino, sentendosi mortificato, non rispose ma prese il suo bicchiere di latte  e se ne tornò alla capanna e così per più di cinque mesi a  fare ed imparare tanto altro.

Una sera...andò a letto e si addormentò. E nel dormire gli parve di vedere in sogno la Fata-Bravo Pinocchio! io ti perdono tutte le monellerie  ...

Svegliatosi si accorse che non era più un burattino di legno ma ch era divntato invece un ragazzo  come tutti gli altri. Appena si fu vestito gli venne fatto di mettere le mani nelle tasche e tirò fuori un piccolo porta monete d'avorio sul quale erano scritte queste parole.<La Fata dai capelli turchini restituisce al suo caro Pinocchio i quaranta soldi e lo ringrazia tanto del suo buon cuore> Apeto il portafogli invece di quaranta soldi di rame vi luccicavano quaranta zecchini d'oro tutti nuovi di zecca.

...Questo improvviso cambiamento in casa nostra è tutto merito tuo -disse Geppetto....perchè quando i ragazzi di cattivi diventano buoni hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche all'interno delle loro famiglie...e poi gli accennò un grosso burattino appoggiato alla seggiola col capo girato da una parte con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo da parere un miracolo se stava ritto.  

......



IL SIMBOLISMO DI PINOCCHIO E LA MAGICA LETTURA DI MADE'
La fortuna meritata di Pippo Madè e della sua lettura segnica della favola di Carlo Collodi ci impegnano nella ulteriore riflessione sul capolavoro del <Pinocchio>


Come andò che maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno che piangeva e rideva come un bambino

Geppetto, tornato a casa, comincia a fabbricarsi il burattino e gli mette il nome Pinocchio. Prime monellerie del burattino









...Uno dei valori fondamentali di un libro, scritto da un artista, è quello di avere la possibilità di tante interpretazioni, quante la realtà stessa, secondo il punto di vista da cui si guarda; e che un libro che non abbia questa fcondità è un 'opera morta o meglio un fossile di libro, perchè già pietrificato nel suo astratto significato. Il valore di Pinocchio è per me nell'avventuroso processo per cui di un burattino è un modo d'esser schiavi; l'avventura di PInocchio è quella di un essere che conquista la propria libertà.
Qualche spirito bizzarro potrebbe  pensare che Pinocchio sia più libero da burattino, perchè ciò gli concede di abbandonarsi al capriccio del momento e di correre tante avventure, alcune delle quali riuscirebbero fatali ad un uomo; che egli insomma goda della sua natura di burattino e, diventato uomo, attraverso l'accettazione di doveri ed impegni sociali, e il piegarsi al lavoro produttivo, egli perda questa libertà. 
Ma è evidente che quel che manca in questo caso è il concetto della libertà. 
Pinocchio burattino è il facile trastullo dei richiami della vita, dallo spettacolo dei burattini, che non diventeranno mai uomini perchè tenuti al filo da un burattinaio (Pincchio è un burattino senza burattinaio, ma con un papà), alle promesse della ricchezza improvvisa e senza fatica, alla gioia del paese dei balocchi. PInocchio è lo schiavo delle buone intenzioni e delle attrattive, della seduzione degli uomini e delle cose. 
.....





TESTO -BIBLIOTECA ITALIANA PER IPOVEDENTI








IL POEMA DI PINOCCHIO IN DIALETTO SICILIANO

Cc'era 'na vota, picciriddi cari..
.- Un re- rispunni tu, nicu letturi.
Cc'era 'na vota...Nun cci po' arrivari 
cu la tò 'ntelligenza e lu valuri.
Cc'era 'na vota un lignu di catasta 
ch'è bonu pi la stufa e tantu basta.









In Biblioteca...


I libri del NATOLI


Luigi Natoli nacque  a Palermo il 14 aprile 1857. All'età di tre anni insieme ai genitori fu rinchiuso dalla polizia borbonica  nelle carceri della Vicaria.  La madre del Natoli, nonostante il marito fosse un funzionario dell'amministrazione borbonica, all'annuncio dell'arivo di Garibaldi fece indossare la camicia rossa  ma furono tutti arrestati ed i loro beni confiscati.  La vena letteraria di Natoli cominciava ad apparire. Il giovane, scopriva la storia della sua città e della Sicilia. Egli fu un singolare autodidatta a causa della mancanza di mezzi per frequentare il liceo dopo gli studi precedenti dove  gli avevano profettizzato un brillante avvenire di scrittore. La precoce vocazione letteraria fu consacrata dalla pubblicazione del romanzo I Beati Paoli, oggi riconosciuto come il suo capolavoro. Ma la sua produzione è vasta e spazia dalla narrativa, alla storia, alla poesia.  Fu costretto ad abbandonare la scuola normale per conseguire un titolo che gli permettesse di guadagnare con l'insegnamento. Nell'86 si trasferì a Roma. Entrò nelle scuole normali per concorso nel 1888 e nominato professore di lettere a Palermo. Sono gli anni della sua amicizia con Giuseppe Pitre insieme al quale pose le basi per la creazione del Museo Etnografico  e di altri ed intensi rapporti con diversi letterati. Inizia anche un suo diretto impegno politico. Seguirà una vita errante di città in citta, a dirigere le scuole Normali e ad ogni rientro a Palermo lo vedeva inquilino di una nuova casa. Da una prima moglie Emma,  morta prematuramente, ebbe tre figli,. Al ricordo di Emma dedicò cinque sonettiraccolti sotto il titolo di Parentalia. Con la sua seconda moglie. Teresa, avrà otto figli. Come nobildonna francese, le piaceva tenere in casa un salotto letterario aperto il giovedì e non smise mai di tenersi aggiornata. Luigi, ai figli cercò di inculcae i principi dell'autonomia di giudizio dell'onestà intellettuale del rispetto del prossimo e della lealtà a tutti i costi. Una famiglia, unita da un forte senso del patriottismo imparato dal padre. 

 

in Biblioteca, di Luigi Natoli: 



























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LIBRI IN BIBLIOTECA...





A tutti coloro che non si rassegnano allo stato presente del mondo



Che cosa, dunque, è il bene?
E' la conoscenza della realtà.
E il male? E' l'ignoranza.
                                          SENECA 

Caro diario, 
una lettera non breve, e tuttavia sintetica rispetto all'ampiezza della materia, credo sia il modo migliore per riispondere alle domande, crescenti con l'età, che mi vieni rivolgendo sul '68 e dintorni....
Parlare oggi del sessantotto richiede per prima cosa di liberarsi dalla grande mole di interpretazioni faziose e distorte che i poteri dominanti e i loro media, con una campagna inesausta, hanno tentato di accreditare. ...
Come se fossero attanagliati dalla paura che il libro nuovo, scritto allora da milioni di persone, possa essere letto ancora e compreso, invogliando magari alla stesura di altre pagine. Bruciarlo una volta per tutte: questa sarebbe la soluzione per loro desiderabile. 
Ma, come sai, i roghi non sono stati mai riusciti ad incenerire le idee....



Seminare non è così faticoso come raccogliere.
                                                    J.W. GOETHE

...il Sessantotto da noi, non solo continua nell'anno successivo, ma comincia anche in quello precedente. Il movimento degli studenti prende il via, infatti, nell'autunno 1967. Emblematiche allora, le vicende accadute all'Università Cattolica di Milano ...con le caratteristiche di un sessantotto in miniatura. ...



Che cosa vi aspettavate quando si sciolse il bavaglio 
che aveva reso mute le loro bocche?
Che cantassero le vostre lodi?
                                                               J. P. SARTRE

Come le api, che stanno per sciamare dall'alveare: in primavera e occorre che sia una giornata tiepida, serena e con calma di vento; dapprima sembra non accadere nulla di strano. il volo degli insetti è regolare in uscita e in entrata, come di consueto; ma ecco che piano piano  le api che escono diventano più numerose di quelle che rientrano; e non si librano  con lo scatto rettilineo di sempre, quando è certa la direzione dei fiori da raggiungere per bottinare; vanno invece via di lato per traiettorie obblique, laterali, verticali a sghimbescio....

Il sessantotto....un avvenimento che segna il tempo? O piuttosto un complesso di eventi, una trama di fatti, uno sciamare di energie che si liberano in tutte le direzioni? ...


I grandi ci sembrano tali perchè siamo in ginocchio...
                                                                                       LES REVOLUTIONS DE PARIS

L'autunno caldo del 1969 è la stagione della riscossa degli operai e dei lavoratori. ...



Abbiamo fratelli in tutto il mondo  
                                                                                                 S. CARMICHAEL

Nel mondo. il sessantotto si estende con una straordinaria molteplicità di diramazioni.... Il sessantotto è il mondo che per la prima volta riesce a guardarsi. E a vedersi. Nell'immenso groviglio di ingiustizie e di contraddizioni laceranti che lo attanagliano. Insieme alle possibilità di superarle.  ...
Oltre alle diversità, c'è però un filo che sembra collegare tutto. Un filo che attraversa gli oceani e percorre i continenti: ovunque gli esseri umani cominciano a sentirsi parte di un tutto e affermano la dignità di sè in quanto persone. ...coscienti , interessate a costruire valori e regole di equità e di libertà che rendano la vita un'avventura desiderabile, per i singoli e per i popoli....



Il possesso della forza corrompe inevitabilmente il libero giudizio della  
                                                                                                       I. KANT
                                                                                                   
La repressione, sistematica e generalizzata, è la risposta che, in forme analoghe, gli stati, i governi, i parlamenti, al pari dei partiti unici, danno al Sessantotto nel mondo. Alle idee non vengono opposte altre idee, ma la forza, fino a ricorrere agli assassini, agli eccidi, alle stragi.



E' da allora che il potere va in giro nudo.
                                            E. BALDUCCI

Ha vinto, il Sessantotto, o ha perso? La questione del bilancio circa i suoi esiti e i lasciti, ritenuti positivi o meno, continua a tenere banco. Basta a volte la più piccola occasione- una polemica, una ricorrenza, qualche riferimento - per imbastirvi una discussione, che emerge nei dibattiti , nei salotti televisivi, sui giornali. A confema non solo che non si è trattato di qualcosa di ininfluente ma al contrario, di un evento che merita ancora attenzione, comunque la si pensi in merito.



Quante strade un uomo dovrà percorrere prima che possiate chiamarlo uomo? 
                                                                                                                           B. DILAN

I giudizi sul Sessantotto: è raro trovarne a tinte tenui. Come di solito capita dinanzi agli avvenimenti storici che lasciano il segno, le valutazioni tendono a contrapporsi e così è, del resto, per le passioni che più o meno le accompagnano. I pareri contrari colpiscono per la loro uniforme negatività assoluta, avanzata come incontrovertibile, Esaminatone uno, in pratica li conosci tutti. Si basano di solito su quella che possiamo chiamare la sintesi occultante che annega e cancella le dinamiche specifiche; oppure all'opposto, enfatizzano l'isolamento di un particolare, sdradicandolo dal contesto. Proprio il contrario di quello che raccomanda a ragione, Enzo Mazzi, che a proposito di quegli anni scrive: <Comprensione vuol dire esaminare gli intrecci, tutti gli intrecci>. ....



I successi del capitalismo non riusciranno a seppelire la domanda democratica di un'<altra> società
                                                                                                     F. FURET

Del sessantotto, come di tutti gli eventi storici, non si può che parlare al passato. Ma la sua forza si rivela nel guardarlo al futuro. Se venissi a sapere che, negli ultimi trent'anni, il divario di reddito tra la minoranza più ricca e la maggioranza più povera dell'umanità si è gagliardamente triplicato, che cosa ne concluderesti?  Quelli che allora, in ogni parte del modo - i testimoni - levarono alta la voce, in lingue diverse ma con accenti simili, affinchè si abbandonasse la strada del sorpruso per imboccare quella dell'equità, avevano torto o invece, ragioni solide? 



Contestate e create
                                            I. GEYMONAT

Il futuro:  ad esso essenzialmente è volto il ragionamento. Partendo certo, dal passato, perchè senza memoria si ha il vuoto alle spalle.
Chi non sa da dove viene, ignora dove andare e, soprattutto, perchè....
Ho cercato di dirti non <come era verde la mia valle> ma come sia possibile immaginarne una dove vivere sereni, diritto di tutti gli uomini, oltre quella lutulenta di oggi. Raggiungibile attraverso un percorso alla cui costruzione vale la pena contribuire. In questo senso il ricordo è al servizio del futuro. Diversamente dalla nostalgia, con cui non va asolutamente confuso.... Se il tuo cuore e la tua mente saranno capaci di accendersi per ogni ingiustizia, chiunque ne sia la vittima e in qualsiasi parte del mondo, vorrà dire che ti sentirai e sarai, veramente parte dell'umanità. Se ogni tuo atto e pensiero saranno volti a contrastare la prepotenza e a costruire l'equilibrio fra tutti gli esseri umani, e fra loro e la natura, spargera intorno a te un contagio benefico, E sari felice, proprio perchè contribuirai a rendere tali anche gli altri. Se al contrario, ti chiuderai nell'egoismo, anzichè aprirti nella solidarietà e ti seppellirai nell'individualismo, ti ridurrai ad avere paura di tutto e di tutti, paura in primo luogo, di te stesso, e sarai uno dei tanti naufraghi alla deriva nel mare di pochezza globale che oggi vuole risucchiarci.  .....
Se sai, sei: autonomo e intelligente, a tal punto da capire che bisogna combattere per cambiare il mondo. E nessuno potrà mai rubare i tuoi beni, perchè li custodisci dentro di te e li metti a servizio degli altri. Se non sai, esisterai per concessione altrui, prigioniero delle forze che altri manovrano per mantenere gli esseri umani nella condizione di moderna, spensierata  minorità. E allora sì, quelle forze, e chi le controlla, ti sembreranno invincibili. Mentre non lo sono affatto, e lo scopriremmo con facilità  se smettessimo di alimentarle con la nostra passività e il nostro rassegnato consenso . Sta a te decidere. A ognuno di noi. Sarai tu a tirare le conclusioni di tutto quello che si è detto. Ci mancherebbe altro che lo facessi io al tuo posto e sarai tu a scrivere  le tue pagine. ...




sul Sessantotto in biblioteca...anche



Sullo spegnersi della sua vita un grande e amaro meridionalista concludeva un giudizio sul Risorgimento: non è stato una rivoluzione, ma una grande rivelazione. E' probabile che un'asserzione dl genere si applichi a ogni moto, a ogni ribellione, a ogni impeto vittorioso o sconfitto. Ma è certo che, nell'ironia particolare data dal meridionalista, cade a taglio per quel recente passato ricordato, in modo sempre più flebile, come <il Sessantotto>. 
Nel protagonista e autore di questo libro, per fatto di <generazione> (<generazione>, <la mia generazione>: altri modi di identificarsi cari a quegli anni, almeno per la scia di una celebre canzone) la rivelazione coincise col naturale disvelarsi del mondo proprio all'adolescenza, e poi alla prima giovinezza e alla piena e tarda. E dunque il tema de Il Verbale  potrebbe essere: dei modi come a una generazione il mondo si rivelò durante il Sessantotto, grazie al Sessantotto.
Un'autobiografia, una confessione, un <j'ai vecu> da chi visse intensissime quelle astuzie della storia, una memoria collettiva? Forse, meglio, una resa alla rivelazione: nel senso in cui si dice arrendersi all'evidenza dei fatti. 


oi che ci ribellammo e fummo sconfitti 






Libri in biblioteca

                




PRINCIPI SOTTO IL VULCANO

Storia e leggenda di una dinastia di "gattopardi" anglosiciliani dai Borboni a Mussolini


Udii  parlare per la prima volta di Tina Whitaker nell’inverno del 1944 mentre, giovane ufficiale, mi trovavo a Roma. Rimasi in Italia per altri due anni e, benché avessi frequentato alcuni membri della famiglia Whitaker praticamente durante tutta la mia vita, non conobbi mai di persona Tina che per me era una specie di leggenda: una gran dama,vecchia  e imperiosa, che viveva ai Parioli, alla cui casa non avrei mai osato presentarmi senza essere invitato. Comunque quando misi piede a Roma avevo appena ventun anni  ed ero troppo occupato a godermi le mie prime impressioni della città e a spassarmela con i suoi abitanti miei coetanei.

Sapevo però che la signora Whitaker aveva superato da un pezzo  l’ottantina e che aveva un passato in qualche modo <straordinario>. Sapevo inoltre che lei e le sue due figlie Norina e Delia, entrambe ormai anziane, conducevano una vita piuttosto agiata e, questo fatto era di per sé  già eccezionale. Infatti come si spiegava che la madre e le figlie, che portavano un cognome inglese, non fossero state molestate pur vivendo in un paese in guerra con al Gran Bretagna? Un po’ alla volta, con l’andar degli anni, mi giunsero all’orecchio aneddoti e particolari relativi ai Whitaker; le loro eccentricità, la fortuna inizialmente derivata dal commercio del marsala, i rapporti con i personaggi come Garibaldi, Wagner, l’imperatrice Eugenia e la regina Mary:

Sin da bambino, comunque, avevo frequentato vari membri della famiglia Whitaker e, fu per questo che nel maggio 1964 ricevetti improvvisamente un telegramma da Delia Whitaker che mi invitava nella sua isola di Morya fra Trapani e Marsala. Scoprii allora che ella desiderava che io curassi la pubblicazione delle carte e dei diari di sua madre.

Di fronte a una tale quantità di documenti rimasi scoraggiato, anche se Tina Whitaker aveva già pubblicato altri suoi scritti e era stata inoltre una cantante di notevole talento. Capii poi che Delia aveva in mente un volume imperniato su visite di regnanti, balli e ricevimenti stupendi a Palermo e Roma nel periodo dell Belle Epoque. E quando mi accorsi che i Lampedusa avevano fatto parte del mondo dei Whitaker – il Gattopardo era stato pubblicato da poco – cominciai a drizzare le orecchie. Successivamente scoprii che Tin, per quanto educata all’inglese, era figlia di genitori italiani e siciliani, e che tra le sue carte vi era anche del materiale riguardante il Risorgimento, e in particolare i patrioti esuli a Londra prima del 1860. Infine, cosa ancora più importante, vi fu la scoperta dei registri del fondatore delle fortune dei Whitaker, Benjamin Ingham. Le lettere che facevano parte di questo materiale andavano dal 1816 al 1860 e riportavano commenti di prima mano sugli avvenimenti politici ed economici sotto i Borboni.

Dopo di ciò non potevano esserci dubbi sull’accettazione dell’incarico da parte mia, e Delia accettò senza difficoltà un progetto articolato su due piani, cioè una saga di due secoli che trattasse rispettivamente di coloro che accumularono quella fortuna, e di quelli che la esaurirono.

Naturalmente la prima parte di questo volume doveva essere più estesa, per le implicazioni degli avvenimenti nazionali ed internazionali sulla comunità angloamericana, mentre la seconda concerne fatti più personali e pungenti, perché, come Delia sapeva bene, sua madre aveva, al contrario di lei, una lingua assai pungente. Per la prima parte ho consultato descrizioni  di viaggio di contemporanei e scritti di altre famiglie inglesi o americane, collegate un tempi con Marsala, Palermo e Messina, allo scopo di ricostruire il più verosimilmente  possibile il tipo di vita di questi spatriati in una Sicilia <sotto il vulcano>, espressione che non significa l’Etna – anche se per i siciliani esso è simbolo di violenza spontanea – ma è sinonimo di una continua successione di rivoluzioni, guerre, crisi finanziarie ed epidemie.

Benjamin Ingham partecipò agli avvenimenti direttamente, mentre Tina fu piuttosto una osservatrice, …

D’altro canto in seguito ai bombardamenti di Marsala e Palermo del 1943 da parte degli alleati, numerosi importantissimi documenti riguardanti soprattutto l’esportazione di vini  verso la Gran Brategna e gli Stati Uniti sono andati dispersi o risultano comunque introvabili. Il fatto che relativamente  poco si sappia delle attività personali quotidiane, di Ingham, eccezion fatta per quanto si è tramandato oralmente nelle storie di famiglia, è causa  - me ne rendo conto – di un divario fra le due parti del libro, ma anche questo rientrava nelle mie intenzioni.  Le vicende storiche della Sicilia sono tali da provocare quasi un senso di irritazione e di collera. Agli occhi di alcuni l’isola non è che un <incubo assolato<> e le sue miserie passate e attuali sarebbero il diretto risultato dello sfruttamento, oltre che dell’incuria e della stupidità. Altri, come il defunto lord Bridport, che ha ereditato da Nelson la Ducea di Bronte, oppongono un netto rifiuto ad abbandonare la vecchia interpretazione sul latifondo assenteista. Per quanto mi riguarda ho cercato di mantenermi imparziale in questo accanito scontro tra esperti. Questo volume si occupa per lo più di commercianti angloamericani all’estero, alcuni dei quali grandi filantropi; all’inizio nouveaux riches, erano però abbastanza riches da instaurare rapporti con le famiglie aristocratiche di Palermo, tali quindi da rappresentare un fenomeno mai più verificatosi. Spero inoltre di essere riuscito, sia pure di passata, a portare acqua alla celebre affermazione di Lampedusa circa i siciliani di ogni ceto sociale, i quali sarebbero , a suo dire, caratterizzati da una <terrificante insularità d’animo>. Mi sono sforzato di far mio il punto di vista dell’osservatore distaccato, estraneo agli avvenimenti narrati.

La Sicilia possiede luoghi di incomparabile bellezza, ma nel suo seno ospita anche miseria e squallore. Può essere violenta e sinistra e insieme dolce e sommessa. E’ stata teatro di molti efferati atti di crudeltà e di disastri, alcuni dei quali recenti. Ha attratto predatori di ogni specie che poi hanno finito per amarla e abbellirla. E’ stata definita un crocevia, una regione non europea, una porta per l’Europa. E tuttavia sia in arte che in politica ha dato i natali ad alcuni grandi europei. Da un certo punto di vista è la regione d’Italia più  tipicamente italiana, con virtù e difetti molteplici. Per un inglese la Sicilia è per molti aspetti l’Irlanda d’Italia, con la sua diversa civiltà, i suoi enigmi, il suo cristianesimo, per metà paganeggiante, la sua perversità, i suoi odi intestini, le sue disperate correnti di emigrazione prodotte da un sistema economico semplicemente mostruoso.

Ai Colli e a Bagheria le cadenti ville degli aristocratici, con le delicate balaustre e le statue ricoperte di licheni, provano ampiamente che i loro proprietari del XVIII e del XIX secolo, molti dei quali di ascendenza spagnola preferivano le delizie della Conca d’Oro alle loro polverose, assolate Donnafugate. E tuttavia, vien fatto di chiedersi fino a che punto alla mancanza di strade e alle asprezze di paesaggi esposti all’erosione degli agenti atmosferici per il fatto di essere stati denudati, in epoca romana e araba, del manto forestale  che li rivestiva: Mentre la distruzione era in atto i contadini poveri cercavano di sopravvivere, generazione dopo generazione, in preda alla superstizione  e alla paura, punta o poco al corrente di ciò  che accadeva nel resto del mondo  ....continua









"QUESTO LIBRO ...SAREBBE PIACIUTO A PROUST, COME IL RITRATTO DI UN TEMPO RITROVATO, RICOSTRUITO CON UN UNDERSTATEMENT BRITANNICO CHE VELA D'UMORISMO GLI ACCESI COLORI SICILIANI, IL RITRATTO DI UNA SICILIA VISTA DA UN COMPRENSIVO OCCHIO INGLESE CHE ARRICCHISCE E COMPLETA L'ORZZONTE SU CUI SPAZIAVA LO SGUARDO DEL PRINCIPE DI SALINA"

Guido Artom, Tuttolibri



Raleigh Trevelyan, storico di fama mondiale, ha vinto nel 1968 il Premio Florio per la sua traduzione inglese del volume di Luigi Meneghello I piccoli maestri. Durante la guerra ha partecipato allo sbarco di Anzio e, come capitano, per due anni è stato addetto militare a Roma. 






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Un po di .....(grande) Cinema






FELLINI Satiricon




a cura di Dario Zanelli




DAL SOGGETTO AL FILM

SOGGETTOIl Satiricon di Petronio, riporta alla tradizione latina della satira: casi, racconti, rifacimenti di varia fonte e ben spesso in poesia, che fanno capo ad avventurieri senza scrupoli che si aggregano in ambienti diversi.... un filo conduttore  ...cui mai vien meno l'attrattiva della vita di ogni giorno,non solo per mettere in rilievo le turpitudini dei tempi, ma con un'agevole apertura a far discorsi di poesia, di filosofia,di educazione, quasi sempre con misurate citazioni e con abili rifacimenti; tutto questo trova corrispondenza nella satira latina. Qui questi altri motivi raggiungono una certa unità anche nel ripetersi degli argomenti  e nell'intercalazione di racconti e poesia, il che, arricchisce questa satira di motivi della novellistica diffusa a Roma e preannunzia il romanzo........Si nota il ripetersi di motivi cari alla commedia popolare, tutto un gusto popolare di presentare e di commentare gli avvenimenti con raffronti e allegorie.... 



FILM: Fellini si è avvicinato ad un grande testo dell'antichità classica, il romanzo di Petronio  col deliberato proposito di trasformarlo nell'occasione di un discorso che, proponendosi spregiudicatamente i termini del rapporto coi prodotti di una società lontana, contenesse, insieme  un presagio del nostro futuro, mescolando così, passato presente e futuro, nell'impasto di una personale avventura fantastica. La particolare intenzione naturalmente, ha creato problemi di ogni sorta: di rapporto col testo d'origine; di rapporto con la <romanità> in generale; di possibile raccolta di motivi del paganesimo per rilanciarli oltre l'esperienza cristiana; di più o meno riuscita emblematicità del mondo d'oggi; di validità della proposta finale; ecc. Tutto ciò spiega il dibattito culturale che si è incominciato a produrre quando ancora il film dopo le prime dichiarazioni del regista non era stato finito. Il volume, curato da Dario Zanelli, non raccoglie perciò, soltanto i documenti del trapasso di motivi-talvolta profondo- dalla prima idea del film alla sua realizzazione definitiva registrando le modificazioni spesso sostanziali introdotte  dopo il trattamento nella sceneggiatura poi nella fase delle riprese e del montaggio; ma compie una sorta di <resprint> dei testi più importanti  che hanno iniziato a muovere la vasta problematica suscitata da un'operazione artistica che non mancherà di impegnare col suo enigma inevitabile, la fantasia critica di coloro che ne tenteranno un consapevole approccio.


I personaggi del film  saranno come statue abitate da altri pensieri








































Federico Fellini è nato a Rimini il 20 gennaio 1920. Dopo aver sceneggiato alcuni importanti film del dopoguerra nel 1950 passa a alla regia con  <Luci del varietà> cui seguono : Lo sceicco bianco -I vitelloni -Una agenzia matrimoniale- La strada -Il bidone- Le notti di Cabiria -La dolce vita -Le tentazioni del dottore Antonio -Giulietta degli spiriti -Toby Dammit ...









                  

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"Santa Rosalia" 

                                        ( foto tratta dal libro S ROSALIA di Castrenze Civello 1967)




                                                                                         

                                                                                    dal libro: SANTA ROSALIA E PALERMO del Benef. Emmanuele Salemi Battaglia  maestro di canto della Real Cappella Palatina di Palermo 1885



alla gloriosa romita della quiquisna e del pellegrino che vegghiando amorosa la terra ove fu nata e cresciuta nella luttuosa moria dell'ultima lue asiatica cesso' dai figli suoi il calice delle amarezze e della morte devotamente l'autore O.D.C. 


