Carla
Horat
E' nata a Basilea e cresciuta in Ticino.
Trasferitasi a Verona, si è diplomata alla'Accademia di Belel Arti G.B. Cignaroli, di quella città. Dal 1981 vive a Plaermo, dove ha ottenuto la cattedra di <Tecniche dell'Incisione> all'Accademia di Belle Arti. Ha tenuto numerose mostre collettive e personali, in Italia e all'estero.
Autoritratto - matita cm 11x15 (1978)
Dopo anni di rigore, passati con le lastre di rame, le punte, il mordente olandese (come ben sa chi conosce le mie incisioni), ho avvertito la necessità di esprimermi in modo più immediato. Mi sentivo costretta nelle forme-pretesto delle mie acqueforti, anche se all'interno di quelle i segni si disponevano automaticamente, senza nessuna idea decorativista. Ho agito e mi sono interrogata. I materiali usati per realizzare questi lavori sintetizzano le mie due vite parallele e contrastanti di donna e di incisore: i fili da un lato (fili di tutti i tipi: cotone lana seta lino canapa juta, i fili così atavicamente legati al destino di donna); e le tarlatane dall'altro (l'incisore sa l'importanza delle tarlatane e il fascino che talora assumono durante la pulitura delle lastre, quando magicamente si tingono d'inchiostro). Il primo passo è stato la ricerca (inconscia) di una superficie mia (non il foglio bianco usato in arte per secoli come spazio illusoriamente tridimensionale). Sono nati così i Sudari, appiattimenti delle mie prime immagini su una superficie ricreata per esse. Poi la superficie soltanto, dichiarazione di superficie: i Silenzi. Poi muovermi liberamente su di essa: ecco i Divertissements. Segni che si rincorrono, s'intrecciano, si amano, si odiano, vivono in un loro Kàos-kòsmos. In momenti diversi questi segni apparentemente casuali (pur conservando la loro libertà e un certo automatismo) si riorganizzano in immagini. Sono fortemente scossa da Altamira (cosa dopo Altamira?). Un ritorno alle origini dell'umanità. Impronte graffiti fossili.
Poi di nuovo segni. Segni che ora si muovono sulla superficie bianca del foglio (presa di coscienza, riappropriazione), senza timori.
Da qui parte la mia pittura.
CARLA HORAT
Per Carla Horat
di Vincenzo Consolo
" Gli alberi sono degli alfabeti, dicevano i Greci. Tra tutti gli alberi-lettere, la palma è il più bello. Della scrittura, profusa e articolata come i gatti dei suoi rami, possiede l'effetto maggiore: la linea di caduta" così Barthes. Il quale, nella stessa pagina di Barthes di Roland Barthes, riporta una lirica di Henrich Heine, in cui si parla di un nordico pino, avvolto nel bianco mantello di neve e di ghiaccio, che sogna un palmizio, "laggiù nei paesi del sole". E forse, noi aggiungiamo, il palmizio, magrebino, iracheno o di quella plaga persiana che in passato si chiamava Segestan, sogna un alto pino delle Alpi, un pino avvolto nel sudario invernale, nel nordico gelo. I pini, o l'albero del vecchio gatto, dei camosci, o della gallina impazzita, o delle chiocciole, gli alberi infine che sogna o "inventa", sotto il sole o fra i palmizi di Palermo, la "nordica" Carla Horat. E' una scrittura, la sua, graffiata, incisa, un alfabeto di memoria, di sogno o incubo, misterioso e allarmante come l'antica scrittura babilonese dissepolta e Ebla o musicale e seducente come il primogenio alfabeto fenicio - aleph, beth, daleth...
Non c'è profusione di getti, vigoroso, gaio zampillo e seducente linea di caduta negli alberi-scrittura della Horat, ma continua ascensione, verticalità, anelito di spazio e luce, spesse trame di segni-parole, neri nodi, contorsioni, fitti grovigli, intricati passaggi, oscure mutazioni...di cortecce, filamenti, foglie, gromme, vesce, radici, steli, sterpi, spine sono quindi le apparizioni boschive, le stregonesche apparenze, i fugaci sembianti, le fisionomie mutanti...
