CANTO DI NATALE di Charles Dickens

 

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Charles Dickens

CANTO DI NATALE

                                     







     
                             

                                                 
     

L'UOMO CHE HA DETTO PER PRIMO: <BUON NATALE>

di Alessio Altichieri

Questo libro fu <miracoloso>, scrisse molti anni fa il grande critico inglese Charles Percy Snow a proposito di Canto di Natale. Miracoloso, secondo lui, perchè <solo un scrittore di enorme talento poteva scriverlo>: un talento che Charles Dickens, <probabilmente il più straordinario scrittore di lingua inglese dopo Shakespeare>, possedeva in dosi portentose. Ma miracoloso, potremmo aggiungere noi, anche perchè tutta la vita di Dickens fu straordinaria e Canto di Natale vi sbocciò come il prodotto di una folgorazione, l'intuizione geniale che scavalcò il mero fatto letterario: nel mondo anglosassone Dickens viene infatti ricordato, per questo libro, come <l'uomo che inventò il Natale>. Istituì, cioè, la tradizione del Natale che ancora conosciamo e celebriamo. E quindi questo Canto, se ci ha cambiato il modo di vivere, può essere considerato l'attimo magico di un'esistenza che, di per sè, valeva quanto un romanzo. Infatti nell'autunno del 1843, quando scrisse A. Christmas Carol, Dickens era già celebre. Non era mai successo, in alcun posto al mondo, che un autore di soli trentadue anni, che non aveva mai pubblicato un libro intero godesse di fama nazionale. Ma i tempi in Inghilterra erano cambiati velocemente. Vittoria era sul trono e la rivoluzione industriale produceva  orrori e e glorie, che Dickens avrebbe conosciuto in pari misura. Il bambino costretto a dodici anni a lavorare in una fabbrica accanto al Ponte dei Frati Neri, a Londra, perché il padre era stato arrestato per debiti, s’era presto emancipato dalla miseria e aveva scritto, a puntate, Il Circolo Pitckwick, acclamato come un capolavoro dell’umorismo. E poi aveva pubblicato Oliver Twist e Nicholas Nickleby, ereditando così la tradizione picaresca di Fielding e Defoe. Eppure, adorato dal pubblico e da poco rientrato dall’America dove aveva sedotto folle estasiate, Dickens si sentiva bruciare: : gli premeva, dentro, una passione che doveva  buttar fuori.

Ora noi moderni magari sorridiamo di tali passioni. Il pregiudizio ci ha fatto gettar via, assieme all’acqua sporca vittoriana, anche il bimbo che sarebbe uscito pulito dal bagnetto. Diciamo di Dickens, con tono saccente, che scriveva romanzi <dickensiani>, come il possente David Copperfield, una sorta di autobiografia di cui Canto di Natale anticipa i temi, quando invece a essere dickensiani furono i tempi che raccontò, eroici e spietati. Melodrammatico e sentimentale, diciamo, e pure maniche. E’ vero: nelle poche pagine di Canto di Natale c’è un contrasto continuo di caldo e freddo, di intimi interni domestici e di strade  chiassose, di ricchezza avida e povertà generosa, di salute e malattia, egoismo e miseria. Anzi, Miseria con la maiuscola, al pari dell’ignoranza, Per personificare le piaghe dell’epoca , come simboli del male. Certo, Dickens peccò di mancanza della misura, di errori di gusto, di eccessi patetici e moralistici. Ma Dickens è l’Ottocento, Come Balzazc e Hugo, e se non fosse stato tale non avrebbe influenzato Tolstoj e Dostoevskij, come fece, e poi tanti altri fino a Henry James o, per restare nel nostro piccolo, a Edmondo De Amicis: Dickens quindi, quale autore d’un interminabile Cuore vittoriano.