CAPITOLO i 
Palermo-Nascita di S. Rosalia- Sua fuga


La ragion di nobil cuna 
    Nell'April della speranza,
Le delizie, la fortuna 
Di regal fecondità 
L'oro, i suoi, la patria stanza
Pel suo Ben disprezza, e va. 

                                                                                                                  

Siede Palermo in amenissima valle difesa contro Borea e Greco da' monti, ed aperta del resto al Mediterraneo. La floridezza de' campi nelle vigne intrecciate agli olmi e nelle biade guardate dall'olivo: la fragranza de' simmetrici giardini inghirlandati dall'arancio e dal limone: le deliziose colline pomate e ridenti; che correndo attorno aggiungono grazia e brio: l'andare e venire sollazzevole da' villaggi qua e là graziosamente seminati fanno bella e deliziosa questa regione incantevole, baciat in riva dalle acque del Mediterraneo. La vasta pianura in estensione di ben quaranta miglia coltivata e ben messa, da placidi rigagnoli e marmoreggianti ruscelli inaffiata, è feracissima nelle produzioni di vino, olio frumento, canape, cotone ed altri cereali: per cui a buon dritto s'appella la Conca d'Oro. Abbondanti praterie favoriscono a dovizia i prodotti di burro, cacio, latte nutricando ben pingui vacche, fetose capre, lanute pecore. dalla parte di mare, cui inoltrarsi le sentinelle dei monti il Pellegrino ed il Gerbino, formanti cosi vasto seno, si ritrova ad Oriente il piccolo porto detto Cala, in cui le navi se ne stanno a riparo dagli sbuffi de venti. A settentrione è guardato dal porto grande, detto Molo, con bellissimo faro, che tra il buio pesto della notte e l'irato imperversare  delle procelle, incuora lo smagato nocchiero, e n'addita il riparo e la salvezza. Ad Ostro, il fiume Oreto, come a guardia della città regina, passando dalla Guadagna si scaica nel Mediterraneo; mentre ad Occidente, in distanza sui erge come corona la maestosa catna de' monti, che per essere discoscesi e ripidi, formano un circuito di naturali muraglie che solo consentono l'ingresso per dodici porte. 
In sì floridissima città sortiva i natali l'illustre vergine ROSALIA  figlia a Sinibaldi, signore de' monti della Quisquina e delle Rose, sulla metà del dodicesimo secolo. Non avendo pertanto precisione dell'anno in cui Ella nacque, pure, affin di accattare credito all'antica tradizione che dice<aver Rosalia soggiornato nella corte di re Guglielmo e Margherita,> c'è parso opportuno mandare avanti alcune pagine della nostra sicula.
.....................................................
Presso a morte Ruggero II faceva coronare Re il suo terzo figlio Guglielmo, che nel 1150  conduceva in moglie Margherita figlia del Re di Navarra. Or nel mentre cotali cose avvicendavansi in Palermo, sortiva i natali l'illustre vergine ROSALIA. La tradizione, che dice <esser ella stata cara alla Regina Margherita, anzi essere stata una delle sue ancelle,> ci fa conoscere avvenuta la nascita di Lei o su' primordi del governo di Guglielmo, o in sugli ultimi di Ruggiero II. ...Ala giovinetta Rosalia che soggiornava in corte....ben potè apprendere quant'è fugace la gloria mondana, e quanto vane e piene di veleno le gioie terrene; sicchè per tutto questo trambustìo affermatasi vie più ad aspirare le pure gioie celesti, verso cui quale purissima colomba sollevavasi, determinava solo pel suo Dio vivere e morire. 
....Si vuole che la Santa desse inizio al suo eremitico tirocinio da una grotta vicino Morreale, quattro miglia distante da Palermo.
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 Ed. 1973



IN UN CLAMOROSO PROCESSO ATENE UCCIDE IL SUO FIGLIO MIGLIORE

<Meleto accusa accusa Socrate dei seguenti delitti: primo, Socrate non crede agli dei di Atene, secondo, Socrate propone nuove divinità; terzo, Socrate corrompe la gioventù. L'accusatore ...chiede per il colpevole la pena di morte>. ...nell'Agorà ...Socrate è là in fondo sulla tribuna alla sinistra dell'arconte-re. Con il mantello drappeggiato con cura sulla spalla destra, se ne sta seduto tranquillo sulla panca degli accusati. Solo. La mattinata è limpidissima, in quel febbraio ateniese del 399 avanti Cristo, già intiepidita dai primi raggi del sole.
 

IO NON VENDO SAGGEZZA PERCHE' SO DI NON SAPERE

Sul tavolo dell'arconte-re l'acqua della clessidra scorreva qualche istante appena. Socrate ha iniziato la sua arringa difensiva. <Ho ascoltato con molto interesse cittadini ateniesi, le accuse di Anito e soci ma più di queste io temo le calunnie che da molti anni ormai circolano sul mio conto in Atene. Secondo queste accuse io sarei quel Socrate uomo sapiente che specula sulle cose celesti che investiga tutti i segreti dell'Aldilà che fa apparire più forti le ragioni più deboli. ....Socrate non corrisponde a quell'immagine della commedia  cosi come è assolutamente falso che Socrate si sia mai fatto pagare per istruire i suoi allievi . 
Io sono ignorante rispetto a quella saggezza da vendere di cui parlavo prima. Ma c'è un'altra saggezza che chiamerei umana e in questa io sono sapiente. Da cio sono nate le calunnie contro di me e su cio voglio chiamare a testimone qualcuno che è al di sopra di noi tutti. ...Io chiamerò a testimone davanti a voi il dio di Delfi, Apollo....Un democratico che tutti conoscete, Cherofonte, è staro a Delfi a interrogare l'oracolo. suo fratello può ben venire a testimoniare. <E' vero, mio fratello si recò al santuario di Delfi  e lì chiese alla Pizia se vi era la mondo qualcuno più saggio di Socrate>. <E che rispose Pizia?> <La Pizia rispose che nessuno al mondo è più saggio di Socrate>. Piomba sull'assemblea un silenzio agghiacciante: quasi si sente il gocciolare dell'acqua che scorre dal piccolo foro calibrato della clessidra. <La risposta dell'oracolo mi sorprese perchè non avevo proprio coscienza di essere saggio. Ma l'oracolo è la voce del Dio e non può mentire. Così mi misi alla ricerca del vero senso di quelle parole e andai a parlare con coloro che avevano fama di grande saggezza. Trovai il primo, un uomo politico  che ha dato il suo nome a tutta un'epoca della nostra città. Aveva certo l'aria di essere sapiente, soprattutto agli occhi degli altri..>. Ma in realtà non lo era. Cercai allora di far capire a questo brav'uomo che non era sapiente anche se credeva di esserlo. Ma da quel momento gli divenni odioso e anche i suoi amici cominciarono a evitarmi. Dentro di me però conclusi che davvero ero più saggio io di questo uomo: ciascuno di noi due forse non sapeva niente nè di bello nè di buono ma lui credeva di sapere e non sapeva, io almeno ero cosciente della mia ignoranza>. Dopo i politici sono andato a esaminare i poeti e quindi gli artigiani e gli artisti. Certo sono tutti assai capaci nelle loro arti senza dubbio molto più esperti di me. Ma appunto in quanto esperti nel loro mestiere presumono poi di sapere moltissimo anche nelle cose più importanti e difficili che in realtà non conoscono per niente. Così ho scoperto il vero senso dell'oracolo che significa questo: solo il Dio è sapiente, mentre poco o nulla vale la saggezza degli uomini. E' questa la ricerca o cittadini ateniesi che ha provocato intorno a me inimicizie e calunnie. Ma era un compito affidatomi dal Dio una missione che io ho continuato a portare innanzi senza soste per tutti questi anni, dedicandovi ogni momento della mia vita, e trascurando i miei affari e la mia famiglia>: 

IL CONTRADDITTORIO: SOCRATE VINCE IL PRIMO ROUND
E ora Socrate passa al contraddittorio diretto: <L'accusa sostiene che io corrompo i giovani. Io affermo invece cittadini ateniesi, che di questo reato proprio Meleto è colpevole poichè fa finta di occuparsi di problemi che in realtà nemmeno conosce e in questo modo si prende gioco delle cose serie. Vuoi venire a rispondere Meleto?  Così tu ti prenderesti grande cura dell'educazione dei giovani?, non è vero? gli chiede Socrate. Certo che sì, risponde Meleto. Chi secondo te rende migliore i giovani? -Le leggi. Sì le leggi. Ma chi conosce queste leggi? incalza Socrate. Loro, i giudici qui intorno. Ma solo i giudici o solo qualcuno di loro? Tutti quanti... C'è dunque abbondanza di buoni educatori! E anche di spettatori, laggiù in fondo, hanno una buona influenza sulla gioventù? Sì.. certamente, sillaba Meleto. E i membri del consiglio? Sì, per forza. Tutti gli ateniesi dunque a sentire, rendono migliori i giovani. Tutti tranne me che invece li corrompo. E' così? Si, sì è proprio questo che volevo dire.  Allora sono proprio un povero disgraziato, sorride sarcasticamente Socrate. E sono un disgraziato irrecuperabile.: ma lo è proprio per il fatto che tu di giovani non ne capisci nulla. Spiegami adesso un'altra cosa. E' meglio vivere tra le persone buone o tra le persone cattive? Cala di nuovo il silenzio. Via, ...non è vero forse che i malvagi fanno sempre del male a chi li avvicina mentre i buoni sempre del bene? Certo., mormora Meleto.. E ci può essere qualcuno che preferisca ricevere del male anzichè del bene  da chi gli sta vicino? Direi di no... Già, e secondo te, io corromperei i giovani e li farei malvagi volontariamente oppure senza volerlo? Volontariamente, conferma Meleto.
Sicchè allora a tuo giudizio, io non saprei ancora vecchio, come sono, quello che già sa un giovane della tua età: che se rendo cattivi quelli che mi stanno attorno, io corro il pericolo di essere poi trattato male da loro'. Quindi, conclude Socrate, o io non corrompo i giovani, o se lo faccio è senza volerlo. Ma in questo caso io dovrei essere solo ammonito e istruito dal popolo e non portato davanti a un tribunale che è incompetente a giudicare colpe non volontarie. ...Così dunque io corromperei i giovani insegnando loro a non riconoscere gli dei della città per seguire altre credenze. Oppure ho inteso male?
E' proprio quello che sostengo, risponde Meleto.... Secondo te, Meleto, si può credere nelle azioni umane senza credere che esistano gli uomini? Si può credere nelle corse dei cavalli senza credere che esistano i cavalli? Oppure alle sonate per flauto senza i suonatori?Si può credere a cose demoniache senza credere all'esistenza dei demoni? E si può credere a figli di dei senza credere nell'esistenza degli dei? La gente si interroga ad alta voce dietro le transenne, i giudici discutono sommessamente fra loro....Nel corso degli anni la vita in città è diventata più dura e più aspra per tutti. Le difficoltà economiche e i pericolo legati alla guerra, le pestilenze e le razzie dei nemici hanno profondamente scosso la popolazione. Come aver fede negli dei protettori della città quando la città è assediata e umiliata?  Che credibilità possono pretendere le spiegazioni razionali offerte dalla scienza, quando essa non sa trovare nessun rimedio efficace ai dolori.. Come si può avere stima di quei drammaturghi equivoci come Euripide che celebrano sentimenti ambigui e irrazionali . In qual considerazione si possono tenere quei filosofi che deridono le antiche virtù a cui insegnano il disprezzo per le istituzioni democratiche e insieme la liceità di tutti i possibili mezzi per arrivare al potere, dalla corruzione alla falsa propaganda, dalla provocazione all'assassinio terroristico? Con le tasche sempre piene di soldi e i capelli lunghi, spesso ubriachi di vino di canzoni e di donne, non sono stati forse questi "giovani d'oro" a profanare le sacre erme, nel 415 mutilandole tutte quante? Meglio dunque farli star zitti questi intellettuali scienziati o sofisti magari cacciandoli dalla città. Meglio affidarsi  agli indovini agli spacciatori di oroscopi ai maghi che sono in comunicazione diretta con le forze occulte.. E nessuno può negare che mai come ora, siano necessari ad Atene buon senso moderazione ordine. E Socrate, non ha smesso di circolare per le strade s sempre criticando con il suo abituale metodo ogni cosa gli capitasse sotto gli occhi....Bisogna però che Socrate la smetta una buona volta di ficcare il naso nelle più delicate faccende di Atene. Per colpa di Socrate abbiamo già sopportato diverse sciagure ora dobbiamo assolutamente evitare che la sua azione ci faccia subire ancora la punizione degli dei. Socrate avrebbe potuto sottrassi al vostro giudizio andandosene volontariamente in esilio. Ma poichè si è presentato in tribunale, non è possibile fare a meno di condannarlo a morte. E' da queste accuse di Anito che Socrate dovrà difendersi  … guarda a uno a uno i suoi giudici, fino a incontrare gli occhi di Anito. . <E anche se mi prometteste salva la vita a patto che smettessi di importunarvi con la mia ricerca, vi risponderei ugualmente di no: io vi onoro e vi amo, cittadini di Atene, ma più  di voi amo e onoro il mio Dio. E poiché è lui che me l’ha comandato io non smetterò mai di ragionare di esortarvi di ammonirvi. Non infastiditevi per quel che vi dico perché non lo faccio per difendermi ma per aiutare voi a non sbagliare.…Se uno è deciso a combattere veramente per la giustizia e insieme vuole conservarsi in salute fino a tarda età allora è meglio che rimanga un privato cittadino senza dedicarsi mai alla vita pubblica. Dalla clessidra l’acqua sgocciola sempre più lentamente: il tempo della difesa è quasi finito. Nella clessidra non c'è più acqua. < Ho finito cittadini,  conclude Socrate. Non tenterò di ispirarvi pietà facendo salire sul podio come fanno tutti in tribunale, figlioli e amici in lacrime: sarebbe una dimostrazione di incoerenza da parte mia, e un cattivo esempio per voi ...In seguito allo scrutinio dei voti legge a piena voce l'araldo, <Socrate è dichiarato colpevole. . Ora la parola torna a Socrate, proclama l'arconte-re. <Cosa proponi dunque per migliorare la tua pena?>...Il condannato allarga le braccia . <Quale pena? Senza dubbio quella che merito, non è vero? ....Quella che richiede Meleto, la morte, io non so se sia un bene o un male.. Dovrei chiedere il carcere? Un ammenda di denaro? Allora l'esilio? Ma non potresti startene ad Atene quieto e silenzioso senza disturbare nessuno? chiede una voce tra il pubblico.<Ecco il difficile> risponde Socrate pronto. < E' proprio questo che non posso fare e la ragione è semplice, anche se molti di voi non la comprendono: il Dio mi ha comandato di non stare mai tranquillo, di ragionare ogni giorno sulla giustizia e sulla virtù  e di continuare senza stancarmi  la ricerca sugli altri e su me stesso. Solo così la vita è, per me, degna di essere vissuta.>Come vi ho detto io non ho soldi. Anzi no, possiedo una mina d'argento. Allora propongo di multarmi per una mina d'argento.E' matto sul serio: un mina d'argento è il misero riscatto di uno schiavo. E va bene. Riprende Socrate, ci sono dei compagni che vogliono farmi aumentare l'ammenda, Platone , Critone, e anche Apollodoro, garantiscono sul mio conto per trenta mine. Mi multo allora per trenta mine. Giudicate voi....La proposta è stata respinta. L'assemblea ha deciso quindi che Socrate deve morire. Il condannato secondo l'uso, dovrà bere il veleno, la cicuta.  La parola è per l'ultima volta a Socrate. Se vuole, può esprimere le sue ultime volontà...il vecchio e saggio vagabondo è stato condannato a morte, quella che per tanti anni è stata la voce più nota di Atene, la sua coscienza fastidiosa, verrà soffocata e spenta. Ora la gente si accalca nell'Agorà per ascoltare le sue ultime parole in pubblico. < Bastava che aspettaste ancora un poco, cittadini di Atene che mi avete condannato e la morte sarebbe venuta da sè a liberarvi di Socrate. Così per la fretta avete legato il vostro nome a una grave colpa che offende tutta la città. I motivi della condanna non sono infatti quelli portati dall'accusa  ma piuttosto la mia sfrontatezza e impudenza nei vostri riguardi.. Il fatto è proprio questo che io non sono stato alle regole del gioco processuale: non vi ho parlato con la deferenza con l'ossequio che a voi fanno tanto piacere non vi ho supplicato con pianti e lamenti come siete abituati in tribunale....Ma davanti alla morte, prosegue Socrate, non ho voluto  essere vile, oggi come in guerra. State però attenti cittadini, perchè la malvagità corre corre più forte della morte...Oggi voi mi uccidete sperando così di liberarvi dall'obbligo di render conto della vostra vita: invece vi capiterà tutto il contrario, io ve lo predico. Al mio posto verranno infatti i giovani  di tutte le epoche a chiedere il rendiconto delle vostre azioni,  tanto più ostinati quanto più giovani. E voi continuerete a scandalizzarvi senza capire che non è uccidendo le persone che si può impedire loro di contestare il vostro modo di vita. Con questo vaticinio ho chiuso  definitivamente il discorso con coloro che mi hanno condannato....tutti gli avvenimenti di oggi sono stati graditi dagli dei e quindi sono sicuramente un bene. Morire può essere infatti solo una di queste cose: o l'insensibilità completa del nulla come un profondissimo sonno ristoratore, senza fine; o la migrazione dell'anima dalla terra in un altro mondo retto dalle supreme leggi della giustizia universale. In ogni caso non mi fa paura, perchè una grande verità mi conforta: nessun male può essere fatto all'uomo giusto, nè in vita nè in morte. Per questo non serbo rancore verso i miei accusatori  e i giudici che hanno votato contro di me. <E' proprio l'ora di andare, conclude Socrate. Io a morire e voi a vivere: chi di noi vada verso il destino migliore è oscuro a tutti, fuorchè a Dio.> E' passato quasi un mese dal giorno del processo....Anche nelle grotte della prigione giungono i primi pallidi raggi del sole. Colpito dalla luce l'uomo sdraiato sul lettuccio rigido appoggiato alla parete gira la testa e apre gli occhi. Si guarda attorno lentamente. <Oh sei tu, Critone....Ma non è ancora presto?><Sì, Socrate, è appena l'alba> risponde il vecchio. <E come mai il custode del carcere ti ha lasciato entrare?> <Mi conosce bene, ormai.... Senti, comincia, tu accetti la morte, ma i tuoi amici hanno preparato l'evasione. Lasciati persuadere e mettiti in salvo....Che direbbe la gente, prosegue Critone, se sapesse che i tuoi amici ti hanno lasciato morire senza cercare di aiutarti? Ma perchè dobbiamo pensare a quello che dirà la gente? Le persone oneste crederanno che le cose siano andate così, come era giusto, degli altri non vale la pena di preoccuparsi. Invece continui a sbagliare non curandoti di costoro. Sono capaci dei più gravi crimini con le loro calunnie. Come nel caso tuo, Socrate. Ti sbagli, Critone, risponde calmo il maestro. <La massa non è in grado di fare nè il male nè il bene. Certo la sua potenza è grande, ma è una potenza inconsapevole. La gente agisce così, per impulso, può mandare a morte qualcuno con la stessa facilità con cui poi lo richiamerebbe in vita, se ne fosse capace e sempre senza alcuna ragione al mondo. Ora Critone è seduto accanto al vecchio amico, e lo guada con occhi lucidi. - Ma tu devi vivere, Socrate...Caro Critone...Vediamo dunque se è giusto o no che io fugga dal carcere perchè è chiaro che in nessun caso bisogna commettere una ingiustizia neppure per reagire a una precedente ingiustizia.. Sono le idee i pensieri elaborati e approfonditi insieme in tutti quegli anni -sulla giustizia, sull'uomo. sulla società- che vengono ripresi in esame. In una parola è la concezione politica di Socrate che viene messa alla prova nel momento più drammatico della sua vita. Per il vecchio filosofo infatti l'unica e autentica realtà umana consiste nell'essere uomo in mezzo agli altri uomini: quindi egli deve sottoporsi alle leggi che regolano le istituzioni sociali e politiche della comunità: sottrarsi alle leggi del proprio Stato , della propria civiltà vorrebbe dire distruggere questo rapporto armonioso tra sè e gli altri, quindi cessare di essere veramente e interamente uomo. L'uomo di Socrate perciò accetta le istituzioni ma non per obbedienza bensì per elezione per libera scelta. Ed è questo senso della totale sublime libertà e dignità dell'uomo propugnato dalla rivoluzione di Socrate che i governanti sconcertati non possono tollerare..Violando le leggi ora, egli cancellerebbe in un momento solo tutto l'impegno e il senso stesso della sua vita. Avrebbero ragione quelli che mi hanno condannato, dice i  filosofo....dovei continuare a vivere piegando la testa qua e là davanti a tutti e ringraziare come un debitore  No Critone, io berrò la cicuta.Non sarà una cosa giusta, d'accordo ma non per colpa delle leggi: la colpa è degli uomini che usano male queste leggi . Altri argomenti non mi vengono in mente, mio dolce amico., gli dice Socrate  affettuoso.. E credo che nemmeno tu potrai trovare le parole adatte a farmi cambiare idea. Ma parla pure se hai qualcosa da aggiungere

LA CICUTA E' PRONTA


(dal Fedone di Platone, traduzione di Francesco Adorno, Editori Laterza 1970).



                                               


PUO' LA MAGGIORANZA AVERE TORTO? 

di 

Luciano Canfora

I cinquecento giudici che condannarono Socrate costituivano un significativo campione della cittadinanza ateniese. Non è inutile ricordare il meccanismo grazie al quale venivano scelti. La base di partenza per formare una corte era una lista di seimila cittadini, probabilmente volontari, redatta annualmente: semplici cittadini, non esperti di diritto. Nel caso del processo di Socrate si può agevolmente stabilire che i giudici fossero 500; una cifra probabilmente piuttosto usuale. Ogni giuria aveva piena autorità e competenza. I cittadini giudici avevano un salario di tre oboli al giorno: quanto bastava per vivere.Perciò  soprattutto  i non abbienti ambivano ad essere sorteggiati. Al giudizio si giungeva per successive fasi. Il processo contro Socrate per una accusa di empietà fui in realtà un processo <politico>. Perchè si colpiva in lui l'ispiratore degli uomini risultati maggiormente nocivi alla città ma anche politico in una accezione più vasta, in quanto il processo alle idee era di fatto un modo alquanto terroristico di esercitare un controllo sulle devianze. E appunto come maestro di devianza Socrate veniva processato.. I cinquecento cittadini tirati a sorte che lo giudicarono vedevano in lui un disturbatore critico del sistema politico vigente e, insieme, un empio negatore degli dei e dunque delle basi etiche su cui poggiava la vita della comunità. Noi non abbiamo nè il testo nè il resoconto di ciò che Socrate disse a propria difesa durante il processo. Socrate in tutta la sua vita non lasciò nulla di scritto, evidentemente per una precisa scelta volta a privilegiare il dialogo rispetto alla asserzione, la ricerca rispetto alla certezza: Tanto meno provvide come avrebbero fatto altri, a mettere per iscritto la sua autodifesa pronunciata in tribunale: 

Fu Platone che mise per iscritto la Apologia di Socrate ispirandosi con molta probabilità a quanto Socrate aveva effettivamente detto.  




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ECOLOGIA








Città sognate. Sono...le città possibili, mai nate davvero, che l'uomo contrappone-nei laboratori della fantasia e dell'astrazione-alla miseria della realtà. <Utopie> urbane di tempo in tempo vengono evocate, descritte o disegnate, come proiezioni immaginarie -dentro spazi ideali-di società più razionali e giuste di quelle reali: <perfette> secondo le regole costruite a tavolino di una ragione teorica. <Idee di città> d'altra parte sottendono, come modelli di riferimento sempre incompiuti, la formazione di ogni città concreta. Esse non precedono la vita, e non ne vivono  una propria. Ma esiste nella storia un rapporto dialettico, incessante e drammatico, tra città e società, idea di città; la sua <città sognata>. Finora, cioè è stato sempre espresso nella <figura della città>. Le condizioni contemporanee hanno reso problematica la replica di quel rapporto, identico a se stesso. Tutti i suoi termini registrano crisi di identità o credibilità: la forma e la stessa organizzazione della città; il ruolo dell'idea - in particolare dell'utopia- nella dialettica della storia; lo stesso contratto sociale nell'epoca delle società industriali di massa. Proprio perchè quel rapporto oggi è in crisi pur apparendo irrinunciabile, è opportuno occuparsi di un argomento apparentemente meno urgente di tanti problemi immediati della città esistente. ...
Poichè modelli e idee non si muovono per vita propria, è importante essere consapevoli di chi e come li fa agire ; essere in grado di leggerne la chiave di funzionalità sociale, di gestirli (o contrastarli) anzichè esserne gestiti . In secondo luogo, non dobbiamo disconoscere  la connaturata duplice dimensione dell'utopia  (come dell'immaginazione artistica, o del sogno) . Costruendo una realtà alternativa-attraverso una invenzione liberata dai vincoli contingenti ma da essi stimolata - la città sognata da un lato  opera una fuga nevrotica dai problemi del mondo; oppure una loro mistificazione. Corre continuamente il rischio di allontanare il pensiero  dalla città concreta; o di giustificarla nel nome di una immagine abbellita, sublimata, ideale. Ma dall'altro lato rimane vero che proprio attraverso l'utopia  (l'arte, il sogno, la scoperta di nuovi rapporti attraverso la fantasia) si riesce talvolta ad evadere dall'abitudine di società già date, cercandone di migliori nelle forme di migliori città. Vale al pena di correre il rischio dell'utopismo, allora, per disporre degli strumenti innovativi dell'utopia. Infine, non è possibile modificare un'attualità sgradita con un futuro migliore senza il riferimento di un modello su cui esercitare un desiderio capace di suscitare la coesione degli attori sociali in grado di progettare e realizzare la trasformazione. Si può essere delusi quanto si vuole dalle ricorrenti strumentalizzazioni dei modelli: e perciò smagati. Ma tra disincanto e cinismo il passo è breve e pericoloso. Lo diciamo perchè proprio chi sia più cosciente delle carenze materiali della città (e più impegnato nella sua modificazione empirica) rischierà di ritenere ineffettuale e perfino colpevole un lavoro oltre la gabbia di un bieco realismo; e perciò esornativo il tema qui proposto . Rischierà di non accorgersi di essere gestito- nei suoi frammenti di realtà- da disegni più generali dalla cui comprensione, nonchè formazione , riamane escluso. La  partecipazione popolare  alla gestione della città è sicuramente il fattore progressivo più capace, negli ultimi anni, di costringere l'urbanistica ad un salto di qualità. Ed è, apparentemente, quanto di più lontano possa darsi dal mondo delle idee, dei modelli delle utopie. Le sue prime difficoltà però ci avvertono: lo scontro di posizioni settoriali e corporative, il ricorso  a modelli di comportamento e di insediamento già imposti e banalizzati dalla logica dominante, non sono sintomi sottovalutabili.
In mancanza di una visione del mondo, di idee alternative di società e perciò di città su cui esercitare il desiderio e la lotta di trasformazione, la partecipazione rischia di mobilitare nuove energie per perseguire obiettivi vecchi con strumenti spuntati. La partecipazione come utopia regressiva. Invece è proprio attraverso una partecipazione popolare , capace di farsi carico nonchè di frammenti anche di disegni complessivi, che il Paese potrebbe- anche per l'urbanistica- superare il rischio di fasi involutive. ... 