Sorge dalla macchia terragna, il volto
-ilare, arcigno-stretto nel nero fazzoletto
sembra di castagna risecchita, il capello
che ne sfugge non è vello gentile
ma riccio caprigno...
questa la Veneris venefica agrestis di Lucio Piccolo. E, così come in Piccolo, che dalla sua Capo d'Orlando sognava forse un nordico, favoloso bosco prestigiatore uguale a quello dell'Irlanda di Yeats, la scrittura della Horat dice il gioco a nascondere, di mobile universo, d'aree spirali, di mondo come forma che muta, dispare...
E riemerge in sibillini alfabeti, fili-segni in intrecci, scioglimenti, fili erranti d'una ironica Parca, o serrati in orditi e trame che al telaio fantastico la sapiente Penelope tesse e ritesse disegnando l'assenza, il vuoto del tempo, la colpa e la pena dell'eroe che erra. E si fa impaziente colei che attende, abbandona il telaio, la trama, dissolve alberi, fili, alfabeti, scritture, scioglie figure , sensi e nessi nel puro colore. La superba corifea dà tono e ritmo a un canto antico, profondo, si fa interprete prima del gran melodramma. Ha cantato, una sublime Medea o Antigone, Clitennestra o Ifigenia, un soprano dal nome greco Callas, splendente di bellezza, ha cantato il tragico destino della donna, di donne che si chiamano Tosca, Isotta, Eleonora, Aida, Norma... E questo canto la pittrice ha voluto fissare nel ritmo dei colori. Ora la tavolozza della Horat è una continua melopea in cui toni acuti e basi, chiara e scuri, in cui i rossi, i neri, i bianchi, i gialli, gli azzurri sono suoni, note, pennellate, colori dei più veri, più forti sentimenti.
Disegni
Pietro Flammer, di anni 101, matita, cm23x23 (1978)Filomena Baus, di anni 93, matita, cm 29x24 (1978)
Domenica Magistretti, di anni 80,matita,cm41x30 (1979)
Incisioni
Catabolismo-anabolismo, acquaforte, zinco, cm 39,5x25 (1980)
Svizzera tedesca di nascita, Carla Horat vive in Sicilia da qualche anno, sposa del cardiochirurgo renato Albiero.
Sono di tal numero coloro che oggi praticano la figurazione nelle sue più diverse espresioni e tendenze che risulta vieppiù difficile averne informazioni esauriente: Io sono da tempo dell'opinione che è finita-se mai è esistita-l'epoca degli artisti incompresi o ignorati.
Devo però cominciare a tennuare questa certezza. Può darsi che proprio nell'epoca della massima possibilità di comuniocazione la selva stessa dei mesaggi finisca col confondere le acque e, soprattutto, col non far emergere che chi quei messaggi non sa, non vuole p è impedito a servirsi. Palro ovviamente, e in priomo luogo, di quel micidiale messaggio che è il mercato dell'arte (non così distaccato, come si vorrebbe, dall'altro: il potere universitario, dell'informazione giornalistica e museale).
In ottobre eravamo con Leonardo Sciascia a Camerino per una commemorazione di Ugo Betti e da Ancona vvedemmo presentarcisi una persona timida e gentile. Era il pittore Franco Falaschini (ora sappiamo il suo nome) che desiderava farsi conoscere. Benchè già noto a Bo, a Zampetti e a Luzi che hanno scritto di lui, noi non sapevamo nulla della sua finezza di pennello (e non si tratta di un ragazzo).
Ancor maggiore stupore mi ha colto sfogliando le cartelle di incisioni all'acquaforte di Carla Horat Albiero, e sono certo che non minore sarà lo stupore di Sciascia che le è anche concittadino. Come si spiega che un'artista di così chiara natura poetica e capacità realizzatrice sia rimasta finora ignota?