Miracolosa era poi la capacità di Dickens di creare personaggi, Ebenezer Scrooge, il gretto protagonista di Canto di Natale, esce prepotente dalla folla dei duemila caratteri che compongono la sterminata galleria dickensiana. Certo, è una caricatura dell’avaro  (ma anche Riccardo III era un tiranno caricaturale, Coriolano era inverosimilmente sanguinario, Giulietta e Romeo s’amavano d’amore impossibile, senza che Shekespeare fosse però accusato di esagerare), eppure Scrooge è vivo perché è Dickens stesso: il quale nel 1843 non aveva solo urgente bisogno di soldi, sicchè scrisse questa storia natalizia come un investimento a breve  ( aspettava dalla moglie il quinto figlio e voleva trasferirsi in Italia dove la vita, allora come oggi, costava meno), ma pativa ancora il ricordo dell’umiliante adolescenza, del lavoro in fabbrica, dell’arresto del padre. Scrooge riflette Dickens nell’angoscia che possa tornare il disonore:<Tu hai troppa paura dell’opinione del mondo>, gli dice, in un’apparizione, l’antica fidanzata: <Tutte le tue speranze sono state sacrificate alla speranza di tener lontane le sue sordide critiche>. E anche Cratchit, l’umile scrivano che Scrooge sfrutta, è il disgraziato fanciullo che fu Dickens, così come Tiny Tim, il malatino di casa Cratchit, è il fratellino malato dello scrittore, che in famiglia chiamavano Tiny Fred. Ma naturalmente è miracoloso il fatto che questo libriccino, facile come una fiaba eppure profondo come una parabola evangelica, abbia<inventato> il Natale. Chiariamo: non c’era bisogno d’uno scrittore inglese per dare un senso cristiano al 25 dicembre, Ma c’era forse bisogno di uno scrittore dell’Inghilterra vittoriana, il paese che dominava e forgiava il mondo, per creare il Natale dei tempi moderni. Perchè i puritani di Oliver Cromwell avevano ridotto il Natale , che sposava la celebrazione della nascita di cristo con la festa pagana dei Saturnalia romani, a un rito minore. Come lamenta Cratchit con il padrone Scrooge, nella prima <Strofa> de libro, il Natale non era che un giorno di vacanza, uno solo, in tutto l’anno: appena il tempo per un regalino ai bambini, e poi di ritorno a fabbriche rugginose, uffici freddi, salari da fame. Dickens invece, con sentimentalismo impenitente, vide nel Natale qualcos’altro: <un giorno di allegria, di bontà, di gentilezza, di indulgenza, di carità, l’unico momento nel lungo corso dell’anno, nel quale uomini e donne sembrano disposti ad aprire  liberamente il proprio cuore, disposti a pensare ai loro inferiori non come a compagni di viaggio, del medesimo viaggio verso la morte>

Allora immaginiamo quelle sei settimane, tra ottobre e dicembre del 1843. Stretto tra il bisogno e l’ansia di scrivere finalmente un libro vero, non una serie di puntate. Dickens è in preda a un fervore febbrile: <Piangevo e ridevo, e piangevo ancora,  e mi eccitavo in modo straordinario durante la scrittura. E poi, ripensando, camminavo per le strade buie di Londra per quindici o venti miglia ogni notte, quando tutta la gente assennata è andata a letto>. Quando esce, il libro è un best seller che vende seimila copie entro il Natale : certo, come scrive la biografia Jane Smiley, è <la macchina dell’editoria capitalista, che porta un singolo uomo, una singola  voce, in un rapporto personale con un numero  enorme di persone>,  a permettere tale successo. Ma il libro, stesso è cosi forte, come ammette il contemporaneo  Fraser’s Magazine, <che nessuno scettico si può permettere una critica negativa… Chi darebbe orecchio a obiezioni su un libro del genere?>. Diventa subito, come ammette il rivale William Thackeray, <un’istituzione nazionale>. Un industriale concede immediatamente ai suoi dipendenti un secondo giorno  di vacanza, e si dice che pure Thomas Carlyle, lo storico, ordini un tacchino  per il pranzo  di Natale, come il libro prescrive. Con un risvolto: a fine anno sono già in vendita le copie pirata, sicchè l'invewstimento  di Dickens non darà i frutti sperati. Ma il romanzo sarà un trionfo. Nasce così il Natale moderno, della società industriale; se quello dei tempi antichi coinvolgeva interi villagi, questo nostro Natale è a misura familiare, come mostrano nel libro il nipote di Scrooge, Fred, e anche la <famiglia nucleare> di Cratchit,riunita attorno al'oca fumante che esce dal forno. La lezione di quest'allegoria cristiana (in cui Cristo però non viene nominato) è che non c'è condizione umana, per quanto misera, che impedisca di essere buoni. Perchè questo libriccino, che fonde il romanzo sociale, al racconto di fantasmi, non è altro che la storia di una conversione, quella di Scrooge. Eppure grazie alla capacità dickensiana di unire misticismo religiosoe superstizione popolare, non si limita all'esortazione morale, ma incide sui nostri comportamenti. Questo ci ha lasciato in erdità Charles Dickens, l'uomo che ha inventato perfino l'augurio <Buon natale> (mai prima di lui in inglese s'erano sposati un aggettivo e un sostantivo per dire <Merry Christmas>), Quando Dickens morì, nel 1870, e la notizia corse funerea per Londra, una piccola venditrice del Coven Garden scoppiò in lacrime; Morirà allora anch Babbo Natale?>. No, non sarebbe morto in tutto l'Occidente cristiano, sempre più secolare e consumista, e pure Scrooge sarebbe passato ai posteri: fu il suo nome infatti che Walt Dusney  in cerca di antenati nobili diede al ricchissimo avaro  che popola le strisce di Donald Duck: e, come sappiamo, zio Paperone si converte alla bontà per un Natale che dura tutto l'anno, a ogni fumetto.   