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con l'argomento al tempo del CoronaVirus



Gesualdo Bufalino DICERIA DELL'UNTORE


DICERIA: Discorso per lo più non breve detto di viva voce; poi anche scritto e stampato... Di qualsiasi lungo dire, sia con troppo artifizio, sia con troppo poca arte... Il troppo discorrere intorno a persona o cosa...

Tommaso Bellini


UNTORE: Dispensatore et fabbricatore delle onti pestiferi, sparsi per questa Città, ad estinzione del popolo..

 (Carte del processo, 1630)

... Era veramente divenuto un gioco, alla Rocca, volere o disvolere morire, in quell'estate del quarantasei, nella camera sette bis, dove ero giunto da molto lontano, con un lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo, dopo essermi trascinata dietro, di stazione in stazione, con le dita aggranchite sul ferro della mainiglia, una cassetta militare, minuscola bara d'abete per i miei vent'anni dai garretti recisi. Non avevo altro bagaglio, nè vi era dentro gran che: un pugno di ricordi secchi, e una rivoltella scarica fra due libri, e le lettere di una donna che ormai divorava la calce, fra Bismantova e il Cusna, sotto un cespuglio di fiori che avevo sentito chiamare aquilegie. A me meno frigide ghirlande erano promesse, appena la franchigia fosse scaduta e mi fossi stancato di raccogliere in difesa, come un quadrato di veterani, i sentomenti superstiti che mi facevano vivo. Non mancava molto oramai: già erano scomparse l'incredulità e la vergogna dei primi tempi, quando ogni fibra è persuasa ancora d'essere immortale e si rifiuta di disimpararlo. Ma sopravviveva il rancore, anche se, sotto la specie di una loquace pietà ..........
  

                                                   Albert Camus  LA PESTE


  










Alessandro Manzoni  STORIA DELLA COLONNA INFAME




Con NOTA DI LEONARDO SCIASCIA

In\un frammento del Gazzettino del Bel Mondo, Foscolo dice: <Addison vide in Milano la colonna infame eretta nel 1630, a ignomia di un barbiere e di commissario di sanità condannati al taglio della mano, ad essere squarciati a brani con tanaglie roventi e sgozzati dopo sei ore di agonia. La peste desolava allora la città; e quei due miseri furono accusati di avere sparso veleni e malie per le strade ad accrescere la pubblica sventura. A che pro? I posteri, vergognando della ferocia stolida dei loro maggiori, rasero la colonna infame innanzi la rivoluzione. Addison  la vide nel 1700, e ricopiando l'iscrizione, che gli parve di legante latinità, narra bonariamente il fatto, come s'ei l'avesse creduto. Eppure era uomo investigatore! Or non avrebbe egli illuminato i suoi concittadini e i posteri, se si fosse interessato d'altro che della bella latinità? Chè, se avesse interrogato gli uomini illuminati d'allora, e indagato la verità, avrebbe potuto trovare le stesse ragioni che Bayle notò di quell'infelice avvenimento>. 
Ma a che prendersela con l'Addison, in quel caso viaggiatore svagato e soltanto attento al bel latino, se nemmeno il bell'italiano di Manzoni, illuminando quel fatto, è riuscito a portarlo alla coscienza dei suoi concittadini, contemporanei e posteri? Se ancora questo piccolo grande libro resta tra i meno conosciuti della letteratura italiana?
Ma andiamo per ordine.
La credenza  che la peste e colera venissero artatamente  sparsi tra le popolazione è antica. La registra Livio, per come ricorda Pietro Verri nelle sue Osservazione sulla tortura, che appunto muovono dai funesti casi cui la credenza dette luogo nel 1630: <Veggiamo i saggi Romani istessi, al tempo in cui erano rozzi, cioè l'anno di Roma 428 sotto Claudio Marcello e Cajo Valerio, attribuire la pestilenza che gli afflisse a' veleni apprestai da una troppo inverisimile congiura di matrone romane>. Al tempo in cui erano rozzi: perchè pare che, meno rozzi, tra loro più non sia insorta quella credenza. E c'è da credere si fosse del tutto spenta nei secoli successivi, e fino al XIII e XIV. Non ne troviamo traccia, infatti, nei cronisti, che pure abbondano di notizie sulle epidemie pestifere, del due e del  trecento. Nelle loro pagine, le tremende epidemie non trovano altra causa che il volere di Dio e l'influsso degli astri; e la propagazione del morbo ad altro non è attribuita che agli scambi e ai viaggi. Per tutti., Giovanni Boccaccio: <Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecento quarantotto, quando nell'egregia città di Firenze, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazion de corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Di a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanto anni davanti  nelle parti orientali incominciata, quelle d'innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare d'un luogo  in un altro continuandosi, inverso Occidente miserabilmente s'era ampliata>. La giusta ira di Dio o il movimento dei corpi celesti. Ma nel secolo XVII ecco ridivampare e diffondersi quella lontana credenza: ben più ricca, articolata, dettagliata e , perfino codificata.  Una ricaduta nella rozzezza, nell'oscurità, non basta a spiegarne il violento ritorno. Ci sarebbe da formulare una ipotesi suggestiva: che la credenza sia sorta come una specie di contrappasso diretto alla <ragion di stato >; cioè nel momento in cui veniva ad essere constatata, conseguentemente dottrinata, la separazione della politica dalla morale. Ma ci vorrebbe, ad affermare una simile ipotesi, più meditazione  e ricerca Quel che sappiamo quasi con certezza, qui ed ora, è che nel secolo XIV nessuno avanza il sospetto di una peste manufatta e diffusa, da persone convenientemente immunizzate, per decisione del potere (visibile o invisibile) o di una associazione cospirativa contro il potere o di un gruppo delinquenziale  che si propone, nella calamità, .....

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Edgar A. Poe LA MASCHERA DELLA MORTE ROSSA







Da lungo tempo la Morte Rossa devastava il paese. Nessuna pestilenza era stata mai cosi orribile o cosi fatale. Il suo avatar era il sangue e il suo marchio il rosso e l'orrore del sangue. Si avevano dolori acuti, un'improvvisa vertigine, e poi il sangue  che sgorgava abbondantemente dai pori, e infine la dissoluzione. Le chiazze scarlatte sul corpo, e specialmente sul volto, erano il bando che proscriveva la vittima dall'aiuto e dalla simpatia del prossimo; e l'attacco e il progresso e l'esito del male erano vicende d'una mezz'ora. Ma il Principe Prospero era felice, e intrepido, e sagace,. Quando i suoi domini furono mezzo spopolati convocò, fra cavalieri, e dame della sua corte, un migliaio d'amici sani e allegri e con loro si ritirò nella profonda solitudine d'una delle  sue abbazie fortificate. Era un edificio vasto e magnifico, creazione del gusto eccentrico ma augusto del Principe. Lo cingeva un muro alto e forte, munito di cancelli di ferro. I cortigiani, dopo esservi entrati, portarono grossi martelli e ne saldarono i catenacci, poichè avevan risoluto di negare qualsiasi entrata o uscita agli improvvisi attacchi della disperazione dall'esterno, o della frenesia dell'interno..L'abbazia era assai bene approvvigionata. Con tali precauzioni, i cortigiani potevano sfidare il contagio. Che il mondo esterno provvedesse a se stesso. Nel frattempo, sarebbe stata una pazzia rattristarsi o pensare; il principe aveva provveduto a tutti i piaceri; vi erano buffoni, improvvisatori, ballerini e musici, v'erano la bellezza e il vino. Dentro , v'era tutto ciò, e la sicurezza-fuori, v'era la Morte Rossa.
Sul finire del quinto o sesto del suo ritiro, durante il massimo infuriare della peste al di fuori, il Principe Prospero intrattenne i suoi mille amici con un ballo in maschera della più rarar magnificenza. Fu uno spettacolo voluttuoso, quella mascherata. ......
E,...accadde che, prima che gli ultimi echi dell'ultimo concento si fossero spenti nel silenzio, molte persone ebbero agio di notar la presenza d'una figura  mascherata che prima non aveva destato l'attenzione d'alcuno. E, poichè la notizia di questa nuova presenza si diffuse intorno con lunghi bisbigli, si levò alfine dall'intera comitiva, un mormorio un parlottìo di disapprovazione e di sorpresa e da ultimo, di terrore d'orrore  e di disgusto. ....
Levando in alto una daga sguainata egli si slanciò contro la figura che indietreggiava; e già era solo e tre o quattro passi da essa, quando questa, giunta in fondo alla sala di velluto, si voltò bruscamente e affrontò l'inseguitore. S'intese un grido lacerante, e la daga cadde balenando sul tappeto di velluto, dove, immediatamente dopo , s'abbatteva morto il Principe Prospero. . Allora, chiamando a raccolta il coraggio pazzesco  della disperazione un gruppo d'ospiti si precipitò nella sala nera e afferrata la maschera la cui alta figura s'ergeva immobile nell'ombra dell'orologio  d'ebano , si sentì che il sudario e la maschera cadaverica che avevano agguantato con sì violenta energia non nascondevano alcuna forma tangibile. . Riconobbero allora, la presenza della Morte Rossa, era venuta come un ladro nella notte.....,. e la tenebra e il disfacimento e la Morte Rossa ebbero su tutte le cose il loro illimitato dominio.


















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GLI DEI DEL CIELO 
(in breve) 
                        pag. 25 



ZEUS/ Giove
L'idea della suprema divinità si è nelle origini associata al fenomeno naturale della luce del giorno e del brillare del cielo. Da questo concetto di Dio celeste derivano appunto le attribuzioni varie di Zeus. Egli presiede ai fenomeni  atmosferici; alle attribuzioni fisiche del sommo Iddio fanno riscontro le morali. Egli vien detto padre degli Dei. Il sacro dovere dell'ospitalità è tutelato da Zeus. E' il protettore della famiglia. Intorno a  lui molte leggende. Figlio di Crono e di Rea sottratto alla crudeltà del padre venne allevato in un antro segreto dell'isola di Creta, ricevette il latte dalla capra e perchè i suoi vagiti non si sentissero i sacerdoti di Rea  fecero un gran fracasso battendo le spade contro gli scudi. Divenuto adulto, secondo la leggenda non disdegnò il cercar sollazzo negli amori di molte donne.  Al Zeus greco corrisponde il Iuppiter dei Latini,  

ERA/ Giunone 
Figlia maggiore di Crono e di Rea, sorella e moglie di Zeus, è la divinità femminile del cielo, come Zeus ne è la divinità maschile. Gli attributi di lei corrispondono esattamente a quelli di Zeus. Era veniva dipinta come gelosa e maligna. Nelle leggende greche Era veniva celebrata come rappresentante del vincolo coniugale e la nobiltà della donna che serba costante fede al marito trovava in lei la sua più alta espressione. Quindi considerata come Dea protettrice del matrimonio e delle mogli, datrice di fecondità  e maternità. Giunone era la Dea romana che s'identifica con Era .

PALLADE ATENA/ Minerva
Figlia di Zeus, essendo balzata fuori tutta armata...dal cervello di lui, dopochè egli aveva ingoiato la sua prima sposa Metis Atena era deità bellicosa ma benefica, come quella ch'era nata in mezzo alle lotte celesti e coll'arme in pugno ma era anche contemporaneamente Dea della quieta e serena luce celeste, quindi della pace della saggezza . . I caratteri morali di Atena sono connessi coi fisici; ella rappresenta la luce dell'intelligenza che guida gli uomini sia in guerra sia in pace . . Identificata con Minerva.

APOLLO
Figlio di Zeus e di Leto o Latona. Narravasi che perseguitata dalla gelosia di Era, la povera Leto fosse stata costretta a peregrinare di terra in terra prima di trovar luogo sicuro dove dare alla luce o suoi figli. Finalmente nell'isola di Delo partorì Apollo e Artemide. . Febo Apollo è un Dio raggiante il Dio della benefica luce il sole che vien fuori dal grembo della notte. Il culto di Apollo era diffusissimo fra i Greci come generale doveva essere la venerazione verso una divinità datrice di tanti beni fisici e morali. . L?apollo della mitologia romana non è una deità italica ma è lo stesso Apollo greco molto per tempo accolto nel Panteon di Roma. Le colonie greche dell'Italia meridionale furono il tramite per cui il greco Apollo penetrò fra i Latini. Prima come Dio della divinazione, poi come medico e musico..

ARTEMIDE/Diana
Figlia di Zeus e di Leto, Artemide partecipa della natura di suo fratello Apollo. Essa è la Dea della luce lunare come Apollo è Dio solare. . Pensata come Dea benefica era però armata di arco e frecce, adopera l'armi sue contro gli esseri cattivi  o mostruosi ch'essa odia. Si diletta della caccia . Si vendica fieramente dei rinomati cacciatori che con lei vogliono gareggiare . Dopo la caccia la Dea si compiace tuffar le sue snelle membra dentro qualche fresco corso d'acqua circondata dalle sue ninfe. . Dal lato morale Divenne la dea della castità la protettrice delle giovani donzelle fino al momento del matrimonio. Diana era la Deità italica con cui si identificò l'Artemide dei Greci.

ARES / Marte
Venendo ai figli di Zeus e Era, il primo è Ares, Dio della guerra ma nel suo lato più brutale.Nemico della serena luce del spole e della calma dell'atmosfera avido di disordine e di lotta Ares era detestato dagli altri Dei anche da Zeus. Venne però vinto in guerra da Atena, espressione simbolica del maggior valore che ha in battaglia il prudente coraggio in confronto della forza selvaggia e temeraria,. Non molto diffuso era nella Grecia il culto di Ares. Il Dio italico identificato con Are è Marte che nella bellicosa Roma divenne Dio guerriero .

EFESTO / Vulcano
Altro figlio di Zeus e di Era. Dio del fuoco. Elemento importante nella natura. Raggiante, riscaldante che anche esce fuori dalle viscere della terra per la via dei vulcani e dominato dall'uomio rende possibile la lavorazione dei metalli, condizione indispensabile per lo sviluppo dell'arte e della civiltà. Lo si pensava zoppo , immagine dei movimenti vacillanti della fiamma Narravasi che Era vergognandosi della bruttezza di lui lo aveva gettato dal cielo giù nel mare. E altri racconti come espressione in un linguaggio mitico, della caduta del fuoco dal cielo in terra . Non molto esteso era nella Grecia il culto di Efesto . In occidente la regione dell'Etna, la Campania del Sud e in genere le terre vulcaniche erano naturalmente sede de culto di Efesto. Specialmente l'isola di Lipari  una delle Eolie, era detta l'isola di Efesto. I omani chiamavano questo Dio, Vulcano colui che presiede alla fusione dei metalli. Questo Dio benefico principe del fuoco terrestre utile alla vita e alla civiltà era nelle antiche leggende italiche fatto sposo di Maia antica deità latina .

ERMES/ Mercurio
Figlio di Zeus e di Maia figlia di Atlante. Poco dopo la nascita egli avrebbe dato prove manifeste della destrezza ed abilità che costituivano il fondo della sua indole. Giacchè, nato al mattino verso il mezzogiorno esce dalle fasce e del guscio di una tartaruga trovata dinanzi alla caverna si forma una lira e suona e canta. Verso sera va nella Pieria dove Apollo stava pascolando le greggi degli Dei e gli ruba cinquanta giovenche e via le conduce  e le nasconde con tal arte che non se ne può scoprir traccia. Poi torna zitto zitto a Cillene e si riacconcia  nelle sue fasce. Ma Apollo non poteva ignorare la cosa ed ecco se ne viene alla grotta di Cillene  per obbligare Ermes a restituire il mal tolto. Ermes fa lo gnorri e recisamente nega il fatto; onde Apollo a forza lo dovè condurre davanti il trono di Zeus lasciando a questo il decidere la contesa. Anche allora stava Ermes in sul niego, ma Zeus, capita la cosa gli diè ordine di cercare insieme con Apollo le giovenche e di restituirgliele. Così vien fatto Apollo poi, udito Ermes sonar la lira, tanto se ne compiacque che pur di averla gli lasciò le cinquanta giovenche. Così Ermes diventò Dio pastore ed Apollo d'allora in poi prese diletto dell'arte musica. A dar segno di una compiuta riconciliazione, Apollo donò al fratello la verga d'oro a tre rampolli datrice di benessere e prosperità e d'allora in poi vissero in rapporti di intima amicizia, benefici entrambi all'umanità. Apollo rappresentante del lato più alto dell'intelligenza, Ermes del senno e della scaltrezza pratica. Ermes era il messaggero degli Dei e l'esecutori dei loro ordine.  Apportatore dei sogni e conciliatore del sonno, era anche il Dio che dava facilità dell'eloquio a chi lo invocava nel bisogno. Il Mercurio dei latini era iL dio dei commerci e aveva pochi tratti comuni coll'Ermes greco .

AFRODITE/ Venere
In Omero Afrodite è figlia di Zeus e di Dione, quella che a Dodona era venerata come la sposa di Zeus. Ma questa leggenda cedette il luogo ad un'altra secondo la quale Afrodite sarebbe nata dalla schiuma del mare e la prima terra a cui approdò sarebbe stata l'isola di cipro.  Di qui gli epiteti di Anadiomene  e Ciprogenia. Essa era immaginata bella e fiorente . Essa era immaginata bella e fiorente . Concetto mescolato con un altro concetto quello della forza d'amore che penetra tutto l'universo e lo feconda. . Presto si distinsero tre aspetti di questa Deità contrassegnati coi nomi di Afrodite Pandemo,  Afrodite Urania e Afrodite Pontia: La prima era l'Afrodite terrena, protettrice anche di amori volgari, la seconda era la Dea dell'amore celeste, datrice di ogni benedizione la terza era l'Afrodite  marina patrona della navigazione e dei naviganti. Così il dominio di Afrodite s'estendeva su tutta quanta la natura. IL culto di Afrodite ebbe una straordinaria estensione in tutte le regioni ove le stirpi elleniche si stanziarono e dominarono. Venere era un'antica Deità italica, la Dea della primavera del sorriso della natura onde a lei era sacro il mese dei fiori, l'Aprile. Il nome stesso di venere significa bellezza e grazia. In Italia questa deità ebbe anche un'importanza politica, credendosi ch'ella esercitasse una benefica influenza sulla concordia fra i cittadini e sulla socievolezza tra gli uomini. Dall'importanza che il culto di una tal Dea aveva presso i Latini, provenne che quando Venere si fuse con Afrodite e le leggende di questa furono accolte in occidente facile  ascolto trovò anche la leggenda di Enea detto figlio di Venere e immaginato come fondatore della stirpe romana.


DIVINITA' SECONDARIE DEL CIELO

ESTIA/Vesta
GIANO
QUIRINO
ELIO/Sole
SELENE/Luna
EOS/Aurora

GLI ASTRI
I VENTi
LE MUSE
LE GRAZIE
LE ORE
LA VITTORIA
IRIDE
EBE
GIANIMEDE
EROS
ILIZIA
ASCLEPIO
LE MOIRE
NEMESI
LA FORTUNA










LIBRI IN BIBLIOTECA


Felice Ramorino 

MITOLOGIA CLASSICA

illustrata


Quasi tutti i popoli della terra, negli albori della vita intellettuale e sociale, crearono una quantità di favole e racconti intorno agli Dei della loro fede e agli uomini più valenti di loro stirpe; i quali racconti propagati per tradizione orale attraverso ai secoli e alle generazioni, allargati via via con nuove aggiunte e mutazioni, divennero  il più prezioso patrimonio intellettuale di quei popoli e come il tesoro contenente, sotto il velame della favola immaginosa, l'espressione delle credenze, dei sentimenti, dei ricordi nazionali. Ma niun altro popolo è stato mai così ricco e geniale nella creazione di tali racconti, quanto gli antichi Greci la cui feconda immaginativa faceva sì che essi non concepissero i fenomeni naturali se non come animati da uno spirito  quasi umano nè i fenomeni dello spirito se non come incarnati sensibilmente. 

Miti si denominarono  con voce greca questi racconti, e Mitologia l'esposizione ordinaria di essi. Mito significa propriamente parola,  discorso e designa quel che si dice o si narra intorno a un soggetto qualsiasi. In fondo lo stesso significato ha la voce leggenda e si parla quindi spesso di leggende mitologiche; ma è invalso l'uso di chiamare preferibilmente miti le narrazioni che riguardano gli Dei e le leggende che che concernono gli Eroi. La mitologia dei Greci e dei Romani suol essere detta Mitologia classica per distinguerla da quella d'altri popoli.


I popoli politeisti ignorando il concetto della creazione per opera di Dio, non potevano avere sull'origine del mondo se non idee destituite di fondamento razionale spesso contraddittorie  e pressocchè infantili  o grottesche.
Esiodo narra come il mondo ebbe origine dal Caos .. ..nel senso etimologico di uno spazio vuoto, quasi voragine vuota e tenebrosa. 
Al caos sorse primamente, non si dice come, GEA, la terra, dalla quale subito si distaccò il TARTARO o  Inferno; poi comparì EROS, l'amore che unisce . ...Di poi mentre il Caos generava ancora l'EREBO , le prime tenebre, e la NOTTE, i quali  a lor volta ebbero figli in tutto diversi, l'ETRA e il GIORNO, Gea da sè produceva URANO ossia il  cielo, le montagne, e il PONTO o mare. 

Qui cominciano i connubi. si raccontò che Gea si fosse unita prima con Urano  e poi con Ponto; evidentemente si traduceva in linguaggio mitico il fenomeno naturale della terra fecondata dalle pioggie e dalle acque. 
Prodotti dall'unione di Gea e di Urano furono i Titani, i Ciclopi, gli Ecatonchiri o Centimani. 

I TITANI (dodici, di cui sei maschi e sei femmine accoppiati a due a due: OCEANO, il gran fiume che circonda la terra e TETI, l'umidità che pervade e nutre . Da questi, eran figlie le ninfe OCEANINE IPERIONE, TEA, da cui ELIO, SELENE, EOS, CEO FEBE, LETO e ASTERIA, infine CRONO e REA (un ringiovamento della coppia Urano-Gea). Oltre queste coppie tra i Titani vanno ricordati GIAPETO e tre divinità che personificano tre concetti morali: CRIO; TEMI; MNEMOSINE

I  CICLOPI erano tre: BRONTE STEROPE ARGE (fenomeni elettrici).

Gli ECANTOCHIRI erano te: COTTO,BRIAREO, GIGE (le forze sconvolgitrici della natura) . 

In unione col Ponto, Gea generò divinità marine: NEREO TAUMANTE, padre di Iride e delle Arpie; FORCHI e CHETO e EURIBIA

Cominciò una lunga lotta detta Titanomachia: Urano temette di perdere la signoria dell'universo per opera dei suoi figli minori. Spodestato Urano, cominciò il regno di Crono ma neanche questo  doveva essere lungo e felice. Infatti Crono temendo di essere detronizzato da uno dei suoi figli li ingoiava tutti appena nati; ma quando nacque l'ultimo figlio ZEUS, Rea lo nascose  mettendo nelle fasce una pietra che Crono ingoiò. Così Zeus fu salvo e fatto adulto mosse contro Crono. Cominciò la lotta detta Titanomachia  . Con questo mito si rappresentava il gran conflitto di forze della natura. Crono perdette il regno. Zeus divenuto signore  dell'universo  divise questo dominio con suoi due fratelli, riservando a sè il Cielo, lasciando a Posidone il governo del mare, ad Ades quello del Tartaro, la terra rimase neutrale. 
Nasce una nuova lotta (Gigantomachia): Gea crucciata per l'imprigionamento di parecchi dei Titani si unì con Tartaro  e dato alla luce un nuovo mostro che lo indusse a muovere contro Zeus  per rovesciarlo dal trono. Dalla grande battaglia, la signoria di Zeus durò incontrastata.
Tutte le divinità erano raggruppate intorno a Zeus detto padre degli dei e degli uomini. 
Gli Dei del Cielo, gli Dei dell'oceano  e delle Acque, gli Dei della Terra  e dell'inferno.. 
Zeus il Dio supremo del mondo, il Dio per eccellenza.

..................continua
















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PETRU FUDDUNI 
I VERSI DI UN MITO





Prefazione di Pino Caruso

La prima volta che sentii parlare di Petru Fudduni avrò avuto sì e no 12 anni. Passavo per via Discesa dei Giudici (dietro il cinema-teatro Finocchiaro a Palermo) quando fui attratto da un assembramento che si era creato in un angolo della strada, attorno a qualcosa o qualcuno che non riuscivo a distinguere. "ma che è?" . Chiesi ad un passante.
"Petru Fudduni" fu la risposta. Incuriosito mi avvicinai e carponi, cercai di farmi largo tra una gamba e l'altra di quel pubblico che sembrava divertirsi: lo sentivo ridere sopra la mia testa. Guadagnai un posto di prima fila e... "Petru Fudduni altri non era che un giovanissimo Franco Franchi. Per il lettore non palermitano dirò che Petru Fudduni era un poeta popolare vissuto a Palermo -non si hanno date precise-tra il 1600 e il 1670. Di mestiere faceva l'intagliatore di pietre; ma conquistò subito una grande popolarità per la sua capacità di improvvisare versi e per la sua carica polemica e protestataria nei confronti del potere, e, quindi, delle ingiustizie e delle soperchierie del potere stesso.
Divenne, cioè, in  breve tempo l'interprete più colorito e fantasioso del malcontento popolare. 
E tale rimase nella fantasia dei palermitani, non solo dopo che il potere lo assorbì, gratificandolo con riconoscimenti accademici, ma anche dopo la sua morte. Io non ho  nè l'autorità nè la competenza per potere parlare di Petru Fudduni poeta, e quindi lascio a chi ha l'una e l'altra il compito di farlo. Ma, come cittadino palermitano, penso mi sia consentito rilevare il carattere simbolico che la figura di Petru Fudduni ha assunto nella città di Palermo. "Morto il poeta, viva il poeta, esso ha trovato subito la sua reincarnazione in un altro, fino a trovarlo vivo io stesso sotto le spoglie di Franco Franchi che, a suo modo, prima di diventare attore. Il popolo ha sempre avuto bisogno dei poeti, perchè il popolo non è stato mai padrone di niente, nemmeno delle parole, e i poeti invece sono le parole. Ma questo, se spiega,-ove lo spieghi- il successo che in vita ebbe Petru Fudduni, non spiega certo la sua "vitalità" storica. Il popolo, seppellito Petru Fudduni, poteva benissimo scegliersi un nuovo poeta anzichè ostinarsi a far resuscitare - o meglio a non fare morire- sempre lo tesso Perchè "morto Petru Fudduni se ne fa un altro?" Perchè Petru Fudduni non era soltanto il paladino degli umili e degli oppressi  ma anche, pur essendo povero, un personaggio vincente. Un personaggio che vinceva con nient'altro  che non gli fosse stato dato dalla natura: con l'arguzia cioè e l'intelligenza fatte parola. E questo, in moneta sonante, pe il popolo significava speranza. La speranza di poter vincere un giorno la boria, la ricchezza prevaricatrice e la prepotenza con la sola forza delle idee. Molte poesie di Petru Fudduni nascono dalla provocazione, a volte bassa e ignobile, che faceva riferimento alle sue umili condizioni e, tasto per lui dolentissimo, alla sua nascita ignota. E sempre il poeta ne usciva trionfante. Petru Fudduni inoltre rappresentava,  e lo dice lo stesso suo cognome, la follia: una follia intesa, da parte di chi è costretto ad obbedire a regole per lo più fatte  contro di lui, come estro di ribellione e conquista di libertà.
Ecco perchè -seconde me- Petru Fudduni è vissuto per secoli. E dico "è vissuto", perchè oggi Petru Fudduni non è più. Nessuno più lo incontra per le strade di Palermo e solo gli anziani lo citano indirettamente quando, alludendo al loro passato, dicono : "ai tempi di Petru Fudduni".
Ma io non sono sicuro che la sua scomparsa debba venire interpretata pessimisticamente come la fine di un mondo: piuttosto, come la nascita di un altro. E' vero: il poeta che parla a nome del popolo è morto ma, forse, perchè il popolo ha imparato a parlare per sè, e perchè ognuno di noi ha deciso di essere il "Petru Fudduni" di se stesso.   