Benchè l'incidere della Horat sia molto lontano per via della sua secchezza uncinante e quasi freddezza (ma non, a guardar bene, per via della dolcezza senza sdolcinature che sotto quella scorza si muove) dall'incidere e dal morsurare del grande Luigi Bartolini (1892-1963), una delle Finestre a vetri di lei mi ha fatto riandare non solo alla famosa, straordinaria Finestra del solitario che è del 1925, ma anche a quell'acquaforte intitolata Tomatoes (1928), perchè vi si vede, tra l'altro, una Buatta da pomodori dov'è piantato un giacinto, che Bartolini sottotitolò Il davanzale caltagironese: la Sicilia rivissuta, nel ricordo, altrove. Si tratta di un'incisione da ascriversi a quelle che Bartolini chiamò di genere nero a differenza di quelle di genere biondo, il che nulla ha a che fare con la qualità più o meno scura o chiara del segno ma riguarda questioni d'animo profonde e occulte.
Carla Horat incide in Sicilia i suoi ricordi di altrove. E' un altrove di genere nero (un altrove geografico-il nord-e poetico che arriva fino a Klinger e alla sua storia incisa del Guanto smarrito, anche se, come ho accennato, il genere biondo della dolcezza della Horat perfino al cospetto delle più cupe carcasse di coleotteri che ricordano le gozzaniane disperate cetonie capovolte, di animali sperduti o attoniti, di scheletri fra i rami scheletriti, sempre si fa sentire come un'increspatura di sorriso.
Si segua la mutazione quasi a serie di fotogrammi in dissolvenza, del volto di vecchia vecchio (il sesso che verso la fine della vita tende a unificarsi come rammenta nella storia dell'arte la giorgionesca immagine dal cartiglio Col tempo, e lì, proprio lì dove la Horat esibisce la sua più imprevedibile e meticolosa bravura tecnica, si scopra come di questa bravura sappia poi fare quasi a meno al punto di farcela dimenticare in nome di altri valori, di altre virtù comunicative.
Come appunto diceva Luigi Bartolini mettendo in guardia contro quegli incisori che ingannano il pubblico mostrandosi pulitoni, pulitini, pazientissimi; più dei tarli.
Carla Horat un tarlo potrebbe e saprebbe inciderlo, facendoci persino immaginare il suo percorso nei cunicoli bui del legno, ma non appartiene alla specie degli incisori-tarlo.
Al termine dei suoi percorsi c'è sempre una luce.
Piccola mutazione, acquaforte, zinco, cm 13,5x9,5 (1980)
Mutazione, acquaforte, zinco, cm 25x20 (1980)
Mutazione, acquaforte, zinco, cm25x20 (1980)
Gentile Signora, acquaforte, zinco, cm 39x25 (1981)
Gli alberi dei camosci, acquaforte, zinco, cm 39x25 (1981)
L'albero del vecchi gatto, acquaforte, zinco, cm38,5x25 (1981)
L'albero degli uomini, acquaforte, zinco, cm49x39 (1981)
Maternità, acquaforte, rame, cm25x20 (1981)
Incubo, acquaforte, zinco, cm 40x25 (1983)
Mano con uccellino morto, acquaforte, rame, cm 25x17 (1983)
L'albero delle magie, acquaforte, rame, cm 21x16,5 (1984)
Gli alberi di Horat
di Leonardo Sciascia
Gli alberi di Carla Horat Albiero. E immediatamente-se appena si ha una certa dimestichezza con l'arte dell'incidere in acquaforte, con la sua storia-si pensa a Jean Frélaut, "peintre-graveur" che dai primi del secolo fin quasi ai nostri anni ha inciso alberi, alberi: senza monotonia, sempre inventandoli ( e basti ricordare quel centinaio di acquerforti che adornano il Monsieur de Lourdines di Alphonse de Chateaubriant: una delle più belle "edizioni numerate" in cui ci si possa imbattere). Entrambi-Frélaut come Carla Horat-sembrano prediligere lo stesso tipo di albero: quello che, spoglio, ha rami dritti e sottili che fanno raggiera. E' un albero che, per me siciliano, evoca il nord, i lunghi inverni, i cieli diafani, le nebbie. Ma tutte le incisioni di Frélaut sono "invernali". E anche quelle di Carla Horat. E non si potrebbe forse andar oltre, dire che l'inverno è stagione congeniale all'arte incisoria, che al di là dell'oggetto "invernale" che ritrae: ramo, albero, paesaggio-tou court "invernale", connaturato all'inverno, all'assenza del colore, alla essenzialità delle linee, alla denudazione di ogni cosa che l'inverno