                                         ALESSIO ALTICHIERI              
























Libri in biblioteca


STORIA DEI RE MAGI 

di Giovanni da Hildesheim

dall'Iran e dalla Mongolia

mito e realtà intorno alla grotta di Bethlem


                                  Cura e traduzione di Alfonso M. di Nola



MAGIA E RELIGIONI
Newton Compton Editori  1973





.........Quando fu matura la pienezza del tempo, nel quale Iddio decise di mandare in questo mondo il suo Figliolo, nato da una Vergine, l'impero era governato da ottaviano Augusto. 

E, nell'anno XLII dell'impero di lui, come narra Luca, <fu promulgato un editto ecc.>  Bisogna sapere che Bethlehem a quanto pare, non aveva allora grande riputazione e fama. E' costruita su un suolo roccioso, nel quale si aprono molte caverne e spelonche sotterraneee. Distante da Gerusalemme circa due miglia piccole, secondo le misure del luogo, è ora, un villaggio non grande. Viene poi, designata come la città di Davide perche Davide vi nacque e nel medesimo luogo nel quale fu la casa di Isai, padre di Davide e, nel quale Davide venne al mondo e fu unto re da  Samuele, proprio lì il Cristo nacque; e questo posto era al limite di una platea che. allora, si chiamava la platea coperta perchè secondo le consuetudini del paese era stata coperta con drappi neri ed altre stoffe, per difesa contro l'ardore del sole. E, in questa platea, ogni giorno si teneva mercato di ogni specie di oggetti, in particolare di vesti usate e di ornamenti femminili, anch'essi usati. Una volta alla settimana, vi era nella platea, la fiera pubblica di varie mercanzie e soprattutto  di legna. All'estremità poi della platea, era la casa di Isai e vi rimane tuttora un tugurio dinanzi ad una grotta ricavata dalla roccia. Ed essa, adattata a cellare, serve a riparare le vettovaglie dal fervore del sole. E' pure opportuno dire che, in tutte le terre e villaggi di oltremare che abbiano una qualche importanza fin dall'antichità vi fu, e tuttora vi è, la consuetudine di tenere speciali case, chiamate alchan nelle quali  sono cavalli, muli, asini e cammelli: e, se un pellegrino o un mercante ha bisogno di bestie da soma,prende ivi a nolo l'animale che vuole. Giunto poi, alla città cui è diretto, riconsegna l'animale al custode di quella casa che, anche lì, si chiama alchan. Questi lo provvede di foraggio e lo rimanda al suo padrone  insieme con il  denaro guadagnato  ovvero,  se non può farlo accompagnare riporta l'animale fuori dela città e lo lascia sulla via e quello se ne torna da solo a casa dal suo padrone.  Questi patti hanno fra loro i custodi di codeste case e ognuno di loro conosce  i nomi degli altri, anche se sono molto lontani e tutti gli animali sanno riconoscere gli itinerari. Tali case appartengono al re e ai signori di quei paesi ed essi ne traggono alte gabelle, mentre anche i custodi ne ricavano molto.