PETRU FUDDUNI SI PRESENTA

Sutta sti vesti rozzi e pilligrini 
si trovanu li cori spariggiati; 
la rosa nasci 'nta puncenti spini 
'nta gerbi terri li gigghia su' nati; 
li petri priziusi e li rubbini 
'nta li rustichi rocchi li truvati: 
chi maravigghia c'è, all'ultimi fini, 
si mi viditi sti robbi sfardati?




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IL SOPPALCO CON LA TRAVE SMURATA 

di Ferruccio Centonze









IL SOPPALCO CON LA TRAVE SMURATA 
pag.15


Qui, alla Marinella, con la finestra che riquadra un pezzo di pane sconvolto dallo scirocco, frange di memorie tornano dal tempo. E così per un miracolo di certe reazioni dell'<anguria>  (prendo a prestito dall'eroe randagio di Arpino)), l'atmosfera si è fatta calma d'un tratto, in una dimensione irreale e antica.
Il Cantone. La casa del Cantone.
Una porta a vetri cisi sistemavano le imposte, a mano, dall'esterno, quando calava la sera. Oltre la soglia con l'alto scalino, una stanza con mattoni di creta sempre trasudanti come un umore di sale. Sulla sinistra i fornelli- quanta fatica la madre a svampare il carbone, con quella gloria di cenere e faville sotto il vento del muscaloro, e quell'odore di bruciato posato su ogni cosa, talvolta con un sentore acre di gatto: pupo il rosso raspava nel cassone, sotto i fornelli , fra il carbone. Sulla destra della stanza, lungo la parte, allineati i recipienti  dell'acqua- nziru, quartara, e bummula di sciacca. E sulla  mensola, sotto lo specchio -toilette, il lume a petrolio- torna l'odore della'arsoli, bruciato dal meccio dentro il tubo di vetro. E bisognava stare attenti a regolarlo bene lo stoppino per non aumentare il consumo del petrolio-del petrolio! Strappi di corde fra gola e petto-capita a tutti-per quella polvere di ricordi che ti fa accendere nella memoria il lampo di un nome, quello dell'arnese che teneva insieme base meccio e tubo: < Lu cuncegnu>- come sussurrare al vento il pianto degli anni.
E la scala di legno che portava al soppalco, col passamano traballante su cui la nonna non osò mai posare la sua mano diventata di carta, chè si stringeva verso il muro preferendo incrocchiolare gli ossicini artrosici dlle dita nelle asperità dell'intonaco screpolato
La madre, nell'angolo fra muro e porta, a riaprarsi dal sole. E sul mare paranze. Gli si facevano incontro le barchette e più tardi per la casa era tutta una fragranza  d'olio d'oliva che si levava dalla padella stagnata saraghi, cefali, spigole, linguate, vope e tutto quello che il mare pescoso di allora era in grado di dare-non erano ancora i tempi del pesce d'oro venduto all'incanto.
Il gabinetto, nel sottoscala: una buca, tre mezzi conci murati ai lati, la lastra di marmo sopra, con il foro ovale. il chiodo al muro da cui pendeva la carta di giornale tagliata a rettangoli, il secchio con l'acqua lì vicino, non un occhio di bue che permettesse il ricambio dell'aria. E storia nostra, della nostraprecaria condizione di vita di allora, ma chi se ne accorgeva? Tornano solo rimpianti e magoni. Il soppalco con i materassi di crine - quello scricchiolare di erba secca, di assi, la chianca smurata da un alto del mare, mentre il violino del padre si attardava a far la <notturna> con i suoi amici, e smoriva la luce dei lampioni, e il lampionaio fischiettava all'alba. 
Ma clacson e trombe cancellano ombre e rimembranze. E' la sposa del giorno che viene a farsi fotografare sul molo, inseguita dalle auto degli invitati, dal frastuono di un'epoca che non conosce più il silenzio.




CARNEVALE E I GIOVEDI' DELLA TRADIZIONE
pag.34

Fu un giovedì di un gelido gennaio che aveva anticipato i crudi giorni della mela. Vidi un mascherato malinconico che solitario andava su e giù per la piazza. Un giovedì. Ricordi lontani ribollirono dai crepacci del tempo; don Cocò e i cinque giovedì che precedono il Crnevale. <Il partito è accordato> diceva approssimativamente don Cocò mentre entrava, e le donne si davano da fare attorno a lui portandogli biscotti e rosolio. <Lei> diceva alla padrona di casa < invita la famiglia del giovane a far quattro salti il pomeriggio del primo giovedì, al secondo ci può essere la "spiegazione". Poi, nel giovedì dei parenti, se tutto va bene, si può fare l'entrata>. Sì, perchè i cinque giovedì che precedono il Carnevale avevano una volta, qui da noi, precise connotazioni. Il primo era chiamato il <giovedì dei vicini>, il secondo <degli amici>, il terzo <dei parenti>, il quarto <delle comari> e il quinto <il giovedì grasso o di Bellingaggio>, quando il porco faceva le spese della festa fornendo grasse salsicce innaffiate dal vino forte di Seggio. E proprio in occasione delle riunioni del giorno di mezzo della settimana, non era raro che si intrecciassero alleanze e si <accordassero>  matrimoni, per i buoni uffici di don Cocò, un paraninfo rispettato e ossequiato specie da chi aveva una figlia stagionatella da maritare, un individuo di nobile casato - secondo quanto riporta G. Asaro-, vissuto qua all'inizio del secolo, il quale, a differenza delle mediatrici di matrimoni prezzolate (era un mestiere che rendeva), svolgeva la sua missione disinteressatamente, per vocazione. Il giovedì grasso apriva ufficialmente il Carnevale. E in quella particolare giornata era lecito parlar grasso. Ricordi. Passava uno su un carretto tirato da un asino, lungo giù per tutto il corso Vittorio. Aveva in testa una <mezzapalla>, sul naso un paio di occhiali di ferrofilato e un frac che sentiva la naftalina. Il carretto sostava ogni tanto lungo il corso o nelle piazze, e l'uomo soffiava dentro una brogna annunziante, tirava su un libraccio e cominciava a declamare poesie vastase di Fudduni, di Tempio, del poeta Calvino, e ogni tanto aveva pause teatrali che venivano colmate da sonori sberleffi e dal lancio di ortaggi e arance marce. E poi passava uno a cavallo-tuba in testa e abbigliamento variopinto- con un càntaro stretto al petto, colmo di maccheroni conditi di rossa salsa, e mangiava e ne offriva alla gente-e dai balconi del corso le ragazze, costrette in casa, raffrenavano gli umori sotto lo sguardo gelido dei genitori, mentre gli spasimanti passavano lì sotto col naso in su a tentar di carpire il baluginare di una rotula se il vento smuoveva l'ombra misteriosa delle gonne.   



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LE STORIE DI GIUFA'



di Marina Di Leo

Stupido e furbo. imbecille e genio, bestia e angelo, Giufà sembra essere l'improbabile somma di caratteristiche che si negano a vicenda. Ma se fossero proprio queste palesi contraddizioni a costituire l'identità profonda del personaggio? 
E se le sue storie ci affascinassero proprio per la loro imprevedibilità? 
Districare il groviglio di ambiguità che circonda questa celebre figura della narrativa siciliana, rintracciarne origini e motivi, esplorarne le potenzialità sono i principali obiettivi di questo volume, in cui viene proposto al lettore un preciso itinerario: dalla ricostruzione dello sfondo storico-culturale alla discussione dei problemi posti dall'enigmatico personaggio, alla proposta di una chiave di lettura delle sue storie, puntualmente verificata sui testi originali. 
L'analisi si intreccia così all'antologia di aneddoti e racconti tratti dalle opere di Bonaviri, Bufalino, De Franco, Gonzenbach, Lanza, Longo, Pitrè.


(da LE RACCOLTE SICILIANE DI GIUSEPPE PITRE')


<GIUFA' E LA STATUA DI GESSO>

Si racconta che c'era una mamma che aveva un figlio chiamato Giufà. La mamma era povera. Giufà era stupido, pigro, mariuolo. Un giorno la madre, che aveva un pò di tela, disse a Giufà: <Prendi questa tela e và in un paese lontano, ma devi venderla a qualcuno che parli poco". Giufà partì con la tela sulla spalla. Arrivato in un paese , cominciò a gridare: <Chi vuole la tela?>. Le persone lo chiamavano e cominciavano a discutere:  a qualcuno sembrava grezza, a qualcuno altro cara. A Giufà sembrava che parlassero troppo , e non voleva cedere. Cammina di qua, cammina di là, entrò in un cortile, dove non c'era nessuno tranne una statua di gesso. Giufà le chiese: <La volete comprare la tela?> Ma la statua non gli dava retta. Giufà allora disse: < E' a voi che devo vendere la tela, visto che parlate poco>. Prese la tela e gliela avvolse addosso. <Domani vengo per i soldi>, concluse.
L'indomani, tornato per i soldi, Giufà non trovò più la tela. Disse allora: <Dammi i soldi della tela>. E la statua non rispondeva. Visto che non mi vuoi dare i soldi - continuò-, ti faccio vedere chi sono io>. Prese uno zappone e cominciò a colpire la statua sino a farla cadere e rompere: nella pancia vi trovò una brocca piena di soldi. Mise i denari nel sacco e tornò dalla madre. Arrivato a casa, disse:< Ho venduto la tela a uno che non parlava, ma soldi la sera non me ne ha dato. Poi ci sono tornato la mattina con lo zappone, l'ho colpito, l'ho gettato a terra e mi ha dato questi soldi>. E la madre, che era furba, gli raccomandò: >Non dire niente a nessuno, che a poco a poco ce li godiamo questi soldi>. 







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I SOVRANI IN SICILIA...NEL 1881


CRONICA 
per 

CASTROGIOVANNI TIPALDI


<GITA A MONREALE>  
 pag. 122




Palermo, 7.
La visita alla monumentale basilica di Monreale è fissata per le ore due.
Alle 5 i Sovrani saranno di ritorno a Palermo.

Monreale,7 ore 7 p.m.
Il tempo è piovoso. Le colline di Monreale, coperte di fichi d'India, di oliveti, di arancenti, sono di un effetto davvero pittoresco.
All'ingresso del paese è un arco trionfale di verdura con disegni di arance, Particolare eminentemente locale, Siamo proprio nel pays ou' fleurit l'oranger!
Salirono al Duomo normanno una decina di società operaie palermitane con in testa i loro gonfaloni. Il palazzo del Municipio è parato con velluto rosso. Tutti i balconi pavesati e ornati assai leggiadramente.
Cinque bande musicali alternano i loro concenti.
I Sovrani arrivano alle 3 pom. in carrozze scoperte.
Il Re Umberto è vestito alla borghese.
Smontando alla porta della Cattedrale, la Regina bacia l'anello all'Arcivescovo  che è a riceverla, con tutto il Capitolo e il clero.
I Sovrani recansi all'altare maggiore,. Il Vescovo dà la benedizione. Umberto rimane ritto, la sola Regina inginocchiasi.
Il tempio stupendo, magnifico par antichi grandiosi mosaici.
Finita la cerimonia religiosa, i Sovrani visitano le tombe dei Re Normanni.
Alle ore 4 ripartono per Palermo.
Il popolo acclamante segue le carrozze Reali. Piove. I Sovrani recansi ad un asciolvere offero Loro nella villa del conte Tasca. Durante la cerimonia, nell'interno del Duomo di Monreale, permisesi l'accesso a pochissime persone.
Palermo 7, ore 7 p.m.
Questa sera saranno invitati a pranzo alla Corte i generali e i comandanti dei corpo. Nuova serata di gala al Politeama. 
Il tempo, sempre piovoso, non permette le solite luminarie. 
Corrispondenza telegrafica da Monreale.
Monreale 7 ore 10 a.m.
La città è in festa aspettandosi l'arrivo dei Sovrani. Tutte le case sono pavesate di bandiere e arazzi. All'ingresso del paese è stato costruito un magnifico arco di aranci e di verdura con disegni di frutti .
Arriva continuamente gente da Palermo e dai dintorni. La popolazione di parco si è qui riversata. Una dimostrazione, preceduta dalla musica e dalle associazioni politiche e operaie, percorre le vie principali al grido di Viva il Re, Viva la Regina, Viva la Casa Savoia! Il Prefetto e  molte autorità verranno da Palermo prima che arrivino le LL. MM. 
Monreale 7, ore 7,30 p.m.
I Sovrani sono arrivati verso le 3. 
Malgrado il tempo piovoso, le LL.MM. entrando in città, ebbero un'accoglienza festosissima. 
Furono ricevute dal sindaco. Seggio Mirto, dalla Giunta, dal deputato Inghilleri, dal Prefetto della Provincia  e da molti cittadini di tutti gli ordini. L'immensa folla plaudente si accalcava su passaggio dei Sovrani. Dai balconi si agitavano fazzoletti  e si gettavano fiori. Acclamazioni infinite. 
Ordine perfetto.

S. M. il Re e il Duca d'Aosta vestivano la borghese. La Regina Margherita portava un abito e una sopravveste di velluto e raso colore oliva, con guarnizioni di seta e oro, e un cappello dello stesso colore con una bellissima piuma. La sciarpa era trattenuta al collo da un fermaglio di perle, e due magnifici brillanti Le adornavano le orecchie. 
Il Principe di Napoli vestiva la solita uniforme di caporale dei torpedinieri. Fu Presentato alla regina un mazzo di fiori dall'Albergo dei poveri, e un altro bellissimo del casino di compagnia Umberto. 
Le bambine del collegio di Maria , bianco vestite, e gli alunni del convitto Guglielmo, diretto dal canonico professore Maurizio Polizzi, erano schierati in doppia ala destra e a sinistra del Duomo; 
e quando alle 3e mezza i Sovrani entravano nel tempio, una fanciulla offerese alla Regina un mazzo di fiori; un'altra un album con le fotografie del Duomo e del Chiostro dei Benedettini una terza un altro bellissimo mazzo di fiori.
Le LL.MM. erano ricevute dall'Arcivescovo e dal Capitolo, Cantato il Pange-lingua e data la benedizione, le LL:MM. accompagnate da monsignor Papardo, visitarono il famoso tempio, le tombe dei due Guglielmi il Buono e il Malo, e le argenterie. L'ingresso nel Duomo fui permesso a poche persone. I Sovrani firmarono per i primi un album per gli illustri visitatori della famosa basilica. Indi guidati dal principe di Scalea, passarono a visitare il Chiostro dei Benedettini, Quivi un alunno del convitto Guglielmo declamò e presentò al Principini di Napoli un sonetto letto sontuosamente in velluto bleu, e un altro Gli regalava un album contenente le fotografie dei monumenti di Monreale. S.A.R. era visibilmente commosso  e strinse la mano ai due bravi convittori. La società dei giardinieri offerse ai Sovrani una cesta di arance, mandarini, lumie e limoni e di tutti frutti freschi. Le LL.MM., contente della lieta e cordiale accoglienza  ricevuta nella patria del Novelli, alle 4 p.m. movendo per Palermo, furono fatte  segno agli applausi calorosi e agli evviva  della popolazione monrealese. I Sovrani di ritorno visitarono la villa Tasca, che fu trovata, come è , bellissima. Animato il corso di carrozze in via Calatafimi.

Ecco il testo  del sonetto presentato a S.A. R. :

A S:A.R. il Principe di Napoli

Gli alunni del Convitto Guglielmo di Monreale


Mentre il fragor dei plausi intorno echeggia 
Su questo Monte che dai Re si appella, 
Il Genio di Savoja esulta, inneggia 
Regale Giovinetto, a la tua stella.

L'immagine degli Avi, in Te vagheggia 
Ed alla Madre tua di te favella 
Che a questa Italia ed all'antica Reggia 
Largire non potea gemma più bella

Questo grido ripete il bel paese 
Che dal sicolo Oreto al biondo Olona 
In Te saluta il glorioso Erede 

E ad affrancarlo da nemiche offese 
Tal ti prepara una gentil corona 
Qual può solo intrecciarti amore e fede.
Can. M. Polizzi



STATUTO

....Il corso Calatafimi era gremito di gente; la quale avea preso posto lungo i marciapiedi e negli spiazzi. In quel tratto del corso tra Mezzomonreale e la Rocca, dove le case son men frequenti ed i marciapiedi non sistemati del tutto, la gente si collocava su' rialti di terra, e mostrava di aver preso un'altura per goder meglio lo spettacolo.....
Il Corso Calatafimi in generale presentava un bello aspetto, e quanto più ci si inoltrava , tanto più gradito era lo spettacolo e si ripensava alla bellezza di quel lungo corso che direttamente conduce al mare.
......................

.....Ma già in Monreale moltissimi aveano preceduto il corteo reale e quella città oggi avea un insolito aspetto. All'entrar del paese era preparato un arco trionfale a stile gotico. Era di verdura ed adorno di arance e limoni. A poca distanza da esso ammiravasi un altro arco trionfale. 
....I balconi della via Pietro Novelli delle piazze del Municipio e del Duomo riboccavano di persone. Con questi preparativi Monreale manifestava il suo contento per la visita dei Sovrani. 
....allo svolto ove comincia la salita che mette a Monreale . I cavalli allentano il passo  es si sale dolcemente scoprendo man mano un immenso panorama che supera in bellezza e grandiosità tutto quello che mente d'artista  o di  poeta saprebbe immaginare. La Conca d'oro questa magica vallata dalle curve infinite presenta in un solo colpo d'occhio tutti i suoi tesori. Il cielo è coperto di nuvole grigie il tempio è piovoso il paesaggio per questo perde certamente la metà dei suoi incantesimi eppure è sempre una scena stupenda a cui non manca che un raggio di sole per diventare affascinante
...... Giù giù per la distesa degli aranceti l'occhio va sino al mare ch'è sempre azzurro sebbene il cielo sia plumbeo e alla frastagliata catena di monti che forma la cintua del golfo da monte Pellegrino al promontorio Zafferano. 
Eccoci alle prime case di Monreale .

La carrozza passa sotto  un grazioso arco di verdura .....






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Emanuele Navarro della Miraglia

LA CONCA D ORO

Un semicerchio di montagne,, una valle che ha circa trenta leghe di periferia e che si stende fino al mare dove Palermo si specchia e si bagna; ecco la Conca d'Oro.

Il nome, di origine antica, e' forse dovuto alla bellezza del paesaggio e alla fertilita' del suolo. Le montagne poco levate, ricordano l Africa, sono biancastre, sassose, ripide. I citisi,i terebinti e gli euforbi, verdeggiano nelle spaccature inaccessibili. Le coste sono piantate a fichi, a sommacco, a vigne, a fichi d' India, ad ulivi. La valle e' un bosco fiorito di aranci, di tutte le piante de' climi caldi, di melagrani, di palme, di muse, di agavi, di nespolo giapponesi e di frassini stillanti manna.

molte sorgenti di acqua purissima sgorgano in diversi luoghi. l ,Oreto, un fiumicello modesto, scorre fra due rive incantevoli. La valle e' circonfusa spesso di vapori candidi che il sole tinge nel modo piu' vago e cangiante, che il vento dissolve o aggruppa in mille forme bizzarre. In certe ore, all' alba o al tramonto, il cielo e il mare si colorano di toni dorati e rutilanti. Le cime aduste delle montagne spaccano precise e nette sul fondo del quadro. L ' occhio resta pensoso e l' anima sogna. I sensi, stuzzicati dal profumo dei fiori d'arancio subiscono impressioni squisite, risentono aspirazioni acri e molli ad un tempo.
Da un lato, la Conca d' Oro e' chiusa dal monte Pellegrino su cui si trova, scavato nel vivo sasso, l eremitaggio di Santa Rosalia. Dall altro lato a pie' del Catalfano, la valle si prolunga e lascia travedere le splendide ville e i bianchi villaggi che sorgono dappertutto, in mezzo agli alberi. Qui si vede la Favorita, una graziosa palazzina reale. La' torreggia la Belmontina, una dimora proprio incantata. Più lungi c’è l’Olivuzza, colle sue logge a balaustri, con le terrazze a colonne, coi giardinetti pensili. Un vecchio castello in rovine si rizza sopra un colle. A diritta sta la Cuba, a sinistra la Favara, nel centro la Zisa – tre stupendi palazzi moreschi. In fondo biancheggiano le case del Parco e la cupola di San Martino – un convento artistico. Poco discosto è Monreale, con le sue torri brune, con le sue rupi grigie, col suo tempio inondato di luce, splendente di mosaici e d’oro. I viali di campagna sono, in gran parte, fiancheggiati di mura. Cosi, l’orizzonte è spesso limitato. Il cuore si sente compresso. Ad ora ad ora, camminando, si vede un cancello di ferro. Ai lati, su due colonne sorgono due vasi di porcellana dipinta, dove fiorisce il geranio. L’aralia, l’aloè, il cacto a forma di lampadario ed a fiori gialli. Dietro i cancelli, i contadini zappano l’orto. O colgono i limoni  e le fragole. Mentre le villeggianti giocano al volano sull’erba, o fanno partire i palloni. Né villaggi, le donne lavano, ginocchioni in riva ai ruscelli e stendono i loro cenci, su lunghe corde, al sole. Le oche e le anitre diguazzano nell’acqua. I fanciulli si chiamano tra loro e corono, soffiando nei bocciuoli di canna, da una punta dell’abitato all’altra. Il macellaio, pingue e floscio, dormicchia, coverto di mosche innanti alla bottega. Il venditore di cocomeri, ritto nel suo frascato. Fornisce per un soldo, ai passanti, da mangiare, da bere  e da lavarsi il volto. Chi passa? Qualche guardiano a piedi, qualche fattore a cavallo. I guardiani vanno mogi mogi, col capo chino e col fucile in spalla. I fattori hanno le selle ad arcioni rilevati, coverte da grandi pelli di montone a lungo pelo. Le carrozze sono scarse, meschine, polverose, tirate da certe brenne consunte cui nulla spinge, né la frusta chiassosa, né la voce dè vetturini, né lo scampanio assordante dè sonagli. Ai carri, il più delle volte, è attaccato un mulo. Sono piccoli, alti, a due ruote. La sala è di ferro lavorato, a trafori, a ghirigori, a filigrane rozze. La cassa è dipinta di giallo, ornata di figure strane: soldati, frati, monache, madonne, dragoni alati e Cristi grondanti sangue. Palermo si stende nella pianura, alle falde del Pellegrino che ripara dai venti nordici. Essa produce una singolare impressione, quando vi si giunge per la prima volta o dopo una lunga assenza. Già, lontano, dal mare, si scorgeva l’isola che, secondo dice Dante, caliga fra Pachino e Peloro. Una densa nuvola di vapori impalpabili la cinge all’intorno e la tinge di colori caldissimi. Lo sguardo abbarbagliato e sedotto, scorge, come a traverso un prisma, la città, le montagne, i villaggi e le ville delinearsi confusamente sopra un fondo di luce ranciata e rossastra. Lo spettacolo è così nuovo, così bello, così attraente, che il cuore batte più forte, commosso da una dolce esultanza. Si è ancora discosti dalla riva, ma nondimeno il pensiero corre impaziente, e indovina, e presentisce le svariate sorprese che l’attendono.
Appena scesi a terra, se si va un poco a zonzo per le vie, par d’essere in una città fabbricata dagl’Italiani, dagli Spagnoli e dai Mori insieme. Il bello e il brutto si alternano, il grandioso e il gretto si confondono, l’opulenza e la miseria si danno spesso la mano. Ogni dominazione ha lasciato la sua impronta sugli edifizii pubblici e sulle case: qui c’è una chiesa che era una moschea; lì si vede un palazzo che ha una specie di patio; più lungi fila di catapecchie, senza luce, senz’aria, come nel Basso Porto di Napoli; dovunque si succedono i balconi di ferro, i veroni di pietra o di marmo, le terrazze su cui fioriscono i gelsomini d’Arabia e gli aranci, le logge di legno tinto, chiuse da grandi persiane verdi dietro cui le signore guardano, indolenti e pigre, come le odalische  dell’arem. Un incanto soave, una magia senza nome spirano dall’insieme e piovono dentro il cuore, ad ogni passo. Le guglie, le cupole, i campanili incrostati di maiolica si slanciano, da tutte le parti, in aria, e splendono di mille raggi rifratti. Il cielo è cosi azzurro, così profondo, così diafano che pare infinito.  Le vie, ora diritte e lunghe,ora sinuose, intralciate, strette, echeggiano di rumori e di voci. La folla è screziata, un po’ troppo popolare forse, un po’ trasandata e sciatta. Le carrozze di affitto corrono, come il vento, e numerose, in ogni direzione. Le donne del volgo passano, portando un fazzoletto intorno al capo e uno sciale di lana, a scacchi od a righe, sugli omeri, gli uomini vanno mogi mogi, o cianciano ad alta voce, tra loro, gesticolando, e muovendo quasi in cadenza tutto il corpo. E i venditori di pesci, di frutta, di verdura, gridano, tenendo una gran cesta e una bilancia in mano, sciorinando la loro roba sui marciapiedi, innanzi alla poste delle farmacie e de’ circoli dove le persone a modo pigliano il fresco e fumano. I friggitori gridano anch’essi, vestiti di bianco e grondanti di sudore, presso i loro fornelli coperti di mattoni verniciati, su cui le caldaie bollono. Le brune acquaiole ripuliscono i bicchieri, nude le braccia fino al gomito, dentro le vaschette di marmo. I preti vanno distribuendo le benedizioni, il tabacco e i numeri, di bottega in bottega. Un uomo, un muezzino,mormora presso la gradinata di qualche chiesa. – La messa!  È uscita or ora ; la messa, o divoti, la messa!
Di tratto in tratto, si vede l’immagine di qualche Madonna, dipinta o scolpita, nelle vie, in un angolo. La gente del popolo s’inchina, si scopre, fa il segno della croce e biscica un’avemaria, passando. Altre Madonne si scorgono nelle botteghe e nelle case dè poveri, della strada.
Verso sera, quando la temperatura diventa fresca, la classe eletta vien fuori e le vie principali si riempio nodi legni più o meno eleganti. La passeggiata ò, per una gran parte dell’anno, la sola distrazione, il solo divertimento di cui si goda a Palermo. Ci si va per passarsi in rivista, ogni giorno, gli uni e gli altri; ci si va per dire alle donne, e per lasciarsi dire, mille tenere cose, cogli occhi. I giovanotti, vestiti correttamente, pettinati, profumati, inguantati, vanno frettolosi innanzi e indietro, nella via Macqueda o nel Cassaro, salutando con disinvoltura a dritta ed a manca. Alcuni guidano due focosi cavalli friulani o sardi; alcuni altri si sdraiano dentro una cittadina, incrociando le gambe su’ cuscini e toccano di quando in quando con la piccola mazza, il cocchiere al fianco, per fargli intendere che bisogna andare in un senso o nell’altro. Le signore che non hanno carrozza, guardano dai balconi o dà terrazzi, punte dal desiderio, rese malinconiche dalla privazione. Le altre si pavoneggiano    dentro un legno, spesso molto bello, ma spesso ancora dentro una carrega qualunque. Ciò che più loro importa è di non mostrarsi in strada, a piedi. Alcune salirebbero nella vettura del diavolo, se il diavolo volesse condurle alla Mariana o al Giardino Inglese. Ah. Se potessi farvi vedere quelle passeggiate splendide! Il Giardino Inglese non ha forse nulla da invidiare all’orto delle Esperidi. Vi si giunge a traverso un lungo e stretto viale piantato di platani, fiancheggiato di aranci, di opunzie, di ulivi e di mandarli. Un monastero, una chiesuola, una casa bianca, una villa sontuosa, sorgono qui, là, più lontano. Da un lato, la campagna finisce al mare, dall’altro lato è chiusa da un cerchio di pittoresche montagne; rimpetto, in fondo, si rizza il monte Pellegrino. Le piante dei tropici, i limoni fioriti, le magnolie, i nespoli del Giappone, le rose, tramandano un profumo che rammollisce i nervi, turba l’intelligenza ed inebria i sensi. E le carrozze sfilano e i pedoni passano. E il fruscio delle vesti, e l’agitarsi dei ventagli, e i sorrisi e i cenni della mano e gli sguardi lunghi ed intensi delle signore infiammano il sangue: la mente si offusca, le idee si confondono, si ha il capogiro. A notte, si passeggia alla Marina. Immaginate uno spazioso viale. A sinistra, un alto marciapiedi decorato, ad intervalli, di sedili, e lambito in tutta la sua lunghezza, dal mare. A diritta, un altro viale meno largo, e poi un altro dove sorge una doppia fila d’alberi di corallo, carichi di fiocchettini rosse. Quindi le antiche mura della città, e su quelle mura un’altra passeggiata vaghissima, tutta piena di arboscelli e di fiori. Infine un lungo prospetto di palazzi vetusti, ornati di terrazzi, di balconi, di cupolini e di chioschi. L’orizzonte è vasto, pittoresco, incantevole. La luna o le stelle rischiarano in modo sorprendente la riva sinuosa e il passaggio lontano. La via lattea vince quasi la luce dè cento becchi di gaz che splendono intorno a una specie di loggia, tutta colonne, dove  un’orchestra suona. ……E frattanto. l'eco ripercuote. in lontanaza. le musiche....