opera, l'acquaforte è sempre? Ma dal generale al particolare, c'è modo di essere, nell'acquaforte, "invernali"; così come c'è inverno e inverno-diverso o diversamente modulato-per ogni artista; sicchè l'inverno di Frélaut, a gurdar bene, ha ben poco a che fare con l'inverno di Carla Horat. L'inverno di Frèlaut è l'inverno contadino, l'inverno dell'immutabile e puntuale vicenda della natura, dell'ordine, dell'obbedienza del lavoro umano a un tale ordine, del consentire della natura all'uomo e dell'uomo alla natura; l'inverno di Carla Horat ha invece un che di definitivo, di pietrificato, di apocalittico. Non ci sono più "le opere e i "giorni" della campagna, non c'è più la campagna; rami, tronchi e radici sono fossili memorie di forme non più distinte, come tornare alcao primigenio; forme che "somigliano". E come i volti umani, in altre incisioni di Carla Horat, somigliano a radici, le radici suggeriscono antropologie e zoologie fantastiche, metamorfosi appena sbozzate e drammaticamente raggelate. Giustamente Antonello Trombadori, presentando una mostra di Carla Horat, ha ricordato la distinzione che Bartolini faceva delle sue acqueforti: di "genere biondo" e di "genere nero". Distinzione che atteneva alla stato d'animo e non al prevalere del nero sui fogli. maestro del "genere nero" Bartolini considerava infatti Pietro Testa, incisore di acqueforti nitide ma misteriose. Come nitide e misteriose sono queste di Carla Horat.
Gli alberi di Horat, acquaforte, rame, cm25x17 (1985)
Gli alberi di Horat, acquaforte, rame, cm25x17 (1985)
Gli alberi di Horat, acquaforte, rame, cm25x17 (1985)
Intreccio, acquaforte, rame, cm12x16 (1990)
Monotipi e Collage
SudarioSilenzio
Divertissement
Graffito
Te recuerdo Altamira, monotipo, cm50x70 (1984)Te recuerdo Altamira, monotipo, cm 50x70 (1984)
La farfalla, monotipo, cm35x50 (1984)
Fossile, monotipo, cm50x70 (1984)
di Enrico Baj
La tortuosità dei volti, delle rughe, dei peli, dei rami, dei tronchi nodosi insinuandosi avanza, si ravvolge, si stira o si contrae, e ancora procedendo si arronciglia, si strizza o si piega, oppure si tende divincolandosi tra i labirinti e le tortuosità della psiche, incidendo e graffiando e scalfendo la memoria visiva aggredendo il divenire dell'immagine. Il ghirigoro della vita e della sua descrizione affiora tra questi segni enigmatici che partono dalla rappresentazione per approdare alle derive del cosmo, al clinamen degli atomi, alla tempestosa evocazione dell'animo umano.
Tra i moti del cuore e la luce fredda della ragione, Carla Horat Albiero inscrive il firmamento dei suoi astri, la degradazione dei volti, la protesta degli alberi...
En la cubierta: Composizione (particolare), tecnica mixta, cm 50x35 - 1984
Armonia 17 - temperoni su carta incollata su tela, cm 100x150, 1984
Orizzontale - tecniche su matrici di policarbonato cm 50x35,1998
Orizzontale - tecniche su matrici di policarbonato cm 40x30, 1998
L'aria - acrilici su tela, cm 100x120, 1999
Sinfonia in bianco - acrilici su tela, cm 100x120, 2000
Il corsaro - acrilici su tela, cm 100x120, 2000
Rigoletto - acrilici su tela cm 100x120, 2000
Sinfonia azzurra - acrilico u tela cm 100x120, 2000
I due foscari - acrilici su tela cm 100x120, 2000
La terra - acrilici su tela cm 100x120, 2004
Il fuoco - acrilici su tela,cm 100x120, 2004
Paesaggio 30 - acrilici su tela, cm 100x150, 2010
OPERA
Serie di dipinti ispirata dal grande amore per Maria Callas, a lungo pensata e meditata, realizzata prevalentemente tra il 1998 e il 1999. Dai titoli di tutte le opere cantate dalla sublime artisat, una equenza di segni, forme e colori che vuole essere un omaggio alla sua arte e alle sue insuperate doti interpretative. Alcune tele riflettono le atmosfere e i vissuti emotivi dell'opera ("Fidelio", "La sonnambula", Il ratto dal serraglio"). In altre emerge la struttura narrativa ("Tosca", "Rigoletto", "Un ballo in maschera", "Carmen", "I vespri siciliani"). Altre ancora esprimono l'intensità o la drammaticità di singoli eventi ("Manon Lescaut", "Madama Butterfly", "Mefistofele").