Proprio una casa di tale genere era una volta nel luogo dove il Signore venne al mondo. Ma, nel tempo della natività del Cristo, essa era andata in completa distruzione e, dinanzi a quella spelonca, era rimasto soltanto un piccolo tugurio. In piedi erano restati le pareti di mattoni e i muri sconnessi e sull'aia, che era dinanzi al tugurio, si faceva la vendita del pane. E infatti, secondo il costume di tutte le città di Oriente, il pane si vende in un solo luogo, e i signori delle terre percepiscono  a sera, le decime sulle vendite fatte. Dopo che Davide fu fatto re, la casa di suo padre,  gli era rimasta ancora assegnata per i suoi usi ma, in seguito per i grandi guasti che vi furono nella regione, nessuno ne ebbe più cura ed essa andò in rovina. E. nel tugurio e nella grotta, si lasciavano in deposito, in attesa di poterle vendere, legna e mercanzie che, portate alla fiera, erano rimaste invendute. Intorno al tugurio e nel suo interno, i villici che rano venuti al mercato, legavano gli asini e gli altri animali.

Ora, poichè tutta la gente , uomini e donne, si dirigeva, in obbedienza, all'editto di Cesare, alle città e ai villagi nei quali erano nati, anche Giuseppe e Maria arrivarono tardi al crepuscolo, quando già tutte le locande erano occupate e piene di ospiti. Poveri come erano, fecero il giro di tutta la città e nessuno volle ospitarli. e, specialmente al vedere  la giovanetta Maria , seduta su un asino, disfatta dal viaggio, gemente e sospirante, incinta e prossima al parto, non vi fu, nella città, alcun disposto ad accoglierla. Giuseppe, allora la condusse in quel tugurio e in quella spelonca.

E così in quella grotta nel corso della notte, Iddio nacque in povertà sì grande, senza dolore come doveva avvenire.  E in quel tugurio, dinanzi alla grotta, dall'antichità fino ai giorni nostri, è rimasta murata nella parete una piccola mangiatoia  di pietra, dalla grandezza di un'ulna.  E pure ad essa fu legato il bue di un mendicante, che nessuno aveva voluto ospitare e, accanto al bue, Giuseppe legò il suo asino. In quella mangiatoia Maria pose a giacere sul fieno il suo bambinello dopo averlo avvolto in fasce. Invece il luogo nel quale l'Angelo apparve ai pastori, dista da Bethlehem circa mezzo miglio secondo le misure del paese.

 

VI SI NARRA DELL’APPARIZIONE DELLA STELLA CHE SI MANIFESTO’ SUL MONTE VAUS, E DELLA SUA FORMA.

...Alla nascita del Cristo, così avvenuta, in Bethlem, sul monte Vaus fi vista levarsi una nuova stella, che raggiava a guisa di sole e illuminava l'intero mondo. E, a poco a poco, s'innalzò sopra il monte, come aquila, e rimase immota sopra di esso, sempre nello stesso punto, per  tutto il giorno, così che, quando il sole, a mezzogiorno, le passò da presso, quasi nulla era la distanza fra il sole e la stella. 

Non appariva poi, nella forma che siamo usati a vedere rappresentata in pittura nei nostri paesi, ma aveva molti lunghissimi raggi, più ardenti che fiaccole e questi raggi andavano roteando quasi come aquila che voli e batta l'aria con l'ala. E portava in sè l'effige di un bambinello e al di sopra il segno della croce. E, dall'interno della stella, fu udita una voce che diceva:<Oggi  è nato il re dei Giudei, colui che è l'aspettazione delle genti e il loro dominatore. Andate a cercarlo e a tributargli adorazione>.

 

VI SI NARRA COME I MAGI AVENDO VISTO LA STELLA SI PREPARARONO AL VIAGGIO E SI RIFERISCE DELLE TRE INDIE E DI UN USO DEI GENTILI.

    Allora, uomini e donne di quella regione, a vedere una stella tanto mirabile e ad udire la voce che ne veniva, furono invasi da singolare stupore ed ammirazione, e non ebbero dubbio che  fosse proprio quella la stella annunziata dalla profezia di Balaam.