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RACCOLTA
di
PROVERBI
SICILIANI
in ottava Rima
di
ANTONI VENEZIANU



Tintu cui fervi ad un patruni ingratu
 
Guai pri cui lassa chiddu chi c’è datu

Stultu cu cerca risposta d’un mutu

Infami cui a lu mali sta ostinatu 
 
Miseru cui nun ha riparu o scutu 

Scuntenti cui d’amuri è travagghiatu 

Tintu cui cadi pri chiamari  aiutu 

Vidi, e taci si beni aviri voi 

La cosa nu la diri si nun sai

Vogghini chiù pri li vicini toi

Chi non pri cui nu  lu vidissi mai 

Ama l’amicu cu li vizii soi 

Porta rispettu a locu undi stai 

Nun fari cchiù di chiddu chi tu poi

Cui voli focu assai porti assai ligna

Lu mugghi è stari sulu a la tua vigna

Chi cui sta sulu di nuddu si lagna

Lu mottu anticu lu modu m’insigna 

Cui ioca sulu sulu mai s’incagna 

L’omu com’omu và cu lu cumpassu

E cerca sempri bonazza e riddossu 

E cui và in fretta cadi stancu, e lassu

La navi nun ha pedi e fa gran passu

La lingua nun ha ossu e rumpi l’ossu

La tila si tessi senza spola 

Lu tronu li cosi auti rumpi, e scala

Tuttu lu munnu è comu casa nostra 

A lu nnimicu la corda ci at isa
A la tua porta mal’omu nun trasa

Nun dari mai lu piru pi cirasa

……………………………







COMUNE DI MONREALE
CASA CULTURA “Santa Caterina”
Giovedì 27 Giugno alle ore 17,30, nei locali di “Casa Cultura” via Pietro Novelli n. 5,  la Prof.ssa Amelia Crisantino presenterà il libro dal titolo 
BASCO BLU “ di Salvatore Cangelosi  in ricordo di Ubaldo Mirabelli

SALVATORE CANGELOSI nasce a Monreale nel 1956. Dal 1970 svolge la professione di libraio. Ha pubblicato "Inchiesta in Sicilia" (Prova d'autore 2006) - "La difficile indagine sentimentale" (Prova d'autore 2008) - "La città e i libri. Avventure di un libraio" (2016) e "Collezione Privata. Scrittori persone e libri" (2017)





Ubaldo Mirabelli, (Palermo 1921-2008), è stato un eminente studioso di storia dell'Arte, un musicologo, un giornalista e un saggista, in altre parole, un uomo dal multiforme ingegno, capace di "spaziare  con sicurezza e con un linguaggio anche parlato molto letterario  e retoricamente  iperteso" in tutti gli ambiti del sapere. Un uomo che merita di essere ricordato  e che viene restituito  alla memoria attraverso questo  prezioso cameo di Salvatore Cangelosi che, in punta di piedi, lo racconta dal punto di vista privilegiato di un giovane libraio che seppe conquistare la sua fiducia.








...Se vado a ritroso, il ricordo più remoto che ho di Ubaldo Mirabelli risale all'autunno del 1979 allorquando stavo muovendo i primi passi di allievo commesso nella libreria Ciuni di via Sciuti. Un pomeriggio di novembre con un sole fuori stagione. Lorenzo Macaluso preposto della libreria, il quale mi istruiva sui tanti personaggi e letterati che gravitavano in quella via e nel segreto viale delle Magnolie, me lo indicò. Mirabelli era un tipo massiccio e solenne come un cardinale, direi autorevole già nella postura, e con passo lento e misurato si avvicinava alla vetrina della libreria; aveva il compito ampio, carnoso, con le guance rosseggianti un pò cascanti, le labbra tumide. le sopracciglia accentuate imprimevano un senso di ferreo dominio a tutto il viso. Lo sguardo fisso marcava una certa distanza tra sè e l'ambiente, dagli uomini e dalle cose circostanti. La mano destyra, rosea e gommosa, era impegnata a tener a mezz'aria+il suo sigaro preferito, Garibaldi, come avrei poi appreso dalla sua viva voce. 
Mirabelli col casco blu di Prussia ben calzato, come quello che usava mio padre nelle giornate fredde, era infagottato dentro un trnch color malva un poco fantozziano e rigido e teso osservava le ultime novità esposte in vetrina: <Vedi quel signore>, mi sussurrò guardingo il preposto, <è il professore Ubaldo Mirabelli, il sovrintendente del teatro Massimo, ma è tante altre cose: storico dell'arte, musicologo, giornalista...ricordatelo bene, intesi?> si affrettò di informarmi. E in quella notizia mi parve di riscontrare un cordiale avvenimento, cioè a dire: stai attento a come lo approcci, se mai ti capiterà di approcciarlo. 
Approcciarlo? Non ci pensavo lontanamente!......






"I VIAGGIATORI" IN SICILIA
Libri in Biblioteca....


I diari. le lettere. le memorie di molti Viaggiatori classici e romantici dei secc XVIII e XIX,  che si accinsero ad esplorare la Sicilia per conoscerne i monumenti, la cultura, i paesaggi, hanno dato vita ad una vera e propria letteratura, quando ancora gli approdi nell'isola erano estremamente difficili.








































                    Dopo il testo di avventura e fantasia fatto per ragazzi dal titolo
                        "GEREMIA FIORE E IL LIBRO DI OBERON"  (2006) 



"SOTTO LE STELLE DI ROMA "
di 
Massimo Benenato 

PRESENTAZIONE LIBRO
del figlio dell'attore Franco Franchi
presso 
CASA CULTURA S. Caterina 





 
....Sono Massimo Benenato nato a Palermo da Francesco Benenato in arte Franco Franchi.
Da lui ho ereditato l'amore per ogni forma d'arte e l'ironia necessaria per affrontare questa enigmatica vita...




Eugenio ed Elvira, due fratelli, lui musicista e lei promettente attrice, si stanno recando ad una serata mondana in compagnia del loro amico Marcello, vulcanico dentista vicino di pianerottolo, amante del gossip e della vita gaudente. Durante il tragitto verso la villa, dove si tiene la festa. il destino vuole che soccorrano Paola Dini , la più grande attrice del mondo, rimasta in panne con la propria auto . Per ringraziarli dell'aiuto, la diva l'invita al tavolo con i propri ospiti , tra cui Ajna, una donna indiana dotata di capacità al limite della credibilità. innescando una serie di intrecci amorosi, situazioni impreviste e colpi di scena dai risvolti insospettabili. Tutto si svolge in pochi turbolenti giorni che cambieranno la vita esteriore e interiore di ogni personaggio per sempre. Come sfondo, Roma e alcuni dei suoi luoghi più belli. Il romanzo è un invito alla riflessione sui rapporti umani e amorosi, sulla bellezza della diversità e sul significato più ampio della vita. Ogni personaggio rispecchia questi temi, rappresentando la realtà di oggi.   





Libri in Biblioteca...
 Franco Franchi, in un rione popolare, agli inizi della carriera

dal libro "Sicilia felicissima" pag.119 edizioni Il Punto-
Palermo 1978  copia n. 1050







La rivolta del
<SETTE E MEZZO>

Libri in Biblioteca



<Fin dalla vigilia del 16 settembre Palermo si torceva fra le spire della rivolta. L’unica ad ignorarlo era l’autorità politica tardipede per costituzione nel tener dietro ai grandi rivolgimenti della storia. Il popolo se non sapeva, sentiva: e ognuno conosce di quanto l’intuire soverchi il ragionare. Persino un orbo, incapace d’infilare la smorta pupilla nella cruna delle vicende mondane, avrebbe avvertito nell’aria qualcosa di estremamente teso: come la pena del vetro, non percosso, ma pigiato fino al massimo della resistenza, che sta per incrinarsi. I volti delle persone, quando non erano rattratti dallo sbigottimento, apparivano come straniti; e le forme consuete della vita sociale apparivano smagate allegorie di una verità più profonda, latente dietro di esse. Parole oscure, tra profetiche, amletiche e minacciose, strisciavano da tempo intorno al fatto bruto, storicamente inattuale, ma pulsante di una più prepotente attualità ideale: la verità di ciò che non è ancora, ma deve assolutamente essere, perché così detta il Destino. Da prima, più che parole, confidenze, bisbigli, ammiccamenti di occhi e sdrusciare di gomiti, frasi smozzicate, gerghi furbeschi, che i passanti per la stessa strada si scambiavano in incontri studiati o impremeditato; poi proposizioni, che si sgranchivano in aperti discorsi, lunghi conversari corrivi a sfrenarsi nella iattanza e nella provocazione. Si discutevano piani tattici e strategici, si localizzavano i punti di attacco e di resistenza, si precisava l’ora X dell’inizio delle “operazioni”, si svesciavano, senza sottintesi, i nomi dei capi, dei sottocapi e dei fiancheggiatori della insurrezione. Alle madri si consigliava di tenere da presso i bimbi, come fanno le chiocce col branchetto dei pulcini, appena il tempo rabbruschi e minacci di dar temporale; ai fornai raccomanda vasi si provvedessero di buone scorte di farina per il caso che il rifornirsi ai mulini fosse per tornare, da un momento alla’altro, difficile; chi aveva una vendetta da compiere si fregava le mani; chi qualche conto da rendere si sentiva entrare in corpo una certa batti soffia. I poveri e i diseredati guatavano i ricchi con insolita mutria, i malviventi squadravano, con soggezione, glia genti dell’ordine, quasi a bravarli, e segnavano a dito gli arnesi di polizia, che erano in voce di sopraffattori (suvirchiusi), come a dire: “fra poco vi faremo la festa”. Dappertutto uno stato di orgasmo e di sovra eccitazione gonfio di collere, di risentimenti, di appetiti perversi, di agghiaccianti timori e di sinistri presagi. Solo le alte autorità nuotavano in un liquido ottimismo come i pesci di un indolente peschiera, incredule degli ammonimenti, che salivano dalle cose, restie a prendere quei saggi provvedimenti, che ogni pacifico cittadino suggeriva  e reclamava per arginare, se non impedire, l’imminente cataclisma. Purtroppo, l’ottimismo degli uomini di Stato è l’astuzia,onde il Destino si serve per perdere un regime. Per l’appunto, la sera del 15 settembre-mentre la chiostra dei monti intorno alla Conca d’Oro si punteggiava di misteriosi occhi luminosi sotto il cielo veleggiato da opalescenti garze di nuvole- il sindaco Marchese Starabba di Rudinì e il bergamasco Maggior Generae Camozzi, comandante della Guardia Nazionale, chiedevano udienza, nella sua dimora privata, al Conte Luigi Torelli prefetto della Provincia…..
                                                               
                                                                        ……dal libro di Giuseppe Maggiore <SETTE E MEZZO >




….1866, anno di infausta memoria per l’avvenuta sommossa settembrina, che portò, funeste conseguenze alla Sicilia, e fu causa che nella nostra provincia fosse importato il colera da le truppe, che vi furono mandate dal continente italiano per reprimere la ribellione. Strana sommossa codesta, che non si sa bene donde e per opera di chi avesse ricevuto la spinta! Senza affermare, come da non pochi è stato detto che quel movimento fu voluto o almeno secondato da coloro che reggevano allora la pubblica cosa, onde toglierne pretesto di attribuirlo alle mene dei reazionari clericali e borbonici, a fine di affrettte in modo brusco e di un colpo, la progettata soppressione de le corporazioni monastiche; cert’è però che le autorità localisia per inettitudine sia per troppas fidanza di sé stesse, non vollero o non seppero prevenire a che non prendesse pericoloso sviluppo un’insurrezione , che ben di leggieri avrebbe potuto essere soffocato in sul nascere.Fatto sta che la plebe levatasi a rumore, portò le armi e il disodine per le contrade e le vie di vari comuni dew la Provincia e segnatamente di Palermo e di Monreale. Ora in quei sette giorni di terrore, che tanto durò quella anarchia tremenda, i più autorevoli cittadini tanto di Palermo che di Monreale presero la lodevole determinazione di costituirsi in comitato di salute pubblica, onde cercar modo dio provvedere non foss’altro all’annona, far argine come meglio si potsse alle intemperanze dei rivoltosi e salvare il paese dai furori de l’anarchia. Per la qualcosa divisrono tutti d’accordo di invitare M.re D’Acquisto ad assumere la presidenza di quel Comitto come la persona più autorevole per la sua qualità di Arcivescovo. Accettò egli dunque  il difficile incarico….
E gravi conseguenze ebbe per primo a subirne il venerando Arcivescovo D’Acquisto. …

             dall’opuscolo dell’ Avv. Filippo Lorico 
<VITA DI BENEDETTO D'ACQUISTO>




Gli storiografi, interessati allo studio della rivolta palermitana del 16 settembre 1866, non sono tutti concordi sulla genesi e sul carattere della rivoluzione del sette e mezzo.   …”Questo rilievo” ed anche  per la scarsezza delle fonti, …va spiegato col fatto che la rivolta del ’66 non fu preordinata, non si svolse in base ad un piano prestabilito….ma fu una sommossa violenta, acefala e eterogenea, per il concorso di diverse fazioni, una esplosione di malcontento vasto e profondo, una reazione istintiva contro il governo, accentratore ed oppressore, e più precisamente contro <la consorteria> al potere. “




Biblioteca comunale dei libri del fondo moderno

MOSTRA DOCUMENTARIA
E
INCONTRO –DIBATTITO
SUL TEMA
“LA RIVOLTA DEL SETTE E MEZZO”
c/o Casa Cultura “Santa Caterina”
gg. 17 e 18 SETTEMBRE 2018

Esposizione TESTI:
1.     Estratto dall’Archivio Storico Siciliano - Serie III Vol. XVII RECENSIONE – Palermo 1968

2.     Nicola Giordano – STORIA E STORIOGRAFIA DEL MOTO DEL SETTE E MEZZO – Ed. I.L.A. Palma Palermo 1970 (da: Collana di Testi Risorgimentali Siciliani diretta da Gaetano Falzone)

3.     Nicola Giordano -  ANCORA SULLA GENESI DEL MOTO PALERMITANO DEL SETTEMBRE 1866 – Estratto dalla Rivista trimestrale(op. cit).

4.     Nicola Giordano – TRE LETTERE INEDITE DI CARMELO GALVAGNO A GIUSEPPE ODDO (Estratto dalla Rivista di studi storici <Il Risorgimento in Sicilia >, Palermo Gennaio-Giugno 1966)

5.     Nicola Giordano LETTERE INEDITE DI F. D. GUERRAZZI A S.G. SCARLATA Ed. G. Denaro Palermo 1966

6.     Nicola Giordano- CINQUE LETTERE INEDITE DI EMERICO AMARI A GIUSEPPE BRACCO AMARI – Estratto dalla rivista <Il Risorgimento in Sicilia> Anno VI luglio-Dicembre 197

7.     Nicola Giordano - LETTERE INEDITE DI F. D. GUERRAZZI A MARIO ALDISIO SAMMITO  - Estratto dalla rivista di studi storici <Il Risorgimento in Sicilai>, Palermo, n. 4 ottobre-dicembre 1967


8.     PALERMO ALLA VIGILIA DELLA <RIVOLUZIONE DEL SETTE E MEZZO>, quale risulta dalla pagina 355 alla pagina 371 del libro di Giuseppe Maggiore, capitolo IX (L’ORA <X> in: Giuseppe Montalbano – TOPI, CAVOUR, LIBERALI NEL RISORGIMENTO SICILIANO (1860-1861)pag. 120 XIII C 1047

9.     Seminario di Storia del Risorgimento della Facoltà di Magistero dell’Università di Palermo: IL RISORGIMENTO IN SICILIA – Trimestrale di Studi Storici – Anno I N. 3 Luglio-Settembre 1965 – S.F. Flaccovio Ed. Palermo XIIIC1287

10.                       Paolo Alatri -  LOTTE POLITICHE IN SICILIA SOTTO IL GOVERNO DELLA DESTRA (1866-74) Einaudi Ed. 1954   XIIIC 538

11.                       Alfredo Comandini – L’ITALIA NEI CENTO ANNI 1861-1870-Giorno per giorno- Ed. A. Vallardi  Milano 1929 pagg. 894-895  XIIIC 669

12.                       Giuseppe Carlo Marino - IL MERIDIONALISMO DELLA DESTRA STORICA E L’INCHIESTA PARLAMENTARE DEL 1867 SU PALERMO XIIIC 1021

13.  Salvatore Salomone Marino – LEGGENDE POPOLARI SICILIANE pag. 23 XIV C 58

14.                       Cronache di un secolo a cura di Piero Pirri Ardizzone, dalla COLLEZIONE DEL GIORNALE DI SICILIA Palermo 1959, pag. 25   XIIID 43


15.                       RIVOLTA SETTEMBRINA DEL 1866  in VITA DI BENEDETTO D’ACQUISTO  Palermo 1899 pag. 43 XVIII B 2/4

                                           
                                     













In Biblioteca,  Incontro - dibattito sul tema col Professore 
Elio Di Piazza per il  Centro Zabut















 LIBRI IN BIBLIOTECA...

Era L'Ora 
Il giornale che fece storia e scuola 
a cura di Michele Figurellia e Franco Nicastro




L’Ora di Palermo non fu solo una testata giornalistica. Fu un laboratorio di idee, un luogo di confronto vivace e irriverente, un presidio e uno strumento di battaglia civile, un punto di riferimento culturale e politico in un momento di grande cambiamento sociale locale e nazionale.
Tra il 1954 e il 1975 il giornale L’Ora di Palermo fu diretto da Vittorio Nisticò. Fu un’esperienza di grande valore storico, politico e giornalistico. Il giornale svolse un ruolo riconosciuto di strumento di progresso civile e fu un punto di riferimento per le battaglie contro l’intreccio di poteri e interessi tra la mafia e la politica in una fase di sviluppo e di trasformazioni della società siciliana. Riuscì a dare alla sua identità di sinistra la connotazione di un’apertura verso le forze democratiche. L’arrivo di Nisticò alla guida del quotidiano segnò, infatti, una svolta. Dalla grafica alla selezione delle notizie, la testata subì dei mutamenti tali nella produzione di inchieste, da vederla sempre più vorticosamente impegnata in prima linea nella battaglia contro il fenomeno mafioso in Sicilia. Pubblicazioni regolari e inesorabili di fatti, foto, nomi, collegamenti tra politica e cosche siciliane, Il 19 ottobre del 1958 la Mafia si fece sentire: al sede della redazione saltò in aria. Il giorno successivo L’Ora titolò: La mafia ci minaccia, l’inchiesta continua. Tutta l’Italia e persino una fetta di mondo con il fiato sospeso ormai ne seguivano appassionatamente i dossier e le vicende. La sua capacità di dare alla lettura dei fatti locali un respiro nazionale  e internazionale, riuscendo a suscitare l’attenzione delle grandi testate e l’interesse del cinema e della televisione, gli valse il riconoscimento di essere una prestigiosa scuola di giornalismo e una vera e propria “fabbrica delle notizie”.



Vittorio Nisticò: "ACCADEVA IN SICILIA" Gli anni ruggenti dell'<Ora> di Palermo


<Comunicare la notizia, ma anche l’emozione>. Era questo, secondo il giudizio di un suo giornalista, la formula dello stile (e del successo) di un giornale sicilaino, antigovernativo per nascita e vocazione, restato nella memoria e nella storia. <L’Ora> quotidiano della sera, era nato a inizio del ‘900, organo della nuova borghesia antiprotezionistica emersa a seguito della fortuna dei Florio; aveva poi attraversato il Fascismo, divenendo, fortuitamente ma inesorabilmente, un centro di viva opposizione fino a che aveva potuto. Ma la stagione di gloria venne nel dopoguerra, dopo la lunga depressione del Fascismo. La Sicilia giocava la carta della sua rinascita, L’autonomia regionale, la riforma agraria, la tentata industrializzazione, il poco di miracolo economico precipitato nell’isola: <L’Ora> ebbe la capacità e l’opportunità di connettersi a quel rinnovamento, divenendo voce di tutti gli ambienti che esprimevano desiderio di novità, e si aggrappavano al giornale come alla fonte di una libertà di parola riacquistata dopo tempi di silenzio vissuti come immemorabili; collocandosi anche nella prima linea della polemica contro la faccia negativa di quel rinnovamento: la nuova Mafia, l’emergere del sistema di potere clientelare, la nascita dei nuovi potentati economici abbarbicati alla spesa regionale e meridionalistica, la resistenza dei ceti feudali. 1955-1975 un ventennio di giornale in mano a un solo direttore, Vittorio Nisticò. Che seppe circondarsi di tre generazioni di collaboratori, rappresentanti forse il meglio dell’intellettualità, oltre che del giornalismo siciliano: e il loro elenco rende semplicemente riassunto di una fetta importante della storia della cultura e della stampa nazionali fino ad oggi. Essi fecero del loro giornale il portatore di due primati. Uno tragico: il maggior numero di giornalisti uccisi nella storia forse della stampa italiana. Uno frivolo: il foglio di informazione più cinematografico. Attraverso gli editoriali del direttore, una cronologia ed un elenco ragionato dei principali servizi giornalistici dell’intero ventennio, questo libro ricostruisce la storia anche più intima dell’<Ora>. Che diventa in realtà, come sempre quando si racconta della vita di un giornale, documento di riflessione del nostro passato, recente e già in pericolo di entrare nella zona grigia dell’oblio. La storia, cioè, attraverso la notizia, ma anche l’emozione.

Nel 1973 al direttore e alla redazione dell’<Ora> venne assegnato dai giornalisti milanesi il tradizionale <Premiolino>, con riferimento all’attività e al ruolo svolto in molti anni difficili: <A Vittorio Nisticò de “L’Ora” che, insieme ai suoi giovani redattori, da molti anni sostiene con coraggio e con un giornalismo tecnicamente molto efficace una battaglia civile quotidiana contro la mafia e contro la collusione fra le forze della criminalità e il sottogoverno, contribuendo a migliorare  il livello sociale e culturale della Sicilia, Con Nisticò premiamo anche il sacrificio e il coraggio di alcuni suoi redattori che, unici nella storia del giornalismo italiano, del dopoguerra, hanno pagato con la vita la coerenza ai loro impegni e l’amore al loro mestiere>.