C. H.
Dramma, canto e le loro profezie
di Giovanni Maniscalco Basile
Musica, pittura e poesia sono unite da millenni di storia comune; il logos incorporato nell'intonazione melodica dei versi dei tragici greci appare nelle maschere tragiche, nelle scenografie, nelle immagini pittoriche ispirate o funzionali alla musica e nel dramma musicale. Ma il loro statuto comune rimane avvolto nel mistero. I tentativi di accostare le strutture della musica e quelle della pittura hanno solo scalfito la superficie del mistero e fin dai contrappunti di Vasilij Kandinskij hanno dato suggerimenti ma non spiegazioni. Come spesso accade però, il passato remoto illumina più del passato recente. Nel XI secolo, Ruperto, abate di Duth, parlando del canto dei Salmi - testo profetico per eccellenza - dice che è "anch'esso un modo di profetare. "Il profetare di Ruperto è la parola ispirata da Dio che attraverso la musica e il canto rivela la Sua volontà e con essa la Sua conoscenza del futuro dell'uomo. Se la parola profetica incorporata nel canto fa di questo un linguaggio profetico autonomo, le immagini 'ispirate' a parole e musica devono essere partecipi dello stesso statuto. La poesia 'profana' non è profetica a minor diritto dei Salmi: anch'essa, come la parola del Dio, rivela un futuro 'desiderato' o più precisamente un futuro comprensibile e predicibile. L'Habanera della Carmen mostra da un canto il tumulto della passione e il pericolo della perdita dell'essere amato ("E se tu m'ami dei tremar per te!") dall'altro purifica passione e dolore dal terrore dell'ignoto e del terribile dovere della scelta. La poesia libera per un attimo l'uomo dall'ansia di un futuro fatto di continue biforcazioni del destino lungo strade delle quali non è possibile vedere lo sbocco; così anche la poesia e il dramma rispondono al grido del salmista "Ad te domine clamavi, non confundar in aeternum" [Ps.30,2]; permettono all'uomo quindi di non essere scagliato nell'abisso del tempo (aion, riporta la Bibbia dei Settanta [Sept., Ps. 30,2]).
Così come la parola, anche quella che leggiamo, deve essere pronunziata se pur solo nella nostra mente, la musica deve essere udita; quindi l'interprete è l'ultimo anello di una catena perchè solo tramite lui la profezia ci giunge ordinata e comprensibile: non insieme indifferenziato di 'parole' senza senso, ma discorso rivelatore; così proprio l'interprete compie il miracolo finale e ci salva dalla disperazione del tempo. Se la musica 'ispirata' alla poesia aggiunge emozione e profezia alla sue parole, le immagini ispirate da loro aggiungono profezia a profezie.