E, nello stesso momento, i tre Re, che regnavano nelle terre dell'India, della Caldea e della Persia, ebbero dagli astrologi e dai profeti notizia della stella e grandemente si compiacquero che loro era toccato di vederla, mentre erano in vita. Avvenne così che questi tre Re, pur separati dall'enorme distanza dei loro regni, e del tutto all'oscuro l'uno della decisione degli altri, si prepararono a cercare e ad adorare il Re che era nato, con doni veri e mistici di eccezionale ricchezza, e con gioielli nobilissimi, facendosi accompagnare da numerosa scorta reale. E comandarono che la loro spedizione fosse preceduta da buoi una quantittà  grande, e da greggi e da animali da soma, e da lettisterni e  da utensili e da vettovaglie di ogni specie. Infatti, è uso di quelle terre che i principi e i signori quando viaggiano con grande seguito, facciano trasportare con loro i lettisterni e tutti gli arredi della camere da letto e gli utensili delle cucine sopra muli e cammelli. Ora, intorno ai regni e alle terre di questi tre Re, si deve sapere che tre sono le Indie e che tutti i loro territori sono costituiti per la maggior parte da isole piene di orride paludi nella quali crescono canne si robuste che se ne fanno case e navi. Ed in queste terre ed isole nascono piante e bestie diverse dalle altre, così che è fatica e pericolo ben grande passare da un'isola all'altra. Si legge pure che Assuero regnò su centoventicinque provincie dall'India fino all'Etiopia.

VI E' DETTO COME DIO FECE GIUNGERE I TRE RE IN GERUSALEMME NELLO STESSO MOMENTO E COME ESSI VENNERO A TROVARSI IN UN ANEBBIA E DELLA CAPPELLA COSTRUITA SUL MONTE CALVARIO.

Quando i tre Re, ciscuno venendo dalla sua strada, furono presso gerusalemme, circa a due miglia, silevò sopra tutta la terra una nebbia densa, caliginosa we tenebrosa e, nella caligine, persero la guida della stella. Si spiega così il passo di Isaia: <Lèvai, sii illuminata o gerusalemme perchè la ltua luce è venuta e la gloria del Signore si è levata sopra di te. Perchè ecco che le tenebre copriranno la terra e la caligine coprirà i popoli. Allora Melchioar, per primo, arrivò con i suoi presso Gerusalemme, sul monte Calvario, dove il Signore fu crocifisso. E, nella sabbia e nella caligine, si fermò secondo la volontà del Signore. Era, allora, il monte calvaio  un luogop dove si incontravano i malfattori e ai piedi del monte, vi era un trivio. Ivi sostò, dunque, Melchioar a causa della nebbia e perchè non conosceva la via. E lì  dopo molto tempo il prete Gianni e glialtri principi della nubia fecerro cavare nella roccia de monte Calvario una piccola cappella ch ddicarono al Cristo, alla sua Made e ai tre Re, e che si chiama la Cappella dei Nubiani. E, mente lì si tratteneva Melchiar, come abbiamo detto, nella nebbia e nella caligine, Balthasar re di Godolia e di Saba, giunse per il cammino che aveva seguito, insieme con il suo esercito e si fermò nelle tenebre presso il Monte Oliveto, in un villaggio che ivi chiamano Galilea.


 

continua....





























 














Salvatore Giuliano


B I B L I O T E C A   C O M U N A L E

"Santa Caterina" 

7 Dicembre 2021

 

Mostra/Studio 

SALVATORE GIULIANO 

banditismo e politica >


a cura di 

Giuseppe Misseri

Interventi di: 

Claudio Burgio e Biagio Cigno












PORTELLA DELLA GINESTRA: 

NESSI E COMPROMESSI

 

BREVI RIFLESSIONI 

SUL GIUDIZIO STORICO DELLA STRAGE 

di     Fedele Maria Rita

Docente di Storia e Filosofia al Liceo scientifico di Monreale

Dottore di Ricerca UNIPA

Lo spunto per riprendere la narrazione dei fatti sulla strage di Portella lo offre il testo inedito di Ignazio Buttitta intitolato “Portella della Ginestra”. Si tratta di un’opera conservata per più di mezzo secolo nell’Archivio storico delle Edizioni Avanti presso l’Istituto Ernesto De Martino. L’Atto IV di questo dramma porta sulla scena la complessità sia della strage di Portella della Ginestra che della figura di Salvatore Giuliano, uno dei più noti banditi del secondo dopoguerra in Sicilia, cui il processo di Viterbo attribuì la strage. La figura dello zio Calogero, in particolare, mette in evidenza che, dopo la morte di Salvatore Giuliano, nessuno era disposto a credere che fosse stato proprio lui a sparare sulla folla dei contadini, che si erano riuniti, il 1 maggio del 1947, a Portella, per festeggiare il lavoro.

Su Portella della Ginestra abbiamo due giudizi: uno giudiziario e l’altro storico.