(Libri in Biblioteca) DALLE PAGINE DE L’ORA

LA SFINGE di Luigi Capuana

STORIE DI PROVINCIA di Nino savarese



ALL'ALBA DEL SECOLO di Napoleone Colajanni



LETTERE ALLA SICILIA di Piero Gobetti



ALTA SOCIETA' di Matilde Serao



RACCONTI SICILIANI di Capuana-Verga-Pirandello





Libri in biblioteca……


FEDERICO II E LA CULTURA DEL DUECENTO IN SICILIA



“SALSE, SPEZIE E VINO PER UN BANCHETTO"
                                                                                            di Marisa Buscemi
pag. 225


… attraverso un breve excursus storico-alimentare si può giungere al banchetto federiciano simbolo socio-gastronomico di quel sincretismo latino-barbarico cui va anche riannodata la novità progettuale dell’epoca federiciana. Una novità che consiste in due interessanti, inconsapevoli, linee programmatiche da cui si organizza nel tempo l’embrione di altrettante modalità di studio sugli usi alimentari, una più scientifica che si afferma nel XIX secolo, che è la scienza dell’alimentazione, un’altra più legata al piacere del cibo che alla necessità di introdurlo, che è la gastronomia.
Si può affermare infatti che tutte due gli indirizzi trovano la loro origine nel regola sanitaria salernitana, dove ai consigli dietetici di tipo medico si associano anche consigli di tipo squisitamente gastronomico. Dal Flos Medincinae Salemi, che è il frutto della sintesi operata da collaborazione dei docenti della Scuola salernitana di cui era protettrice Santa Caterina, si possono attingere informazioni sui rimedi generali; ama anche sul modo di dar conforto al cervello, sull’opportunità di dormire al pomeriggio, o di che cosa si debba mangiare a cena, quali siano i cibi nutrienti o ingrassanti, le qualità del vino rosso e bianco, i rimedi contro i veleni; sull’uso della birra, su come si debba cambiare l’alimentazione in relazione alle stagioni; ancora, sulla nausea marina, o sull’opportunità di lavarsi le mani e mille altri consigli sulle proprietà terapeutiche, oltre che gastronomiche, di molte erbe. Ed è proprio attorno al XII-XIII secolo che guardando all’alimentazione si osserva una sorta di riappropriazione di un certo modo di alimentarsi della popolazione nella nostra penisola. Ed è veramente interessante come dalle variazioni dell’alimentazione, che certamente non può essere considerata in maniera troppo semplicistica come bisogno legato soltanto all’istinto di sopravvivenza, dalla conoscenza tout court del <modo di mangiare> riflettano numerose informazioni sui più svariati aspetti della vita di tutto un popolo; dall’assetto economico a quello sociale, da quello politico a quello culturale, e se addirittura è vero che < l’uomo è ciò che mangia>, come afferma Fuerbach, è certo che dai cibi che esso consuma è possibile desumere parecchie notizie non soltanto di carattere materiale ma anche spirituale. Si diceva che la conoscenza degli alimenti, e l’uso o il non uso di essi, ha sviluppato una vera e propria scienza dell’alimentazione che avvalendosi di conoscenze molto specifiche di chimica, biochimica, biologia, si afferma soltanto come scienza al principio del nostro secolo. La gastronomia raggiunge prima il traguardo affermandosi nel sedicesimo secolo anche se una civiltà come quella greco-romana conobbe i grandi fasti di una cucina alquanto raffinata (non per niente ancora oggi parliamo di <pasti luculliani>) e ciò fu espressione dell’alto grado socio-economico raggiunto.
Il perno dell’economia e della cultura dei greci e dei romani erano l’agricoltura e l’arboricoltura. La terra coltivata dall’uomo gli offre prodiga messi e frutti e l’ager è fecondo di viti e ulivi e perciò regala prezioso vino ed olio. L’ager, spazio occupato dall’uomo, vicino alla civica proprio perché il cives possa usufruire di prodotti da lui voluti, nati col suo lavoro; un perimetro lontano dal salus, dal bosco, dalla natura vergine e incolta che si contrappone alla civica sede di civilista. Si era ben lontani dai tempi <gastronomici>, si fa per dire, di Galla Placidia, quando i cinque milioni di italiani mangiavano radici e frutti selvatici ed alcuni cronisti dell’epoca riferiscono addirittura di fenomeni di cannibalismo. O quando uno dei successori di Clodoveo, re Childeberto vissuto nel VI secolo, vuole scacciare da un terreno boschivo il monaco Carileffo che lo aveva messo a coltura , e che in segno di pace gli aveva offerto del vino. Il re lo rifiutò dicendo che non avrebbe bevuto quel succo volgare: In quei tempi si andavano affermando più gli usi di quei popoli che già i romani avevano chiamato <barbari>, dei Celti, che prediligevano la caccia e la pesca e raccoglievano frutti selvatici, che bevevano birra e non vino e sidro spremuto direttamente dai meli selvatici. Gli animali quali maiali, cavalli e bovi erano in allevamento allo stato brado, una sorta di riserva di caccia, e tutto ciò rappresentava il fulcro della loro rudimentale economia. Così, via via si contrappose anche in Italia alla raffinata civiltà greco-romana tutta improntata sulla agricoltura, dove il mito era rappresentata da Demetra madre che elargisce messi e viti e biondo olio, una civiltà dove il mito celtico è rappresentato da un gigantesco <Porco> nutrito per sette anni col latte di seicento vacche o il mito germanico dove il Paradiso era il luogo dove si sarebbe assaggiata l’inesauribile carne del Saehrimner, il grande Maiale:<Esso, si legge, ogni giorno viene bollito ed è di nuovo intero la sera>.
Un conflitto quindi, uno scontro tra due civiltà che si contrappongono e in tempi di grandi guerre e carestie, che come riporta Montanari furono 29 tra il 750 e il 1100, se consideriamo le grandi carestie che coinvolsero tutta l’Europa tralasciando quindi quelle locali praticamente incalcolabili. Il grande contrasto è dato dal consumo dei prodotti coltivati o di quelli per così dire selvatici. Mentre la cucina antica raggiunse un alto grado di raffinatezza  ed elaborazione, dove la base era costituita da farinate, pane, vino, olio, verdure, latte e formaggio, e la carne rappresentava una minima parte, malgrado certe abitudini che oggi giudichiamo alquanto disgustose come l’uso indiscriminato del garum, la cucina dei barbari, quella che insensibilmente si afferma fino all’XI secolo, è rozza e prevalentemente basata su uno smodato uso della carne e di grasso animale.
Attraverso questo confronto dei due modi di alimentarsi un brevissimo viaggio ci porta all’epoca di Federico II, quando appunto comincia una rinascita in senso lato. La cucina greco-romana era caratterizzata, come già detto, dall’uso del garum come indispensabile condimento. Era il garum un succo assai denso che prodotto dalla macerazione sotto sale delle interiora di pesce veniva mescolato ad ogni sorta di ingredienti: timo, coriandolo, origano, ruta, salvia, cannella, menta, maggiorana, pepe, scalogno, inula, finocchio, ginepro, il silfio e il ligusticum ed altro ancora; tutto veniva pestato e mescolato con olio e aceto e anche con miele, per inumidire il cibo cotto o per essere utilizzato come liquido di cottura. Un uso che oggi giudichiamo disgustoso o addirittura nauseabondo ma che bisogna considerare attraverso una analisi critica, come suggerisce in un interessante saggio l’antropologo Marvin Harris. In Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari egli scrive: <Le differenze sostanziali tra le cucine nel mondo si possono far risalire a condizionamenti ambientali e alle diverse possibilità offerte dalle diverse zone.> E racconta la sua traumatica esperienza di grande bevitore di latte nell’apprendere che i giapponesi ritengono questa bevanda addirittura disgustosa. Quindi si può affermare che malgrado il garum la cucina antica raggiunge un alto livello e conosce il suo culmine con Apicio.



L’identificazione di Apicio fra l’altro non è nemmeno certa ma si pensa che debba trattarsi di quel gavio Apicio nato nel 25 a.C., famoso per i banchetti e per i corsi di culinaria che amava organizzare per i giovani seguaci. E’ chiaro comunque che l’importanza di questo trattatello risiede più che nella precisa identificazione dell’autore, nella possibilità di un raffronto con i <gusti> passati e futuri. Se è possibile affermare che vi fosse già a quell’epoca una <coscienza > bisogna pur riconoscere che vi era una certa cura nella scelta degli ingredienti nel tentativo di raggiungere quell’armonia di sapori che sta alla base della vera ricerca gastronomica che soltanto così diventa scienza e che come tale tarda ad affermarsi, bisogna infatti aspettare, come già detto, il sedicesimo secolo. Dalla <buona> cucina greco-romana si passa impercettibilmente attraverso secoli di invasioni barbariche ad epoche in cui procurarsi il cibo, anche un minimo sostentamento, diventa un problema . la maggior parte di terreni furono abbandonati e con essi le coltivazioni e si giunse all’assenza di un vero e proprio ordinamento socio-economico. Via via che la società si riorganizzava si costituiva una sorta di <economia domestica> basata sulla costituzione di un rigido ordinamento ormai feudale dove una elite molto ristretta, posta all’apice di una piramide costruita da una moltitudine di lavoratori, che si dovevano accontentare di poco, si affermava come classe dominante. Si raggiunge questa <organizzazione> durante il 1000.
E’ soltanto tra il 1000e il 1300 che la situazione socio-economica dell’Italia comincia ad avere una lenta ripresa grazie soprattutto al ritorno all’agricoltura e quindi anche l’alimentazione ricomincia ad avere un indirizzo più sano, con l’introduzione dei prodotti dell’orto, oltre la carne che ha dominato l’alimentazione di tutto l’alto medioevo. Certo una ripresa lunga e difficoltosa segnata da guerre e carestie. E’ per lungo tempo che il ricordo della fame subita segna il modo di alimentarsi della popolazione: un modo dove la quantità prevale sulla qualità, magiare vuol dire potenza, potenza vuol dire mangiare molto, è un circolo vizioso che domina la scena tragica memoria degli stenti patiti. A questo proposito è significativo l’aneddoto riportato dallo scrittor  Liutprando di Cremona nell’Antapodis. Vi si dice che Guido da Spoleto doveva essere incoronato dal vescovo di Metz re dei Franchi ma che essendo giunta la <cattiva fama> delle sue abitudini molto parche gli si preferì Eude, gran mangiatore.
Non solo il potens deve mangiare ma deve mangiare carne; cosicchè si produce una profonda divaricazione tra il desinare dei meno facoltosi che fra l’altro <fanno peccato se si fanno preparare cibi più raffinati di quanto richiede la loro condizione>, e quello dei ricchi. Possiamo tra l’altro affermare che esisteva a quei tempi una vera e pro0pria <dieta monastica> dove il consumo del cibo veniva strettamente correlato alle scelte ideologiche dei religiosi che si basavano soprattutto sulle rinunce a carattere rituale (il venerdì non si mangia carne, durante la quaresima nemmeno e così via), rinunce variabili per intensità e individualmente in relazione al grado di ascesi che vuol essere raggiunto, che è direttamente proporzionale alla privazione-rinuncia che include ovviamente il cibo. Infatti questo, non legato soltanto al bisogno della sopravvivenza ma anche al gusto e quindi al piacere diventa peccato; così si deve introdurre di regola l’indispensabile per vivere e nell’ottica della rinuncia meno dell’indispensabile. Così le <diete monastiche> (almeno ufficialmente) non erano molto ricche. La carne era messa al bando, forse collegata al desiderio sessuale o forse perché come scrive Montanari: <L’eden era vegetariano. Dopo aver creato l’uomo e la donna, Dio assegnò loro per sostentamento ogni pianta che fa seme, su tutta la superficie della terra, e ogni albero fruttifero, che fa seme>. Quindi è proprio nei conventi che rinasce la coltivazione dei campi e quel modo di alimentarsi non soprattutto di carne dei barbari ma una alimentazione varia dove i vegetali hanno una parte importantissima. E quindi la ricerca del cibo idoneo alla rinuncia diventa ricerca gastronomica che porta i germi di un nuovo modo di concepire il cibo. La distinzione dei vari tipi di alimentazione in relazione alla condizione socioeconomica non è certo tipica soltanto del medioevo, anzi c’è da dire che forse non è questo il periodo delle più grandi differenze; si verifica comunque in ogni epoca una distinzione tra cucina ricca e cucina povera, più simile quindi a quella monastica, più per necessità che per scelta. Dove la sostanziale differenza tra le due è determinata dal fatto che la cucina povera sfrutta le risorse locali e si tramanda come patrimonio familiare, soprattutto in linea femminile, quella ricca è invece frutto di ricerca e sperimentazione che utilizza anche e soprattutto materiali esotici. E’ chiaro che il tipo di cucina prevale in epoca di regressione economica, dovendosi considerare l’altra un genere di lusso. Cosicchè proprio l’epoca barbarica, dimentica della raffinatezza della <cucina antica>, si accosta ad una cucina più tradizionale, più semplice la cui unica distinzione è data dalla quantità. E’ facile tra boschi non coltivati procurarsi grandi scorte di carni di ogni tipo, infatti vengono descritti i convivi degli Unni, dei Visigoti, dei vandali come orge di carni arrostite. La ripresa di un certo <gusto gastronomico> torna appunto con i banchetti nel basso medioevo dove persiste la connotazione delle grandi quantità di cibo, soprattutto carne, affiancata da un certo gusto della sorpresa nella presentazione dei vari piatti. Un banchetto tipo medievale non aveva meno di 18 portate. Alla voce carne si intendevano molti tipi di essa: cervo al pepe, spalla di cinghiale, orso farcito, pavoni arrosto e cigni arrostiti, polli al lardo e capponi con salsa garofanata, poi la caccia: lepri, conigli, gru, aironi,fagiani, colombi e cosi via e dolci al miele, focacce confetti, torte, pane speziato, e frutta che spesso veniva offerta all’inizio del pasto. Ancora Biancomangiare (petto di pollo, datteri, fichi, melograni) e la <cubaita>.
Il banchetto è luogo di socializzazione, è luogo dove si può ostentare la propria ricchezza e potenza. Cosicchè il fulcro della casa medievale anche nell’epoca federiciana è la sala ricca di stoffe  e splendente di luci dove il signore può mostrarsi in tutto il suo sfarzo. Nemmeno alla corte itinerante di re Federico <meraviglia del mondo si può parlare di una arte culinaria, anche se già in quegli anni il gusto e gli usi alimentari cominciavano a d avviarsi alla rinascita. Anche se erano stati ripresi molti metodi di cottura, ritornava infatti l’uso degli umidi, già acquisito in epoca romana e perduto in seguito, il cibo era prevalentemente cotto sul fuoco previa lessatura e la preoccupazione più grande rimaneva quella delle enormi quantità come retaggio barbarico. Tutto è stato preparato nelle ampie  cucine da esperti e timorosi cuochi, preoccupati di rendere saporite le carni selvatiche che alla corte di Federico erano sempre fresche e di giornata. L’aglio, il rosmarino, il timo, la salvia e quant’altro possa consegnare ai signori un adeguato companagiu.
Federico gusta soltanto i cibi più raffinati che venivano anche da molto lontano. La sua frugalità era dovuta ai consigli medico-dietetici di Teodoro.Si dice che mangiasse una sola volta e che si sottoponesse a lunghi periodi di digiuno non certo per motivi religiosi. Federico per essere potente non ha bisogno di mangiare; egli è imperatore consacrato da Dio ed è lontano il tempo i cui suoi stessi avi dovevano affermare la loro mal tollerata potenza anche attraverso il consumo smodato della carne. Egli rimane a guardare e permette che alla sua corte si diano ugualmente festosi banchetti dove alle grandi quantità di carne si aggiungono una grande quantità di aromi e spezie. Un uso, anzi un abuso, che non corrisponde affatto, secondo alcuni autori, ad una raffinatezza gastronomica quanto ad una vera e propria necessità di sofisticazione di merce quasi vicina alla putrefazione . Quindi grande protagonista dei banchetti federiciani è l’enorme fiamma che lambisce lunghi e carichi spiedi e accoglie nella brace morente grandi ricettacoli per la cottura delle verdure e di legumi. Sfilano davanti alle dame abbigliate con audaci abiti ornati di candidi ermellini e ai non meno vanitosi cavalieri vestiti di seta e raso, ampi e pesanti vassoi d’argento colmi di ogni sorta di cibarie; vere e proprie piramidi di frutta: carni dorate e fumanti cervi, cinghiali, caprioli contornati di oche, pernici e volatili d’ogni genere che il primo servitore presenta e taglia davanti al signore. Seduti davanti ai bassi tavoli, <banchetti>, i convitati mangiano a due nello stesso piatto, usano pugnali e coltelli o prendono il cibo con le mani che frequentemente risciacquano in catini portati dai servitori. I piatti sono d’oro alla corte di Federico che siede ammantato di porpora e d’oro e tutto è innaffiato generosamente dal vino, la bevanda più consumata a quell’epoca. L’ubriachezza è quasi uno stato normale; il bere è il vizio del tempo tanto che gli astemi vengono considerati degli eccentrici. Questa abitudine rimane per tutto il medioevo, anzi viene addirittura consigliato nella regola sanitaria salernitana dove si legge: < Si tibi serotina noceat potatio vini, hora matutina rebibas, et erit medicina> (se hai avuto fastidi dal bere della sera precedente, al mattino bevi e questa sarà la medicina). I vini attinti dai coppieri con catini d’argento, a corte, scivolano nelle coppe spandendo intensi e inebrianti profumi dovuti alla aromatizzazione del vino che veniva migliorata attraverso l’aloe, l’issopo., il mirto. L’assenzio. E sono aromatiche le spezie che intridono le carni ad invitare ancora e ancora al bere e ancor più forti  <le salse> che accompagnano il pesce che viene anche normalmente servito insieme alla carne. Si parla di un banchetto dove fu servito un asinello arrosto farcito di uccelletti, anguille ed erbe aromatiche. Tra le salse, avevano una assoluta preminenza l’agresta e la camellina.
L’agresta ha una base acida che viene preparata in anticipo (il nostro salmoriglio). La base acida può essere rappresentata dall’acetosa o dal limone o succo d’uva verde. La camellina è invece a base di cannella, zenzero, garofano, pepe e vino aspro, oppure si miscelava con la stessa agresta. Sono salse che vengono messe prevalentemente nel pesce, per lo più anguille, seppie, polpi, sarde, tonno e gamberi. C’è fra l’altro da considerare che motivi di carattere religioso ne favorivano il consumo  e d’altra parte le acque pescosissime erano una riserva inesauribile di cibo soprattutto per le classi meno abbienti. Il piatto festivo del popolo era la galimafree probabilmente qualcosa di molto simile anche al tempo di Federico II: una sorta di zuppa che conteneva carne trita, pollo, lardo, vini, spezie, agresta e camellina. Purtroppo del periodo, come della maggior parte del medioevo, non si dispone di fonti scritte sui pasti consumati di consueto, ma rimangono le descrizioni dei pasti festivi. Solo dal trecento, infatti, compaiono, oltre le traduzioni di Apicio, che costituiscono una fonte autorevole per quanto riguarda la cucina antica, nel 1306 un Tritè ou l’on enseigne a faire et à appareller et assaissoner toutes le vivande selon divers usage de diverse pays  e soltanto nel 1310 possiamo considerare il primo vero gastronomo Guillaume Turel detto Taillevent. Si può comunque pensare che il pane, insieme con il vino, costituisce il principale alimento dei poveri. In Sicilia era pane di frumento mentre l’orzo veniva usato per il bestiame. Bisogna qui fare una piccola sottolineatura riguardo al pane che veniva fatto con qualunque farina: di miglio, di orzo, avena, farro, spelta, panico, sorgo e segale, che attraverso, che attraverso il fungo infestante procurò tanti malanni. Più comunemente le farine meno adatte alla panificazione venivano adoperate al nord d’Italia per farne palmenta. Ancora si usava il formaggio duro e molle che era ritenuto alquanto pesante alla digestione; inoltre da verdure  e probabilmente dal <malcoquinato>. In una grossa pentola si mettevano a bollire interiora e carni secondarie; testa, ventri, piedi di vari animali,  e che venivano venduti dagli scrifizari, più per evitare al bere che per vero nutrimento. Non certo piatti d’oro o d’argento alla mensa dei poveri, come nei banchetti all’ombra dei lussureggianti giardini dei ricchi, ma piatti di legno o tutt’al più di peltro e non certo pasticci di caccia, o vino di Cipro, alle carestie, alle epidemie e alla generosità dei ricchi. Così villani e cittadini ammirati e timorosi vedono passare Federico che cavalcando, alle spalle una nuvola di densi e stuzzicanti profumi, si sposta con la sua corte da castello in castello ed è seguito da dame appena velate ed eunuchi e dal suo amatissimo serraglio dove è possibile ammirare un elefante, la giraffa, e un leopardo che tiene al guinzaglio e così consuma una esperienza unica al mondo come uomo e come re. Tra poesia e guerra, vivendo nel lusso, abbigliato da porpora e d’oro ma proteggendo il misticismo povero dei francescani, tra filosofi e scienziati, scienziato egli stesso e studioso del volo dei falconi tanto da poterlo considerare oggi anche sotto la veste di etologo, un lontano Lorenzo, egli scrive infatti il trattato della falconeria, in guerra come crociato, in lotta con i papi, egli incarna una delle umanità più contrastanti della storia medievale; odiato e idolatro, il re bambino dà ordine che gli preparino le violette candite, che riteneva cariche di forza terapeutica, per il suo arrivo, mentre accarezza il suo inseparabile falcone.   







Presentazione libro in biblioteca

"ERA DI PASSAGGIO
CRONACHE, CURIOSITA', ARTICOLI SU Peppino Impastato"

di Salvo Vitale




Salvo Vitale ha condiviso con Peppino la militanza politica, le scelte e i momenti di lotta, all’interno di un personale rapporto di amicizia che lo ha impegnato costantemente a conservarne la memoria, a tutelarla e a farne comprendere la sua attualità. In questo senso, Era di passaggio. Cronache, curiosità, articoli su Peppino Impastato rappresenta il contributo più completo dell’autore, che ha raccolto e pubblicato materiali di origine differente, dalla stampa, sia cartacea che digitale, a stralci di discorsi pubblici, associati tra loro a formare un profilo complesso, non solo di Impastato ma anche della società dei nostri giorni. Un percorso che segue più binari, da un lato guardando agli anni ’70, alla sua ostinata convinzione nel proporre modelli culturali ed educativi diversi rispetto alle pratiche mafiose, e di individuare nuove  linee guida per “fare informazione”, in una terra dove era forte lo scontro con la cultura del silenzio, sia nel pubblico che nel privato, Dall’altro, l’autore si sofferma su empi più recenti, informando il lettore delle tante occasioni in cui la figura di Peppino è stata mistificata, ignorata, quando non offesa, negli ambiti più vari, dalla toponomastica, alla scuola pubblica, al mondo della pubblicità.

FLASH SU PEPPINO

Appena trent’anni. Un uomo capace di suscitare forti sentimenti d’amore e di odio in chi gli stava vicino. Dirigente politico di una struttura inesistente, ma che aveva saputo creare un’area dl dissenso, togliendo dalle case di alcuni mafiosi i loro figli e riuscendo a dar loro una coscienza politica: un uomo con le sue debolezze, la sua solitudine, il suo apparente vuoto di affetti, il suo bisogno di compagnia, la sua sessualità inesplicata, il suo sorriso sornione, a sua epidermica ribellione a qualsiasi forma di prepotenza e di conformismo:
“ Di molti non si parla più, di lui ancora. Ha lasciato un segno profondo in tutti quelli che l’hanno conosciuto, nella gente integrata, che lo riteneva un folle, negli amici che ne condividevano le scelte: una dimensione umana, quasi sempre occultata da quella politica: dietro l’immagine del militante rivoluzionario, del provocatore, del dissacratore di norme e persone intoccabili, c’era un uomo profondamente tormentato. Lo studio del pensiero esistenzialista, la lettura dei tanto amati “poeti maledetti” francesi, la riflessione sui testi di Marcuse e sulla produzione dell’uomo in rapporto a se stesso e agli altri in una società dove le strutture dell’accumulazione e della prevaricazione avevano distrutto il senso dell’esistenza libera e lo avevano relegato in “una dimensione” di negazioni. Riusciva ad immergersi in profonde tristezze e imprevedibili risposte di reazione. Ma c’era anche la voglia costante di provocare per scuoter le imbecillità e sfottere le chiusure di squallidi schemi mentali.
………
Coacervo di contraddizioni, voglia di vita, voglia di morte, fiuto del senso di qualsiasi fatto, capacità di esagerazione mitica dei personaggi, voglia di parlare, voglia di star solo. Su questa contraddizione si gioca anche l’ultimo scorcio della vita di Peppino: da un lato le istanze impetuose sul “riprendiamoci la vita” dl movimento del ’77, dall’altro la voglia “storica” di continuare a intervenire nel sociale, fuori dall’oppressioen mafiosa e dagli schemi del “personalismo”, spacciato per scelta politica.




















Libri in Biblioteca….


"PROTEGGERO' QUESTA CITTA'..."
Fede e cultura di un popolo: <Il Crocifisso di Monreale>



FERVORE DI ATTIVITA’ E PARTECIPAZIONE POPOLARE
di Giuseppe Schirò


Il Concilio di Trento, avendo posto come causa della giustificazione la “santissima passione di Cristo sul legno della Croce” aveva confermato  e rafforzato il culto e la venerazione verso il Crocifisso, che può considerarsi il filo conduttore della vita e dell’ascesi cristiana, San Carlo Borromeo, (1538-1584) prescelto a semplificare ed a divulgare gli insegnamenti del Concilio di Trento, dava nel Catechismo Romano, pressanti norme ai pastori delle anime  “Il parroco curi con la massima diligenza affinchè i fedeli rinnovino nel loro animo spessissimo il ricordo della Passione del Signore, come insegna l’Apostolo che affermava non sapere altro che Gesù Cristo e questi Crocifisso. Perciò in questo argomento bisogna dibire ogni cura ed opera, affinchè esso sia illustrato il più possibile; ed i fedeli, mossi dal ricordo di così grande beneficio si convertono interamente all’amore di Dio verso di noi ed a riceverne la bontà”. Ed ancora “Bisogna insegnare al fedele che si confessa che non permetta che passi alcun giorno senza meditare qualcosa sui misteri della Passione di Nostro Signore e che si ecciti e si infiammi ad imitarlo e ad amarlo col più grande amore”. A lui fa eco un altro grande trascinatore delle folle, s. Alfonso dei Liguori (1694-1775), nelle “Riflessioni sulla Passione” ed il suo contemporaneo s. Paolo della Croce (1694-1775), fondatore dei Passionisti. Sono solo esempi scelti da un ampio contesto, che è dato dall’indirizzo generale della fede e della pietà cristiana. Ed a conferma della risposta data dal popolo cristiano a tali stimoli basta citare il favore riservato all’opera di frate Umile di Petralia, (1601-1639) che proprio negli stessi anni in cui il Venero operava a Monreale, scolpiva i suoi numerosi Crocifissi che si diffondevano in Sicilia e fuori. Lo storico non può misurare gli effetti spirituali della fede, ma può registrare fatti e comportamenti documentati che scaturiscono da questa fede.
La venerazione verso il Crocifisso è il filone principale della religiosità popolare a Monreale e questo sentimento ispira opere ed attività diverse, ma ha la sua massima espressione nella celebrazione della festa, che culminava nella processione.
La processione del Crocifisso dall’epoca del Venero in poi, divenne un avvenimento sempre più importante. Il giorno 3 maggio essa polarizza tutta la cittadinanza ed ha la precedenza su ogni altra processione, compresa quella della s. Spina che da tempi precedenti si teneva la prima domenica di maggio. Quando si fosse verificata quella coincidenza, la processione della Spina doveva farsi di mattina per lasciar libero il pomeriggio alla processione del Crocifisso. Abbiamo visto che una Deputazione formata da canonici funziona almeno dal 1654. … una Deputazione formata da canonici funziona almeno dal 1654. Ad essi si affiancano poi dei laici. I deputati venivano eletti il 10 maggio, nel contesto del rinnovo delle cariche capitolari: era una carica permanente e non messa in funzione nella immediata vicinanza della festa. La festa, ovviamente, assume ben presto, aspetti anche esteriori di esultanza popolare.

La “vara” veniva conservata in apposito locale. La sua costruzione era a carico del Comune o dei privati o del Capitolo, come avviene nel 1706. In quell’anno infatti, i fratelli Andrea e Gaspare Bisagna e Nunzio Di Paola, che già conosciamo quale autore del tabernacolo  del sacramento, scultori palermitani, costruiscono per conto del Capitolo una “vara nuova”. Questa vara era particolarmente robusta ed adorna, di forma quadrata. Su una struttura di legno di castagno erano applicati gli esterni di legno di pioppo che comprendevano due piani sovrapposti divisi da una balaustra. Agli angoli, quattro angeli scolpiti in legno, con un ero in una mano e con un simbolo della Passione nell’altra. Sopra la balaustra quattro puttini, uno per ogni lato. Al centro un monte, per innestarvi la croce, ai cui piedi due puttini in preghiera. Ai quattro lati del monte vi erano quattro scudi con lo stemma della città di Monreale. Costo complessivo onze 40. Onze 50 è invece il costo dell’indoratura della stessa vara eseguito in oro zecchino puro, non lucido, da artigiani monrealesi e palermitani. Oltre la consueta processione annuale del 3 maggio vi erano le processioni penitenziali specialmente per l’invocazione della pioggia, che si svolgevano nel rispetto del Rituale romano e che quasi sempre erano sollecitate dal popolo, tramite il Pretore ed i giurati. Questa usanza non apparteneva solo a Monreale, ma era propria di vari altri centri, come Collesano, dove si venerava un’immagine del Crocifisso scolpita proprio dal frate Umile da Petralia ed in vari altri centri ancora. A rendere più solenne il culto contribuivano donazioni ed offerte. ....