Panovsky ci ha insegnato che la prospettiva è forma simbolica del discorso pittorico ma non è arrivato a dirci che l'oggetto pittorico è così profondamnete ingabbiato nella forma da esserne quasi un accidente. Questo passo ulteriore nella definizione diun possibile statuto delle arti ci viene dalla musica che in sè non ha oggetto. Da questa constatazione a quella, per nulla paradossale che, per esempio, la Madonna del Libro di Antonello da Messina è 'solo' una rete di vie dello sguardo e non una giovane donna che riflette sul suo futuro essere madre del Dio, la distanza è breve e il percorso facile: se le arti hanno uno statuto comune, l'oggetto 'rappresentato' deve esistere per tutte o per nessuna. Le tele di Carla Horat 'ispirate' alle opere cantate da Maria Callas descrivono i percorsi del canto e del dramma,ma non 'imitano' né il canto né il dramma: 'imitano' piuttosto laparola 'profetica' che è in questo e in quello; una parola che per essere priva di oggetto ha un contenuto profondissimo e diverso per ognuno di noi. Così il deserto di Manon Lescaut ("Sola, perduta e abbandonata"), la luna di Boheme ("qui l'abbiamo vicina..."), i panneggi di cielo e il fuoco di Norma non sono "oggetto" ma, per l'appunto, vie dello sguardo che le percorre per approdare alle profezie della musica: ai luoghi dove la disperazione, la tristezza, il dramma sono composte in un'armonia della forma "che ieri c'illuse", ma che ci illude ogni giorno, provvidenzialmente, su una vita che, senza bellezza (cioè, senza l'illusione profetica dell'arte), sarebbe difficile vivere. E' ingiusto considerare solo il pittore d'icone (della tradizione cristiano-orientale) profeta ed evangelista. Tutti i pittori-e con loro, i musicisti e i poeti-lo sono ognuno a suo modo. Nelle profezie di Carla Horat la "rivelazione" è diretta al miracolo dell'interprete e al suo mistero: una Maria Callas che è voce, musica, ma anche colore e spazio. Se si volesse chiedersi come si realizza la traduzione di una profezia nell'altra, si potrebbe rispondere così: se ci rappresentiamo la vita come lo schema di una rete di probabilità nel quale "Dio sa" cosa può succedersi ad ogni passo. Omero, Shakespeare, Bellini, Verdi ci mettono dalla parte del Dio; ma ci fanno vivere una storia che si svolge per giorni, mesi o anni, in oreo minuti (il tempo che serve a leggere, vedere o ascoltare). Questa abbreviazione del tempo vale da sola a lenire l'ansia del futuro, perchè accorcia l'attesa dell'ignoto.
I dipinti di Carla Horat rendono fulmineo il percorso del tempo e addensano amore, passione, intrighi, dolore, morte attorno a un centro fortissimo, posto strategicamente nelle tele; non necessariamente al centro geometrico, ma sempre al centro 'emozionale', fortemente collegato con un angolo, che è via d'accesso dello sguardo. Attraverso i colori, ma soprattutto attraverso la divisione dello spazio in superfici di colore, si consuma il dramma "lirico", in un attimo bruciante che riserva però sorprese 'melodrammatiche': le tele, come tutte le cose veramente belle, si lasciano sbucciare, rivelando ad ogni strato nuove vie dello sguardo, nuove profezie e infine un'immagine a quattro dimensioni del mondo di due profetesse, Maria Callas e Carla Horat, e del nostro.
Intensità dei colori e della luice di Sicilia, per una vicenda di violente passioni.
"Tristano e Isotta" di R Wagner - 1998
Dall'alcova dove viaggia Isotta sulla nave di Tristano,precipitando attraversdo altri riferimenti della vicenda, si giunge alla morte dei due amanti.
"Turandot" di G. Puccini - 1997
Segni-colore quasi orientali, esatti, freddi, come il cuore della principesa di ghiaccio.
"Aida" di G. Verdi - 1998
Il giallo dorato del sole e del trono vagheggiato da Radames per Aida è contrapposto aigrigi e ai bruni dei masi sepolcrali che soffocheranno i loro segni.
"Norma" di V. Bellini - 1999
"Casta Diva", la preghiera alla luna, il fuoco dell'amore, il fuoco purificatore che si accende nel finale per Norma e Pollione.
"Nabucco" di G. Verdi - 1999
Il fulmine colpisce la superbia di Nabucco. E dopo altre vicissitudini, l'amore finalmente felice tra Felena e Ismaele, la morte di Abigaille.
"Il trovatore" di G. Verdi - 1999
Dalla fascia verticale scura del terribile racconto di Ferrando, al rosso della pira, al nero della morte
"La traviata" di G. Verdi - 1999
Segni-colore tristemente gioiosi, alternati a inquietanti segni scuri, presagio della morte di Violetta, danzano sul fondo rosa-dorato a emblema del bel mondo in cui si svolge la vicenda.