Il primo ci consente di delineare con estrema chiarezza quanto già sappiamo su questa strage: una sparatoria contro la folla che avvenne ad opera di Salvatore Giuliano e della sua banda. Il secondo, il giudizio storico, evidenzia su Portella altre verità, per certi aspetti anche inquietanti: Giuliano e gli uomini della sua banda sarebbero solo gli esecutori, ma la strage ebbe dei mandanti politici che purtroppo non sono stati mai individuati. Il giudizio storico consegna così l’eccidio di Portella della Ginestra ad una storia senza verità, ma permette di delineare alcune linee interpretative della strage che per certi aspetti fanno giustizia da sole.

Sul piano storiografico, infatti, è possibile confrontare interpretazioni che sono espressione di diverse linee prospettiche nella lettura dei fatti accaduti a Portella. La verità su Portella non è stata ancora fatta e rimangono ancora oggi nell’oscurità quanti quella strage hanno contribuito a pianificarla ma non ad eseguirla.

Lo storico Francesco Renda nella Prefazione alla seconda edizione dell’opera intitolata Storia della mafia, afferma: “[…] la ferita è ancora aperta perché giustizia non è stata ancora fatta” (p. III). Dalla desecretazione di alcuni documenti oggi in possesso, è possibile individuare sul piano storiografico tre ipotesi interpretative che ricostruiscono quella drammatica strage.

I^  INTERPRETAZIONE 

La prima, sostenuta dal Ministro degli Interni di allora, il democristiano Mario Scelba, nel dibattito alla Costituente del 2 Maggio 1947, dalle forze politiche moderate, dal partito della Democrazia Cristiana, dalle forze dell’ordine, secondo cui il massacro di Portella della Ginestra era un episodio circoscritto che non aveva finalità politiche. Si trattava cioè di una strage senza mandanti politici in cui l’unico colpevole era solo Salvatore Giuliano e i suoi banditi

In una intervista al quotidiano democristiano “Sicilia del popolo”, del 9 maggio 1947, minimizza: «Trattasi di un episodio fortunatamente circoscritto, maturato in una zona fortunatamente ristretta le cui condizioni sono assolutamente singolari»

(Cfr. Umberto SantinoStoria del movimento antimafia, Riuniti, Roma, 2000, p.160 e N. TranfagliaMafia, politica, e affari nell’Italia repubblicana 1943-1991, Roma Bari, Laterza)

A queste conclusioni tra l’altro giunse anche il processo di Viterbo (1951-1952) che condannò all’ergastolo Gaspare Pisciotta e altri componenti della banda di Giuliano. Questi era morto nel 1950 ucciso, secondo la versione ufficiale, dal capitano dei carabinieri Antonio Perenze; anche Salvatore Ferreri detto Fra Diavolo, era morto prima dell’apertura del processo di Viterbo, ucciso nel 1947 dal capitano dei carabinieri Roberto Giallombardo. Nonostante le denunce di Pisciotta, nel corso del processo di Viterbo, sui presunti mandanti politici della strage, la pista che riconduceva ai mandanti e alle coperture politiche venne esclusa.

II^  INTERPRETAZIONE 

La seconda, sostenuta dal deputato comunista Girolamo Li Causi all’Assemblea Costituente (2 Maggio 1947), dalle forze politiche di sinistra e dalla maggioranza della CGIL: Portella fu il primo episodio di strage terroristica di Stato, aveva mandanti e coperture a livello politico e nelle istituzioni. Salvatore Giuliano era stato solo l’esecutore materiale della strage, ma venne utilizzato strumentalmente da altre componenti. I veri mandanti della strage erano gli agrari e i mafiosi che utilizzavano i banditi contro le forze politiche della sinistra che, tra l’altro, alle elezioni regionali del 20 aprile 1947 erano usciti vittoriose (si pensi la vittoria del Blocco del Popolo: socialisti e comunisti). Questa linea di lettura trovò molti riscontri nel processo di Viterbo quando Gaspare Pisciotta ebbe a dire che settori della polizia, dei carabinieri, con le dovute coperture politiche, mantennero rapporti molto compromettenti con la mafia e il banditismo per esercitare il controllo del territorio. Gaspare Pisciotta con queste parole definì “Santissima Trinità” il connubio che si presentava nella Sicilia del secondo dopoguerra: “Siamo un corpo solo banditi, polizia e mafia, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”

(Cfr. Salvo Di Matteo, Anni Roventi. La Sicilia dal 1943 al 1947. Cronache di un quinquennio, Palermo, Denaro, 1967, p.450, citato in F. Renda, Storia della mafia, p.291, cit.)