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LE FESTE DI PASQUA

di Antonino Buttitta





I TEMPI
di Antonino BUTTITTA

da pag. 6

Il nostro è un vivere nel tempo. Niente però più di questa immediata evidenza è lontano alla nostra coscienza. Eppure, se vogliamo., la nostra vita si identifica con il tempo, o meglio, la vita e la morte sono le prime e fondamentali discrezioni che noi introduciamo nello scorrere indefinito del continuum, temporale. Questa è la prima esperienza che noi abbiamo del tempo e su questa organizziamo, attraverso la variabile dei nostri comportamenti sociali e individuali, le successive articolazioni che ci portano come singoli e come comunità a sovrapporre al tempo cronologico indefinito il tempo storico finito. Questa nuova realtà, che è quella all’interno della quale operiamo, ci vede attori consapevoli o inconsapevoli ed è da questo diverso modo di porci di fronte a essa che si originano due ritmi temporali diversi: il tempo vissuto e il tempo strutturato. L’individuo che si dispone passivamente di fronte al tempo e che rinuncia al suo controllo restandone alla fine soggiogato, si muove nella dimensione del vissuto. Chi al contrario organizza consapevolmente la propria esperienza del mondo, si interroga su di esso e sul senso dei propri atti, agisce a livello del tempo strutturato. Naturalmente è impossibile fare divisioni nette. Non ci sono individui perennemente disposti nel senso del vissuto e altri nel senso dello strutturato. Piuttosto nel corso della giornata di ciascun individuo si ha il prevalere dell’uno o l’altro atteggiamento, dunque del tempo vissuto o del tempo strutturato. Queste precisazioni sul tempo, o meglio, sui diversi nostri modi di sperimentarlo, si rendono necessarie per capire il diverso di una ulteriore distinzione del tempo che noi siamo soliti fare e vivere, quella di tempo sacro e di tempo profano. Una prima approssimazione al problema può portare alla erronea impressione che il tempo sacro sia assimilabile al vissuto mentre il tempo profano allo strutturato. In realtà tanto una visione consapevolmente laica quanto una concezione intensamente religiosa della vita sono profondamente calate in una dimensione fortemente strutturata del tempo. Il tempo sacro anzi è una marcatura ancora più decisa del tempo cronologico. Il tempo profano è un tempo costretto in unità di misura e un tempo fissato nello spazio.<Fissandosi nello spazio il tempo diventa omogeneo. Noi contiamo le ore, i minuti,, i secondi: in altri termini, li consideriamo cose uguali. In realtà non sono cose e non sono eguali; diventano tali soltanto nello spazio. Il tempo omogeneo, misurato in ore, giorni ed anni, è soltanto un simbolo del tempo propriamente detto, della durata. Ora nella durata ogni istante ha un valore proprio. Sul quadrante tutti i minuti si identificano l’uno con l’altro nella durata, ciascuno ha un significato particolare, come ogni nota ha il suo valore in una melodia> (Van der Leeuw). Il tempo profano è necessariamente omogeneo perché la concezione profana del tempo è meramente quantitativa. Al  contrario il tempo sacro è eterogeneo  perché si fonda su una discrezione qualitativa del continuum temporale. <Ina altre parole, si scopre che il tempo ha un’altra dimensione, che possiamo chiamare ierofanica, grazie alla quale la durata in sé acquista non solo una cadenza particolare,, ma anche “vocazioni” diverse, “destini” contraddittori (Eliade). <La durata è il grande fiume che senza posa scorre sempre più lontano. Ma l’uomo che incontra la potenza si deve necessariamente fermare; da allora un taglio segna un tempus, ed egli celebra un tempo sacro. Una festa> (Van der Leeuw). Da qui due diversi calendari, quello profano: successione di giorni sempre uguali; quello religioso, nel quale, in quanto fatto per indicare quali punti del tempo abbiano un valore, possiedono potenza, ogni giorno ha la sua individualità, la sua potenza(Hubert-Mauss). In ciò risiede la contraddizione che impedisce di confondere tempo sacro e tempo profano. Mentre quest’ultimo è spiraliforme in rapporto al succedersi dei cicli annuali ma rettilineo in assoluto: susseguirsi di eventi all’interno di un ciclo sempre uguale a se stesso. I fatti storici si possono celebrare, non ripetere, quelli sacri non si celebrano, si ripetono: la ripetizione dell’evento è la condizione sacrale del rituale religioso. <Nella religione, come nella magia, periodicità significa anzitutto utilizzazione indefinita di un tempo mitico, reso presente. Tutti i rituali hanno la capacità di svolgersi adesso, in quell’istante. Il tempo che vide l’evento commemorato o ripetuto dal rituale è reso presente. “ripresentato”, potremmo dire, per quanto sia immaginato remoto nel tempo > (Eliade).
Tempo profano e tempo sacro sono rappresentazioni simboliche dei ritmi temporali della natura. Per il razionalismo di chi ive immerso nel tempo profano, la successione delle stagioni è un fatto che nessuna forza può impedire. Le stagioni si succederanno l’una all’altra e nessun evento potrà mutarne il corso. La percezione sacra del tempo non è confortata da altrettanta sicurezza. I ritmi temporali nella circolarità del loro moto consumano la loro potenza. Ogni anno alla fine dell’inverno quando l’anello del tempo si chiude, c’è il rischio che il cerchio dell’esistenza si concluda. Come ricaricare d’energia l’organismo spento della natura? Come passare dalla morte alla vita? L’esperienza magico-religiosa nei vari tempi e presso i popoli più disparati ha risposto in diversi modi questo interrogativo. Alcuni tratti comuni a tutti questi modi sono: la rigenerazione periodica del tempo mediante la ripetizione simbolica della cosmogonia, la rigenerazione della natura accompagnata dalla purificazione dei peccati, la rigenerazione attraverso la morte. Presso diversi popoli l’esigenza di rigenerazione della natura ha avuto proiezioni antropomorfiche.  La credenza nel dio salvatore ha la sua matrice nel bisogno periodico di <salvazione della primavera. La vita si rinnova in aspetto di giovane dio, e l’epifania di questo dio: il giorno del suo arrivo, è la vita che rinasce. Il dio salvatore non possiede quella eterna fissità che appartiene al dio del cielo e ad altre divinità: la sua potenza sempre si alterna, scende e sale. Il ciclo della natura è insieme la cosa più triste che conosciamo e la più letificante. Non soltanto la malinconia dell’autunno, ma la carestia dell’inverno; non solo la poesia della primavera, ma anche la sovrabbondanza dell’estate, concorrono a formare la potente figura del salvatore che muore e risuscita, dorme e si desta, è assente e ricompare> (Van der Leeuw). Due ragioni profonde stanno alla base della natura umana e divina del dio salvatore: la identità della sua vicenda personale con la struttura ciclica del corso della natura, la dimostrazione attraverso la resurrezione di sapere vincere la morte. In questo modo egli si pone come punto d’incontro e di risoluzione di due opposizioni di per sé inconciliabili: spirito e materia, vita e morte. La vicenda del dio salvatore è caratterizzata dai seguenti momenti: A) Epifania. Il salvatore appare in modo miracoloso; B) Prove qualificanti. Il salvatore compie miracoli. Trionfa sulle forze ostili alla vita; C) Morte. A somiglianza della vegetazione il salvatore soccombe alla morte; D) Resurrezione. La morte annienta la morte. E’ attraverso la morte che si conquista la vita. La Settimana santa assicura la rigenerazione periodica dell’anno attraverso la rappresentazione simbolica delle fasi conclusive del mito del dio salvatore.




 Palermo. Palme artisticamente intrecciate. (foto di M. Minnella) a pag. 25


Palermo. Agnello pasquale di pasta reale (foto di M. Minnella)a pag. 14




Le "TEMATICHE" 
della Biblioteca Comunale del fondo moderno al Santa Caterina di Monreale



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In Biblioteca... Presentazione libro
"Fimmini "
di 
ANTONELLA VINCIGUERRA




Antonella Vinciguerra -SCRITTRICE

Chiara Di Prima - DIRIGENTE SCOLASTICO

Antonella Alongi - CONSOLE ONORARIO REP. DI CAPO VERDE

M. Grazia Scognamiglio INSEGNANTE

Antonella Terzo PIANISTA

Pietro Capizzi SINDACO DEL COMUNE DI MONREALE

Paola Naimi ASSESSORE ALLA P.I.

Giuseppe Cangemi ASSESSORE ALLA CULTURA




Da dove traggono la forza le "Fimmine" di queste novelle per affrontare le insidie di un mondo forgiato a misura d'uomo? Quali risorse consentono loro di conservare intatta la bellezza e il coraggio anche quando la vita le mette a dura prova? Ciascuna incarna la terra di Sicilia e rappresenta un grido di libertà, l'incapacità di sottomettersi alla schiavitù alla quale sembrano essere predestinate e la forza di sopravvivere senza mai esitare anche davanti all'estremo sacrificio di allontanarsi dagli affetti più cari. In questo palcoscenico di povertà economica e ricchezza d'animo, la Sicilia fa da cornice con i suoi profumi portati dal vento caldo di scirocco e le sue cicale che, con il loro incessante frinire, accompagnano la quotidianità della vita sull'isola, come testimoni nascoste di passioni forti e contrastanti




...L'alba era lì e attendeva un'altra giornata carica di eventi misteriosi e mai scontati. In una moltitudine di colori, come pioggia di lapilli infuocati, la luce spargeva la sua polvere d'oro su quella valle incanta, dove i bagliori e le ombre sinuose facevano di una magnifica isola mortale il segno tangibile dell'immortalità dell'anima di chi li popola. La natura componeva un altro dei propri capolavori, mentre mani instancabili plasmavano una terra caratterizzata da un grande ingegno ma, ahimè, da poco impegno. Nell'aria vetuste civiltà avevano disseminato profumi, e nel ventre dell'isola gli antichi splendori avevano forgiato un popolo fiero e incapace di accettare ogni sorta di schiavitù.
In un tale palcoscenico di povertà e ricchezza d'animo, di ragione e sentimenti forti e contrastanti, i personaggi di una piccola storia della Sicilia del Novecento, come diamanti grezzi dalle mille facce, non accettavano l'idea di mostrarne solo una e accostavano le porte del proprio mondo per fare intravedere uno scorcio della loro vita prima di entrare in scena e raccontare con semplicità la tragedia comica della propria esistenza. Erano personaggi forti che, con brillantezza, coraggio e a volte ironia e saggezza, forgiavano il proprio destino tessendo sapientemente una tela, la cui trama complessa era governata dalle "fimmine".
Esse sono le protagoniste indiscusse di queste pagine; sono ragazzine che tengono in pugno i fidanzati, adulte forti che hanno fatto della loro esperienza una forza propulsiva che domina il mondo maschile fino a piegarlo al proprio potere anche dopo aver lasciato questa terra (Accamadora). Povere o ricche, buone o malvagie, conservano intatta la propria bellezza e non si lasciano scoraggiare mai dalle forze che mettono a repentaglio la loro sopravvivenza; sanno quando tenere gli occhi bassi e la bocca serrata senza farsi sottomettere mai e senza mai mettere in secondo piano la famiglia, anche a costo del sacrificio estremo di farsi da parte (lascia che il fiume scorra).
Il loro linguaggio è forte ed elegante e, pur rimanendo popolare, non è mai veramente volgare. Esprime la passione autentica e senza veli, rappresenta la voglia di riscatto e a tratti raffigura un forte grido di libertà.
"un populu diventa poviru e servu quannu ci arrubanu a lingua" diceva il grande Ignazio Buttitta e queste fimmine la "lingua" la possiedono nell'anima e la usano con studiata scaltrezza per combattere una quotidiana guerra in un mondo a misura d'uomo, lasciando il segno indelebile di una forte identità. La splendida e infuocata, comica e tragica, in cui le lacrime bruciano come lava su un viso che ammicca al mondo. 





                                       








In Biblioteca...

presentazione libro:


LA DURA MEMORIA DELLA  SHOAH

a cura di Carmelo Botta e Francesca Lo Nigro



Carmelo Botta  è docente di Filosofia e Storia nei licei. Ha realizzato importanti progetti didattico-educativi nell'ambito della tutela dei diritti umani e della lotta per la legalità. Ha orientato prevalentemente il suo studio e le sue ricerche nel settore della didattica della storia. E' consigliere dell'associazione "Scuola e Cultrura Antimafia". I suoi lavori sono stati pubblicati su riviste e periodici. Collabora per le attività di studio, documentazione e ricerca con il Centro per la Ricerca, lo studio e la documentazione delle Società di Mutuo Soccorso, istituito dal Coordinameto Regionale delle Società Operaie di Mutuo Soccorso.   

Francesca Lo Nigro vive e lavora a Palermo. E' dirigente scolastico. Ha sempre lavorato in scuole collocate in aree a rischio, impegnandosi in percorsi formativi e didattici relativi ai diritti umani, al recupero del disagio adolescenziale, alla legalità. E' consigliere dell'associazione "Scuola e Cultura Antimafia". Ha pubblicato articoli e saggi d'inchiesta su riviste e periodici. 


Contributi di
ROSA CUCCIA E MICHELANGELO INGRASSIA




A dispetto del tempo che ci allontana sempre più da quella prima metà degli anni '40, la memoria della Shoah diviene e resta "dura", come suggerisce il titolo di questo libro. Resta dura da affrontare, perchè la scelleratezza dei fatti rimarrà sempre incomprensibile e inaccettabile; ma al contempo dura diviene, nella sua solidità, grazie all'impegno degli storici, studiosi e insegnanti che continuano ad approfondire il momento storico e politico del nazifascismo e a respingere il negazionismo, interrogando le coscienze.
La dura memoria della Shoah offre un nuovo approccio all'analisi dello sterminio del popolo ebraico e delle minoranze "indesiderate", proponendo strumenti di informazione e di riflessione per uomini e donne di tutte le età. 
Nella prima parte, Ingrassia presenta una costruzione storica dettagliata, dall'origine del pregiudizio nei confronti degli ebrei fino allo sterminio. 
Nella seconda, i curatori Botta e Lo Nigro presentano le voci dei sopravvissuti ai lager, che hanno incontrato personalmente; testimonianze preziose, in grado di creare un contatto ravvicinato, soprattutto con i più giovani. 
Nella terza parte, Cuccia propone numerosi e innovativi percorsi di didattica, inerenti allo studio della Shoah, fin dalla scuola primaria, supportando la teoria con la lettura di molti libri e film, per tutte le età.
   
Questo lavoro nasce dalla necessità di avviare un nuovo approccio all'analisi della questione dello sterminio nazifascista dl popolo ebraico e delle minoranze "indesiderate2; uun approccio di più ampio respiro, che fornisca gli strumenti per una riflessione sul fenomeno dentro e fuori la scuola, attraverso approfondimenti, testimonianze di sopravvissuti ai lager, racconti dei familiari che hanno subito indirettamente la barbarie nazifascista, considerazioni sull'opportunità di affrontare il fenomeno nella scuola primaria. Nonostante costituisca la pagina più catastrofica della storia del ventesimo secolo, parte essenziale della nostra identità e del nostro immaginario, la Shoah corre il serio pericolo di trasformarsi in un fatto ormai lontano e superato, che non ci riguarda più. Tutto questo, naturalmente, ha insidiose ricadute nella reale e critica comprensione del fenomeno storico. Considerare la Shoah come un evento del passato, mentre rapidamente volge al termine il viaggio dei testimoni diretti, nasconde il rischio di una implicita noramlizzazione dello sterminio nazifascista del popolo ebraico e delle minoranze perseguitate. La banalizzazione della tragedia, la sua narrazione retorica e semplificata è la sfida con cui dovranno confrontarsi i docenti, gli studiosi, le nuove generazioni. I contributi presenti in questo libro tentano di trovare un equilibrio non impossibile fra le ragioni della rigorosa e documentata ricerca storica e la necessità di un contatto ravvicinato con il vissuto di un adolescente di oggi.
La ricopstruzione e la conoscenza storica del contesto, gli spunti di riflessione sulla didattica - che possono tornare utili a chi si trovi ad operare in ambito scolastico e giovanile - l'incontro con la testimonianza diretta tramite l'ausilio delle interviste ai sopravvissuti, la riscoperta della storia locale che riporta in vivo la narrazione delle deportazioni possono servire a far comprendere alle giovani generazioni che studiano queste lontane e terribili vicende che quella storia di vittime e di carnefici parla per loro, parla di loro, parla grazie a loro, mente nuove vittime e nuovi carnefici agitano e sconvolgono il tempo presente.











Libri in Biblioteca....














































THE FREAK EDITORI 

presentano  in Biblioteca

il libro di Gildo MATERA 
"Il Sogno di Guglielmo"







Al confine tra ricostruzione storica ed invenzione letteraria si muove questa rappresentazione teatrale di Gildo Matera, nella quale l'evento dell'edificazione del Duomo di Monreale rivive insieme al suo promotore, Guglielmo II, il Re illuminato che mosse mondi interi e diversi per la realizzazione del proprio progetto. Voci ed urla di contadini ed operai, marinai e maestranze, riecheggiano una Sicilia lontana e contraddittoria che prende forma sulla scena: dalla campagna al mare in tempesta, tutti si ritrovano nella Babele della costruzione, il composito scenario del cantiere fatto di arabi, africani, veneziani bizantini, siciliani, mille anime che sembra impossibile fondere insieme. E' il senso del divino, pare voglia dire Matera, che fonde la pietra alla pietra e la pietra alla terra, che tiene così elementi diversi, a volte opposti, che muove gli intenti a convergere verso un unico scopo, i viaggi ad un medesimo luogo, le menti ad un unico sogno.


GILDO MATERA (1930-1999) MONREALESE DI ADOZIONE, HA LAVORATO PER LA rai E PER IL CINEMA, è STATO ASSISTENTE DI sTORIA DEL tEATRO PRESSO L'iSTITUO sUOERIORE DI GIORNALISMO ED HA FATTO PARTE DEL GRUPPONUOVOTEATRO. E' AUTORE DI DIVERSI TESTI TEATRALI e  VINTO NUMEROSI PREMI DI POESIA. 


Quando vidi per la prima volta il Duomo di Monreale - ero ancora un ragazzo - rimasi incantato da tanta bellezza, come si incantano tutti coloro che varcano la soglia del Tempio per la prima volta e non soltanto. Da allora, senza sottrarmi allo sguardo benevole del Cristo, ho cercato di scorgere qualcosa di nuovo, di nascosto, di lasciato nell'ombra: il tracciato di un segno, la morbidezza d'una veste intessuta di pietre e divenuta una trina, uno sguardo di pietre colorate che penetra l'anima e la seduce. Ma quello che ha sollecitato in me la curiosità è il periodo storico in cui il Tempio venne edificato. Un periodo in cui Palermo passava dal dominio degli arabi a quello dei normanni - dei soldati di ventura al soldo di potenti, ma soprattutto della Chiesa di Roma, con la quale strinsero un patto di fedeltà - che andavano incontro al nemico al grido di: "Dex aie, Dio, aiuta!"
Degli avventurieri, dunque, capaci di dar di spada, ma sensibili alla civiltà superiore - quella musulmana - trovata nell'isola che, scrive Jean Hurè, "essi vollero assimilare nel campo intellettuale ed artistico", tanto da rivaleggiare con lo splendore del mondo bizantino facendo edificare opere di rara bellezza come il Duomo di Monreale. Molte volte ho tentato di scrivere una rappresentazione storica e spettacolare di quell'avvenimento, così tanto importante. Soltanto in questo 1998 dopo mesi e mesi di ricerche, sulla scorta di fonti attendibili, desunti dagli archivi storici della Storia Patria, della biblioteca dei padri cappuccini e da quella della Regione Sicilia, dalle miscellanee, dai testi di un cronista di quel tempo, ho potuto, inserendovi quel tanto di fantasia credibile che l'insieme delle fonti mi ha suggerita, ricostruire quei giorni, così tanto lontani, i personaggi, immaginare il loro mondo. Cosi disse Guglielmo quando vide nella sua interezza, la realizzazione del suo sogno. Aveva seguito le varie fasi della costruzione sin dai progetti, aveva dato suggerimenti, aveva senz'altro discusso lungamente con l'architetto il cui nome si è perso nella polvere del tempo, aveva immaginato come sarebbe venuto il tempio, ma il vederlo dovette senz'altro dargli una sensazione di stupore tale da trapassargli l'anima. E' come parlavano lui e gli altri allora? Qui ho abusato. C'era la necessità di rendere un testo drammatico comprensibile. Le fonti in mio possesso parlano latino, seppur molte volte tradotte in italiano moderno. Ma la scuola poetica siciliana di Federico II, Ciullo D'Alcamo, dante, Petrarca, Boccaccio, dovevano ancora arrivare. La lingua italiana ancora non era nata, anche se già si affacciavano delle vistose trasformazioni. Ed il popolo come si esprimeva? Come si esprimeva quel coacervo di etnie diverse stabilitesi nell'isola attraverso le varie conquiste? Quale dialetto parlavano i Greci, i Latini, gli Arabi che vivevano nei diversi quartieri di Palermo e nell'isola con le loro pregiate mercanzie, con le loro pratiche d'usura? Ho preso la scorciatoia. I miei personaggi parlano, gli uni in italiano a volte un pò arcaico, gli altri un siciliano "stretto", un pò simile al dialetto di taluni centri del'interno dell'isola, dove la contaminazione, come per la lingua italiana, non è avvenuta. Non so se vi sono riuscito per il linguaggio e le altre cose, se ho lasciato sfuggirmi fatti e avvenimenti che meritavano di diventare corpo e anima della mia rappresentazione. Diciamo che ho fatto, con i limiti propri degli umani, qualcosa che fosse meno indegna possibile - direbbe un poeta - di cotanta magnificenza.

Gildo Matera














.........Chiddu è mari grossu, ca si un 'nt'arruspigghi e un t'aggiusti a

 vista, ci 'u va cunti e pisci ca chidda è terra. La Sicilia è senza

 negghi. Lu celu è splinnenti e la marina è sempri chiara. E' terra

 biniritta. Quannu lu mari sfua la sò rabbia, la costa addiventa

 bianca di scuma ca pari latti. E ci viri vulari l'ancili.
..........





 Libri in biblioteca....




Francesco Conigliaro – Anselmo Lipari -  Cosimo Scordato

NARRAZIONE TEOLOGIA
SPIRITUALITA’ DEL NATALE


“VIAGGIU DULURUSU DI MARIA SANTISSIMA

E

LU PATRIARCA S. GIUSEPPI IN BETLEMMI”



Canzunetti siciliani di Binidittu Annuleru
di la città di Murriali,
divisi in 9 jorna,
 pri la nuvena di lu Santu Natali di Gesù Bambinu





A Maria cui porta affettu
di Giuseppe cui fa cuntu
s’avi ntra lu pettu
senta stu raccuntu:
Lu viaggiu dulurusu
di Maria cu lo so spusu.




PRIMU JORNU

San Giuseppi un jornu stannu
ntra la chiazza in Nazaretti
pri soi affari caminannu
senti sonu di trummetti
senti leggiri un edittu
chi lu cori assai c’ha affrittu.

Chistu edittu cuntinìa
chi ogn’omu d’ogni etati
jri a scrivirsi duvia
a la propria citati
e in tributu poi pagari
qualchi summa di dinari.

A sta nova infausta e ria
San Giuseppi cuntristatu
jiu a la casa ed a Maria
cussì dici adduluratu:
Oh chi nova dulurusa
iu vi portu, amata spusa!

 Oh ch’edittu pubblicari
ntra la chiazza or ora ntisi
gran caminu divu fari
e patiri alcuni spisi
ed iu afflittu pri ubbidiri
a Betlemmi divu iri.

Divu iri a Betlemmi
Stu viaggiu divu fari
o sia sulu o cu vui insiemi
sempri peni aiu a pruvari.
O sia sulu o accumpagnatu
sarò sempri adduluratu.

S’iu vi lassu ahi pena ria!
Sentu spartirmio lu cori.
Si vi portu in cumpagnia
oh chi peni e crepacori!
E chi fari un sacciu ancora
l’unu e l’autru assai m’accora.

A st’affetti dulurusi
di spusu so dilettu
cu palori assai amurusi
cci rispundi tutta affettu
 Spusu miu nun v’affigiti
jamuninni unni vuliti.

La divina vuluntati
cuss’ voli chi partemu
Vegnu pr’unni mi purtati.
 Nun fa nenti si patemu
 jamuninni tutti dui
avrà Diu cura di nui.

Si lu nostru imperaturi
nni cumanna di partiri
cu pruntizza e veru amuri
lu duvemu nui ubbidiri
cori granni o spusu miu
 cussì voli lu miu Diu.


SECUNDU JORNU


A st’affetti di Maria
San Giuseppi ralligratu
 rispundiu Signura mia
vui m’aviti consolatu
vi ringraziu o mia signura
miu cunfortu e mia vintura.

Ma ghiacchì Signura mia
mi vuliti accumpagnari
pri na tanta longa via
qualchi modo aju a circari.
Ora datimi licenza
quantu abbuscu provvidenza.

Si nni và Giuseppi allura
tuttu quantu affannateddu
pri purtari a la Signura
 pighia un bonu ciucciareddu,
ed ancora si disponi
pri la sua provisioni.

Cussì torna a la sua spusa
e cci dici: aiju truvatu
mia Signura majestusa
st’asineddu furtunatu
comu gravida o miu beni
jiri a pedi nun cunveni

Ntra sti vertului cci portu
pocu pisci e quattru pani
pri ristoru e pri cunfortu
ntra sti parti assai luntani
così cchiu fari vurria
ma nun aju, spusa mia.

Maria ancora canuscennu
la divina vuluntà
si và puru dispunennu
pri lu partu chi farà
e s’inchiu nà cascitedda
di li soi nfasciaturedda.

Avia fattu la Signura
culi proprii soi manu
una tila bianca e pura
dilicata in modu stranu
di sta tila fattu avia
li faudili a lu Missia.

San Giuseppi avia abbuscatu
dui di lana panniceddi
e Maria n’avia furmatu
dui puliti cutriceddi
e pruvista di sti cosi
a partiri si disposi.

Già è prucintu di partìri
la Rigina di lu Celu
offerennusi a suffriri
Fami, friddu nivi e jelu
Chi stupuri in virità
cui nun chianci pri pietà.


TERZU JORNU


Già disposta di partiri
la gran Vergini Maria
a lu spusu misi a diri
nginucchiata umili e pia
chista grazia facitimi
spusu miu binidicitimi.

San Giuseppi a chistu eccessu
 d’umiliati senza pari
ripugnando ntra se stessu
 nun sapia chiddu chi fari,
ma furzatu a voti spissi
cu umiltà la benidissi

Dappu st’attu d’umiliati
San Giuseepi parra e dici
Spusa mia cuntenta stati:
 Su cu vui sugnu filici
però sulu patiremu
‘ntra la strada chi farremu

Arrivati in Bettelemi
passirà lu nostru affannu
 pirchì zertu cu vui insemi
tutti a nui ricivirannu
aju ddà tanti parenti
boni amici e conuscenti.

Li mei amici e li parenti
 in videndumi affacciari
tutti allegri e risulenti
 nni virrannu ad incuntrari:
Beni assai nni trattirannu
cera bona nni faranno

Nni faranno ripusari
 si nui stanchi arriviremu
 nni darrannu da manciari
si pri via niu patirwemu
Cussì speru a sensu miu
 silu voli lu miu Diu.

Ma la savia Maria
cu un suspiru dulurusu
ca cchiù affanni previdia
cussì parra a lu so sposu:
Ah miu spusu
si farà la divina volontà

Quantu Diu voli e disponi
sia la nostra cuntintizza
nun timenu afflizioni.
Ne curamu nò alligrizza:
sia la nostra confidenza
la divina previdenza.

Si sarremu rifutati
e da tutti sconosciuti
o sarremu rispettati
e da tutti ben voluti
dirrò sempri o spusu miu
 vi ringraziu miu Diu.


QUARTU JORNU


Chistu avvisu già in sintiri
di Maria lu sposu amatu
 sti palori misi a diri
tuttu quantu nfirvuratu:
 l’ura è tarda chi facemu?
Spusa cara via partemu

Maria Vergini ubbidendu
a cavaddu si mittiu:
lu sò cori a diu offerendu
dannu gustu a lu so Diu
San Giuseeppi caminava
e la retina tirava.

Deci milia serafini
onuraru d’equipaggiu
a sti santi pilligrini
ntra stu poviru viaggiu.
Ralligrannu pri la via
a Giuseppi ed a Maria.

Foru sempri sconosciuti
di li genti disprizzati
da Diu sulu benvuluti
e di l’ancili onurati
nun si curanu di peni
mentri Diu li voli beni.

Mudistedda e rispittusa
viaggiava la signura
quantu è bedda e amurusa
virginedda e matri pura
ogni cori innamorava
di cui a casu la guardava.

Ben cumposta nell’esternu
 risplinnia lu so canduri
riflittia nellu so internu
di Gesù lu grandi amuri
e ntra tuttu lu caminu
va pinzannu a Diu bambinu.

Quantu lagrimi d’affettu
di l’ucchiuzzi cci scapparu
quantu sciammi ntra lu pettu
metidandu s’addumaru!
Jia chiancendu cha scupria
chi sò Figghiu Diu patìa

Pri la strata s’incuntrava
cu diversi piccaturi
e cu un sguardu chi cci dava
cunvirtia ddi cori duri.
Pri pietà Maria, viditimi
sugnu malu cunvirtitimi.

A l’afflitti chi vidia
cu pietà li cunsulava
pri l’infirmi chi scupria
tutt’affettu a Diu prigava.
Iu su poviru o Maria
pietà di l’arma mia!


QUINTU JORNU


Siguitava lu viaggiu
San Giuseppi cu Maria
suppurtandu ogni disagiu
ogni affannu e travirsia.
E tu ingratu e scunuscenti
si patisci ti lamenti.

Cincu jorna di camminu
fari insiemi bisugnaru
camunannu di cuntiunu
senz’aviri nuddu mparu.
Stanculiddi ed affannati
 puvireddi disprizzati.

Pensa tu lu vicchiareddu
quantu lassu e stancu sia
caminannu puvureddu
 sempri a pedi pri la via.
A la spusa riguardava
e affannatu suspirava
.
Chi viaggiu dulurusu
chi fu chistu pri Maria
ntra l’invernu rigurusu.
‘Ntra lu friddu a la campìa!
La Signura di lu celu
ntra lu jazzu e ntra lu jelu.

Benchì l’ancili l’assistianu
rispittusi li guardavanu
li timpesti chi facianu
troppu assai la turmintavanu
Viaggiava mudistedda
 agghiazzata ‘ngriddutedda.

Cussì stanchi ed affannati
‘ntra lu friddu caminavanu
nun truvandu mai pusati
pirchì tutti li sprizzavanu;
 puvireddi li vidianu
pocu cuntu ni facianu.

Su custritti a ripusari
di li staddi ntra l’agnuni
E ‘ntra fundachi alluggiari
sti cilesti e gran Pirsuni.
Oh ch’eccessu d’umiltà!
 Cui nun chianci pri pietà?

 Senza chiantu cui po’ stari
riflittendu chi Maria
è custritta ad abitari
d’animali in cumpagnia?
 Quantu affruntu Maria senti
 misa mmenzu a tanta genti?

Però quantu vosi Diu
 cu pacenzia suppurtaru.
ogni pena e affannu riu
 cu alligrizza toleraru.
Suppurtandu stu disaggiu
fina in tuttu lu viaggiu.


SESTU JORNU


Stanculiddi su arrivati 
doppu tanta lunga via
già traseru a la citati 
menzi morti a la stranìa. 
Ma si tu cciporti affettu 
mettitilli ntra lu pettu! 

Vannu spersi pri li strati 
nudda casa hannu truvatu 
lu risettu incaritati 
di li genti ccè nigatu. 
E di tutti su affruntati 
comu vili su cacciati. 

Doppu tantu caminari 
nun avendu stanza avutu 
jeru a scriversi,e pagari, 
a lu Re lu so tributu 
siguitandu poi a circari
qualchi alloggiu di truvari. 

Ma lu stentu è spisu indarnu 
nun li vonnu dd’almi audaci 
e Giuseppi nell’internu 
nun putia darisi paci. 
E chiancennu ripitia: 
Ch’jiu a fari, amata mia?

Ntra lu chianciri pinzau 
chi dda cc’era na pusata 
pr’unni poi s’incamminau 
cu Maria so spusa amata;
junci e vidi frattaria 
né ccè locu all’osteria.

Na stadduzza era vacanti 
ma Giuseppi nn’è cuntenti; 
dda s’accomoda ntra un stanti 
cu Maria stanca e languenti:
 a lu scuru stanchi e amari 
si jittaru a ripusari.

Però allura su cacciati, 
pirchì vinniru autri genti 
si parteru addulurati 
affruntati veramenti. 
San Giuseppi assai chiancennu 
cussì afflittu jia dicennu: 

Dunca finu m’è nigatu 
chistu miseru risettu? 
O Giuseppi sfurtunatu 
sta disgrazia mai s’ha lettu. 
Spusa mia cara Signura 
e stanotti unni vi scura?

Su quattr’uri di la notti
 già nui semu rifutati 
ajiu fattu quantu potti 
spusa mia pacenza ajati. 
Nun nni voli nuddu ancora,
 jamuninni dunca fora.


SETTIMU JORNU


Fora dunca la citati 
riflittendu chi sapia 
una grutta a ddi cuntrati 
cussì dicilu a Maria!
 Ccà vicinu cc’è na grutta
 Binchì vili e aperta tutta.

Si vuliti pirnuttari
 ntra sta grutta iu vi cci portu
 nun vi pozzu o spusa dari
 autru ajutu autru cunfortu. 
Maria allura ubbidienti 
mustra d’essiri cuntenti.

Cussì inziemi s’inviaru
 pri dda parti a pocu a pocu. 
Già la grutta ritruvaru 
ma assai poviru è lu locu 
e cu tuttu allegri stann
u sempri a Diu ringraziannu.

Tutti dd’angeli beati
 chi pri via l’accumpagnaru 
Cu splinduri inusitati 
chidda grutta circundaru.
 San Giuseppi li vidia 
e videnduli gudia. 

Oh pinzati ch’alligrizza 
di ddi santi amati spusi
 chi gudennu sta biddizza 
sunnu allegri e gluriusi 
Doppu aviri tanti stenti
 a sta vista su cuntenti

A stu lumi gluriusu
 risplindiu la gran Signura 
comu un suli maistusu 
chi v’inciamma ed innamura.
 E Giuseppi cunsulatu 
resta allegru ed incammatu

Cussi ardendu in duci focu 
San Giuseppi cu Maria
canusceru ch’a ddu locu 
Gesù nasciri duvia 
E ntra lagrimi di affettu 
criscia focu a lu so pettu.

Ma videndu poi Maria 
ch’assai lorda era la grutta 
comu matri amanti e pia
 nun la po vidiri brutta 
e na scupa ddà truvannu
 cù umiltà la jiu scupannu.

St’umiltati in riguardari 
di Maria lu spusu amatu 
cominciau puru a scupari 
ma di l’ancili è aiutatu. 
E ntrà un nenti chidda grutta 
resta bedda e netta tutta.


OTTAVU JORNU


Poi chi già purificau 
San Giuseppi chistu locu 
cu l’incegni chi purtau 
jetta luci e adduma focu
 e poi dici ricreativi
 spusa cara via scarfativi.

S’assittaru tutti dui 
nterra e ncostu dilu focu 
e un putendo stari chiui 
si cibaru qualchi pocu
 ma cu gran divuzioni 
fu la sua culazioni.

Pr’ubbidiri a losò spusu 
Maria santa si cibau. 
Ch’autru cibbu cchiù gustusu
 a se stissa priparau.
E pinzandu sempri stà 
a lu partu chi farrà.

Già finuti di manciari 
a Diu grazii rinneru 
e in dulcissimu parrari
 tutti dui si trattineru. 
Discurrennu un pocu pr’omu 
di la’muri d’un Diu Omu.

Oh pinzati chi palori 
tinirissimi dianu 
s’inciammavanu lu cori 
quantu chiù nni discurrianu.
 Ammirannu cu firvuri 
di Gesù lu summu amuri

Canuscendu poi Maria 
junta già l’ura filici chi Diu nasciri duvia 
a lu spusu cussì dici: 
Troppu è notti, ritirativi 
và durmiti e ripusativi.

San Giuseppi e la Signura 
chi durmissi ci prigau. 
C’addubbau la manciatura 
cu lirobbi chi purtau. 
Si ritira poi a n’agnuni 
di ddu poviru gruttuni.

Ma Giuseppi nun durmiu 
ma cun gran divuzioni
 nginucchiunu umili e piu 
misi a fari orazioni  in estasi elevatu 
a Gesù poi vitti natu.
Mancu dormi nò Maria 
ma di Diu chiamata allura 
nfervurata pronta e pia 
s’inginocchia l’ama e adura
 o gran spusi fortunati
 pri mia misiru prigati.


NONU JORNU


Misa già in orazioni
la gran Virgini Maria
cu na gran divuzioni
a Gesù pinsandu
ch’a lu friddu
 nascirà Diu picciridu.

Comu mai,
dici chiancendu
 lu gran Diu di Maestà
di li Re , lu Re tremendu
ntra lu friddu nascirà?
Lu signuri di lu celu
comu nasci ntra lu jelu?

Oh! Miu Diu di gran ricchezza
comu nasci puvireddu
Sarà veru o mia biddizza
chi ti vija ngridduteddu
Chi di friddu tremi e mori
Nun m’abbasta nò lu cori.

Si di nasciri cunveni
pirchì un nasci ntra palazzi?
Pirchì tu nni veni
 cu gran pompi e cu gran sfrazzi?
Lu to summu e granni amuri
ti fa nasciri in duluri.

Via chi tardi o Fighiu miu
Prestu prestu nesci fori
Quandu nasci e quandu o Diu
renni saziu stu cori?
Ntra stu ventri o Diu chi fai?
Quannu quannu nascirai?

Quannu ah quannu nascirai?
Quannnu st’ura vinirà?
Quannu tu consolirai
l’infilici umanità?
Quannu o beni miu dilettu
 t’haiu a strinciri a stu pettu?

Ntra st’affetti e ntra st’amuri
la gran Virgini Biata
tutta focu e tutt’arduri
fu in estasi elevata.
E gudennu lu so Diu
a Gesuzzu parturiu.

Natu già lu gran Missia,
 misi a chianciri e ngusciari
e la virgini Maria
misi ancora a lagrimari.
Lu pigghiau cu summu affettu
 e lu strinci a lu so pettu.

San Giuseppe si risbighia
 già di l’estasi profundi
 E cu duci maravigghia
si stupisci e si cunfundi
curri prestu spavintatu
e a Gesuzzu vidi natu.

Oh pinzati chi cuntentu
chi grandissima alligrizza
 si scurdau di lu so stentu
 pri la summa cuntintizza
 e cu tantu so piaciri
accussì si misi a diri:

Chi furtuna fu la mia!
Oh c’onuri ch’appi iu
d’adulari cu Maria
a stu locu lu miu Diu!
Matri santa e mia signura
iu vi fazzu la bon’ura.

O chi fighiu aviti fattu
 o chi bedda Criatura!
Quantu è beddu vagu
 e intattu la sua facci m’innamura
Chi su amabili sti gighia
 a la matri cci assumigghia.

O ch’ucchiuzzi sapuriti!
Chi linguzza ncarnatedda!
Veramenti beddu siti
la pirsuna tutta è bedda.
Tu si beddu fighiu miu
ma cchiu beddu cha si Diu.











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Claude Levi Strauss

BABBO NATALE   GIUSTIZIATO
Sellerio editore



<Babbo Natale è vestito scarlatto: è un re.  La sua barba bianca, le sue pellicce e i suoi stivali, la slitta nella quale viaggia, evocano l’inverno.  Incarna l’aspetto benevolo dell’autorità degli anziani. 
Ma in quale categoria bisogna collocarlo dal punto di vista della tipologia religiosa?Non è un essere mitico, poiché non c’è mito che renda conto della sua origine e delle sue funzioni; e non è nemmeno un personaggio di leggenda, poiché non è collegato a nessun racconto semistorico. Appartiene piuttosto alla famiglia delle divinità. 
E’ la divinità di una sola fascia di età della nostra società e la sola differenza tra Babbo Natale e una vera divinità è che gli adulti non credono in lui, benché incoraggino i propri figli a crederci. Babbo Natale è dunque anzitutto, l’espressione di un codice differenziale che distingue i bambini dagli adolescenti e dagli adulti>.






<Il fatto di cronaca esaminato da Levi-Strauss in Babbo Natale giustiziato - scrive l'antropologo Buttitta nello studio sul significato del ritorno dei morti che introduce il volume - non è meno significativo per intendere la complessità dei percorsi attraverso i quali certe strutture ideologiche persistono rifunzionalizzandosi. Lo studioso considerando la notizia che davanti alla cattedrale di Digione per iniziativa di solerti fedeli, era stato bruciato un simulacro di Babbo Natale  per poi essere risuscitato in Municipio per iniziativa delle autorità comunali, capisce che non si tratta di un semplice fatto di cronaca. L'idea di una figura divina la cui morte è necessaria per rigenerare il tempo cioè la vita, è un complemento dello schema mitico nel quale il ruolo di mediazione risolutiva è assolto dai morti e dal loro inverso speculare cos











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IL GIORNO CHE I MORTI 


PERSERO LA STRADA DI CASA  
di ANDREA CAMILLERI


Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c'era un picciriddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzolo bianco e con lo scruscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consueti, il mezzo sorriso d'occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d'arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c'erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il due mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero s'avvicinavano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all'alba per andare alla cerca. Perchè i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l'avevamo trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo otto anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall'aldilà il mitico "Meccano" e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre. 
I dolci erano quelli rituali, detti "dei morti":marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, "rami di meli" fatti di farina e miele, "mustazzola" di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette: Non mancava mai il "pupo di zucchero" che in genere raffigurava un bersagliere con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciriddi era una festa, scimavamo lungo i viottoli per incontrarci con glia mici, i compagni di scuola: <che ti portarono quest'anno i morti?>. Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel due novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l'anno prima, mentre ruggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo. Insomma il due novembre ricambiavamo la visita che imorti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un'affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l'albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spasimo, i figli o i figli dei figli. Peccato, avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nosta storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e "stampato", come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri. Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perchè chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.







Presentazione libro in Biblioteca: 

  "STRANIERI" 

di 
Andrea Cozzo
Docente di Lingua e Letteratura Greca all'Università di Palermo 



Come "l'altro", lo straniero, veniva considerato nell'antica Grecia e  fino ai giorni nostri, dibattendo e riflettendo  sul tema   dell'immigrazione.









W LA DIVERSITA'








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Francesco Testa
VITA E GESTA DI GUGLIELMO II  
pag.129



DE VITA ET REBUS GESTIS GUILELMI II SICILIAE REX
di Francesco Testa

( I PRIMI ANNI DEL REGNO DI  GUGLIELMO…TRAPASSATI INFRA CONGIURE, PERFIDIE, SEDIZIONI,
 SPERGIURI, UCCISIONI, SACRILEGJ…)

I Normanni, ch'è quanto a dire uomini del Settentrione, i quali mossisi dalla Scandinavia fermaronsi nella Neustria, provincia delle Gallie, dal nome loro Normandia quinci chiamata, i medesimi nella spiaggia meridionale d'Italia sede insieme, ed impero si procacciarono.
i siciliani...Postisi pertanto sotto la condotta dè Normanni, e prestata loro egregia opera nel debellare i barbari, con pieno consentimento in protezione, e signoria loro si diedero....
Furono sacri tempj edificati, e adornati magnificamente. Fondati Vescovadi, e altri benefizj,....

Guglielmo adunque di questo nome II, e dopo la fondazione del regno, terzo Re di Sicilia, dell'inclita gente de' Normanni, ebbe per padre il Guglielmo ... I Re di Sicilia per madre Margherita figliola di Garzia II Re di Navarra, e per fratelli Rogero, e Roberto di età maggiori, ed Enrico minore. Nacque in Palermo nell'anno 1154 l'anno medesimo, nel quale,, morto Rogero suo avolo, il di lui padre entrò con solenne pompa al governo del Regno; di modo che le feste per l'avvenimento del padre al soglio furono seguite dalle congratulazioni pel nascimento del figliuolo. E per vero dire allegrezza alcuna della nascita di qualche Principe non fu presa giammai più giusta di quella, onde fu festeggiato il natale di Guglielmo; dappoichè tale era egli per essere, che in sua persona avverossi quello appo noi trito proverbio, dalla spina nascer la rosa; e rimase al nome del padre la nota di malo, non tanto perchè costui tali costumi avuti abbia, quanto perchè dal figliuolo, al quale gli opposti costumi l'opposto soprannome di buono meritarono, si distinguesse. La qual bontà fin dall'infanzia in lui tralusse, a somma venustà, a grazia di aspetto, e all'altre doti del corpo congiunta: per lo che a tutti caro era, ed amabile, ...
Alla tutela di Margherita loro madre, donna di sagace ingegno, commise l'uno, e l'altro figliuolo: e ordinò che infino a tanto, che Guglielmo non ancora in età da governare, far non potesse da per sè, essa siccome tutrice amministrasse il regno, adoperando què consiglieri medesimi,  ch’egli avuti avea principali, e più favoriti, …Venuto il re a morte nel mese di maggio dell’anno 1166 Margarita temendo, non il popolo al subito improvviso caso si commuovesse in odio della paterna dominazione contro il figliuolo, per alquanti dì celò la morte del marito fino a tanto, che cò maggiorenti del regno, chiamati alla Corte, si tenne consulta, e deliberassi, che nel tempo medesimo, in cui la morte del marito si pubblicasse, fosse acclamato Re il figlio. …
Trapassati i giorni alle reali esequie prefissi, fu il Re nella reale cappella sepolto. E acciocchè il pubblico lutto non fosse più presto di quel, che si convenisse, interrotto, non prima del mese di luglio il nostro Guglielmo con grandissima acclamazione dè Vescovi, ed Ottimati, e con applauso universale del popolo nella Chiesa Cattedrale di Palermo, secondo l’usanza, e l’istituto dè suoi maggiori, ricevette la Reale corona. …Presa la corona il giovanetto Principe passando a cavallo per le principali contrade della città con solenne pompa, e gran concorso di popolo alla reggia si restituisce, avendo sì per la bellezza della persona, cui nuova dignità. E nuova grazia pareano essersi, in quel giorno aggiunte, sì pel concetto, che si avea della sua indole, e sì ancora per compassione alla età, piegati a sé gli animi di tutti, e di coloro eziandio, il mal talento dè quali contra il padre mirar sembrava alla distruzione della schiatta: imperocchè si era ognuno ben persuaso, che l’odio paterno tornar non dovesse in pregiudizio dell’innocente figliuolo; e che meglio fosse sotto un principe di ottima speranza il riserbarsi a flici successi, che l’esporsi a nuovi tumulti, e a nuovi pericoli. Né altrimenti avvenne, che il loro avviso era stato, e la loro aspettazione; imperocchè per la Reale dignità non si scemò punto in Guglielmo la natia benignità: crebbe però in lui colla maggior facoltà di dare la liberalità; ed il cominciare a regnare, e l’usar munificenza principalmente inverso le Chiese fu per esso una cosa medesima. La Regina poi assecondando l’inclinazione del figliuolo niente lasciò in dietro di ciò, che gli potesse confermare la benivoglienza, con cui era stato acclamato. …
Fra i costumi in verità così corrotti, e guasti di coloro, che stavan più d’appresso a Guglielmo, egli come in età, così felicemente in virtù cresceva: tanto salda indole alla virtù avea sortita. Né le turbolenze, che messa aveano la Corte sossopra, furon di ostacolo alla attenta cura della sua educazione. …
Dopo lo studio della religione, e delle lettere in niuna altra cosa più volentieri occupa vasi il giovanetto Principe sommamente conviene. Né luoghi a lui mancavano dà suoi antenati a sì fatto esercizio, come si è detto, molto opportunamente adattati.
Non lungi da Palermo eravi un luogo di caccia, dall’avolo di lui infra monti, e boschi costrutto, assai dilettevole, e di ogni maniera di alberi, e di piante diverso fornito; nel quale cinto di mura, damme, capriuoli, e cinghiali rinserravansi. A questo unita era splendida villa, in cui da purissima fonte per doccie acqua viva, che alta vena sempre premea, conducevasi. (37) Ma quella, che Guglielmo per vaghezza o di villeggiare, o di cacciare le più volte frequentava, era la villa non più di quattro miglia lontana dalla Reggia, dalla parte, che guarda l’occidente. Questa villa situata era su di una collina, comechè adjacente ad un monte aspro, e nudo, degna nondimeno, e perché di dolce salita, e da limpide fonti irrigata, e per l’amenità dè circostanti giardini, e selve, e per la vista piacevolissima della sottoposta pianura della campagna di Palermo, e di tutta la città stessa, e del mar Tirreno, e finalmente per la clemenza dell’aria, che i Re scelta l’avessero per luogo di lor frequentato diporto; e che perciò Monreale si dinominasse. (38)

NOTE N. 37 e N. 38 di pag. 153 (ivi)
(37)
Questo luogo di caccia era quello, che presentemente dicesi Parco vecchio. Parco in lingua tedesca suona lo stesso, che luogo d’intorno cinto a custodir fiere di pali, di grati, di mura, di fosse. Vedi Cangio Gloss. alla parola Parco; e il Muratori dissert.33 t.2. Che poi il luogo di caccia, di cui fa menzione Romualdo di Salerno nella Cronaca l’anno 1149 fatto fare da Re Rogero, sia il Parco Vecchio, e non il nuovo, come inconsideratamente alcuni si sono avvisati, da ciò assai chiaro si fa, che il luogo da caccia costrutto da Re Rogero, e da Romualdo descritto, era situato in fra monti; e quivi l’acqua scaturisce nel sito medesimo, dove era la Villa Reale, e sgorga in sì larga vena, che diede al luogo il nome di Altofonte. Aggiungasi, che il Fazello, e l’Inveges, due lumi della nostra Storia, affermano essere stato fondatore del Parco nuovo, come a suo luogo esporremo, il nostro Guglielmo: nel che a torto dà più recenti scrittori sono di sbaglio notati, quasi sentano diversamente da Romualdo di Salerno; poiché, come si è dimostrato, Romualdo fa parole del parco vecchio, e non del nuovo.
(38) Avvi in Monreale la contrada, che ancor oggi il nome ritiene di Ciambra corrotto vocabolo tolto dal Franzese Chambre, come quella, in cui comprendevansi i reali appartamenti. Il Fazello di Monreale così scrive nella prima dec. libro 8: Questo luogo per l’amenità degli orti, per le limpide acque dè fonti per tutto sgorgnti, e per la giocondissima veduta di tutta la pianura a sé sottoposta di Palermo, e della medesima Città tutta, e del mar Tirreno, e pel temperamento dell’aria, bellissimo essendo, e per lo spesso ritirar visi dè Re, i quali erano usi di quivi condursi a diporto, e sollievo dell’animo, fu Montereale a buona ragione denominato.

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.... in Biblioteca.....



La ROSALIA

Poema Epico di Petru Fudduni




Eu su' Petru Fudduni
E sugnu di lu meu Palermu beddu
E natu sugnu sutta un cristalluni,
Unni si teni giudicu e macellu
.......



Frontespizio dell'edizione originale del poema "La Rosalia" 
(presso La Biblioteca Centrale della Regione Siciliana )











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Cù tia, per tia Signura santa, e pia
Spera la Navi mia pigliari portu
Si per tua caritati, e curtisia 
Nun fù di serpi devoratu, e mortu,
Cussì à lu fini di la morti mia
Dammi l'aiutu tò lu miu deportu
Acciò chi la valanza nun trabucca
Fà chi sempr'haia lu tò nomu in bucca.





(cfr. anche post "SANTA ROSALIA") 





Libri in Biblioteca: 

PIRANDELLO  

Luigi Pirandello nacque il 28 giugno 1867 a Girgenti, in Sicilia. Studiò filologia a Roma e a Bonn. Con la sua teoria del "teatro nel teatro", Luigi Pirandello divenne un innovatore importante per drammaturgia moderna. Pirandello scrisse oltre 50 opere teatrali, e le sue due più grandi sono "Sei personaggi in cerca d'autore" e "Enrico IV", entrambi i quali resero l'autore molto famoso  ed influente e gli permisero di vincere il Premio Nobel per la letteratura nel 1934. Abile scrittore di romanzi e novelle, queste ultime raccolte nell'opera "Novelle per un anno", composta da 15 volumi. Dei suoi romanzi il più noto è il "Il fu Mattia Pascal" e "Il vecchio e il giovane".



150° anniversario nascita di Luigi Pirandello















































Studi critici


























FRASI CELEBRI DI LUIGI PIRANDELLO



"IMPARERAI A TUE SPESE CHE NEL LUNGO TRAGITTO DELLA VITA INCONTRERAI TANTE MASCHERE E POCHI VOLTI"



"PRIMA DI GIUDICARE LA MIA VITA O IL MIO CARATTERE METTITI LE MIE SCARPE, PERCORRI IL CAMMINO CHE HO PERCORSO IO. VIVI IL MIO DOLORE, I MIEI DUBBI, LE MIE RISATE. VIVI GLI ANNI CHE HO VISSUTO IO E CADI LA' DOVE SONO CADUTO IO E RIALZATI COME HO FATTO IO".



"ABBIAMO TUTTI DENTRO UN MONDO DI COSE: CIASCUNO UN SUO MONDO DI COSE! E COME POSSIAMO INTENDERCI, SIGNORE, SE NELLE PAROLE CH'IO METTO IL SENSO E IL VALORE DELLE COSE COME SONO DENTRO DI ME; MENTRE CHEI LE ASCOLTA, INEVITABILMENTE LE ASSUME COL SENSO E COL VALORE CHE HANNO PER SE', DEL MONDO COM'EGLI L'HA DENTRO? CREDIAMO DI INTENDERCI; NON CI INTENDIAMO MAI!"

da PensieriParole <https://www.pensieriparole.it/aforismi/saggezza/frase-274822?f=a:598>








Presentazione libro 


a cura di Peppe Leonardo Gallato

Nel 150° anniversario dalla nascita di Luigi Pirandello, l'Amministrazione comunale ospita in Casa Cultura, The Freak editori per proporre una nuova edizione dell'opera.














                                        



        














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