Questa seconda ipotesi che presenta pesanti responsabilità di organi dello Stato, di rappresentanti politici e di intrecci con la politica nazionale e internazionale è stata l’ipotesi prevalente anche in ambito storiografico. Lo storico F. Renda sostiene questa linea interpretativa che riconduce la strage anche alla politica internazionale della guerra fredda, ma ne aggiunge una motivazione sociale: la strage è un atto terroristico che logicamente e cronologicamente si colloca all’interno delle lotte contadine e bracciantili combattute in Sicilia fra il 1945-1955, per la concessione delle terre incolte alle cooperative agricole e per la conquista della riforma agraria.

(Cfr. F. Renda , Storia della mafia, p. XXII, cit.)

III^  INTERPRETAZIONE 

La terza ipotesi è quella più recente e più diffusa dalla stampa e dalla cinematografia (basti pensare il film di Paolo Benvenuti  “Segreti di Stato”) ed è in linea con le posizioni espresse dallo storico Casarrubea negli ultimi lavori su Portella della Ginestra: la strage sarebbe il frutto di un patto segreto tra le forze più potenti di quel momento storico, i servizi segreti americani, la mafia, il Vaticano e il partito della Democrazia Cristiana in funzione anticomunista; una strategia che segue la logica della guerra fredda. Sul ruolo della mafia, di alcuni esponenti del partito della Democrazia Cristiana, delle forze dell’ordine, Casarrubea non aggiunge cose nuove rispetto ad alcuni elementi che già erano emersi dal processo di Viterbo in cui Gaspare Pisciotta aveva denunciato precisi nomi. La tesi di Casarrubea poggia su quanto la ricerca storica sta raccogliendo dalla desecretazione di alcuni documenti degli archivi americani dell’OSS (Office Strategic Services, Servizio segreto americano prima della nascita della CIA)

(Cfr. N. Tranfaglia, Anatomia di una strage con molti colpevoli, in G. Casarrubea, Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della Ginestra, Bompiani, Milano, 2006, 5-11)

Poste queste premesse di carattere storiografico, ciò che ci interessa in sede di giudizio storico non è l’accertamento e l’individuazione delle responsabilità materiali di questo o di quel rappresentante politico; a questo compito sono preposte altre istituzioni, in particolare la Magistratura, quanto piuttosto il fatto che la strage mise in evidenza la connessione già esistente nell’Isola, tra mafia-banditismo-politica e la logica che sottende a questo connubio. Per queste ragioni Portella della Ginestra non è solo un fenomeno circoscritto a quel 1 maggio del 1947, ma purtroppo una pagina di storia che si riapre ogni qualvolta si reincarna la logica del compromesso, degli intrighi, degli occultamenti, dei depistaggi, dell’omertà, della illegalità.

Allora, oggi, 25 febbraio 2012, gli studenti e le studentesse, rappresentando l’Atto IV del dramma inedito di Ignazio Buttitta e recitando alcune poesie sulla strage, accolgono l’insegnamento più importante che lo scrittore ci ha lasciato: la poesia come strumento per interpretare la realtà, per proporre una visione del mondo, ma anche come strumento per agire e trasformare la realtà quando essa si presenta sotto la veste della illegalità. Il dramma “Portella della Ginestra” è la testimonianza non solo del grande talento poetico di Ignazio Buttitta, ma soprattutto dell’impegno civile e politico e del profondo rispetto della dignità dell’uomo. Quella di Buttitta è un’arte che si esprime nell’impegno e per questo mi piace concludere queste brevi riflessioni con una citazione riportata sulla facciata del Teatro Massimo di Palermo, sopra le sei colonne d’ingresso, in cui sta scritto:

 

“L’Arte 

rinnova i popoli 

ne rivela la vita. 

Vano delle scene il diletto ove

 non miri 

a preparar l’avvenire”.














dal lato sinistro: 
L'Assessore alla Cultura Arch. Rosanna Giannetto -
Biagio Cigno, Presidente dell Ass.one antiusura e antiracket Liberi di lavorare"
Prof. Claudio Burgio, Presidente dell'Ossevatorio alla legalità "Giuseppe La Franca"  
Il collezionista di libri Sig. Pino Misseri



Intervento del dott. Silvio Russo, relatore di una tesi di laurea in Scienze Politiche su  Salvatore Giuliano