"I vespri siciliani" di G. Verdi - 1998
Segni trasparenti su chiare superfici, per momenti lirici, alternati a segni tormentati e cupi di tragici eventi.
"Rigoletto" di G. Verdi - 1998
Colori gioiosi per la festa alla corte del Duca, il ricordo dell'aria di Gilda ("Gualtier Maldé") nei segni luminosi, senza peso, liberi e leggeri; segni cupi che s'incontrano quasi per caso, come Rigoletto e Sparafucile; segni che s'intersecano dando vita a un quartetto, e di nuovo colori tetri e bui che alludono al temporale, al sacco, al fiume, al tragico epilogo.
"Macbeth" di G. Verdi - 1985
Atmosfera resa truce, quasi truculenta, dai numerosi delitti compiuti otto l'influenza di Lady Macbeth.
"Medea" di L. Cherubini - 1999
Il rosso è il fuoco, protagonista nel finale dell'opera; ma anche il manto indossato da Maria Callas in una "Medea" della Scala.
"I pagliacci" di R. Leoncavallo - 1998
L'iniziale allegria cromatica da festa paesana si tramuta improvvisamente in tragedia dai toni sdanguigni e accesi.
"Andrea Chénier" di U. Giordano - 1999
Il tricolore francese, come simbolo della libertà. Il rosso, amore tra Maddalena e Andrea Chénier, diviene rogo ("bruciava il loco di mia culla") e infine sangue, versato in nome della libertà
"La sonnambula" di V. Bellini - 1999
La verticalità e il movimento ascensionale delle forme suggeriscono il cielo che si chiude per la gioia di Anima.
"Madama Butterfly" di G. Puccini
"Spargi questa fronda di ciliegio-e m'inonda di fior"
"Il barbiere di Siviglia" di G. Rossini - 1998
Su un fondo dalle serene tonalità, segni gioiosi e capricciosi s'intrecciano per dare forma e vita ai diversi accadimenti.
"La Bohème" di G. Puccini - 1999
Campiture di colori interiorizzati, per una vicenda intima e triste su cui, come apparizioni, ecco la luna, la cuffietta rosa, il manicotto.
"Un ballo in maschera" di G. Verdi - 1998
Il racconto pittorico inizia con il fantsticare di Renato nei riguardi di Amelia. passando dall'antro di Ulrica, tra amori, gelosie e congiure, si giunge alla spensierata festa mascherata, resa con piccoli tocchi di colori accesi, e all'improvviso precipitare degli eventi, raffigurati con pennellate rosso-sangue e nero-morte.
"Manon Lescaut" di G. Puccini - 1999
"Sola, perduta, abbandonata-in landa desolata". La composizione orizzontale e i colori lividi sottolineano la solitudine e la disperazione di Manon negli ultimi istanti dlla sua vita.
"Sulle tracce del colore"
7/21 Giugno 2014
Monreale
ex Monastero dei Benedettini
LA TRASCENDENZA LIRICA
di Giovanni Bonanno
Romantica la ragione della sua pittura, pregna di emozione e
stupori. Pittura informale, propria delle avanguardie, che sugge linfa dalla
visionarietà di William Turner e dai silenzi di Caspar David Friedrich, l’uno
immenso nei sommovimenti atmosferici, l’altro naufrago dell’infinito. A questi
maestri del romanticismo europeo e al sentimento di trascendenza guarda Carla
Horat, artista che fonde in sé, nell’interiorità dell’io, le tensioni formali e
i linguaggi della contemporaneità, così pure la geometria di Descartes e l’introspezione
di Pascal. Dialetticamente due contrari che inverano l’esistenza infondendo
lumi d’intelletto e fede. Partecipe di simili dimensioni Carla Horat dà vita a
una pittura non di pura estetica, bensì palpitante dell’essere e della sua
verità di passioni, poesia e sogno, lontana dai realismi. Un informale
avvolgente, la cui forma si struttura di rigore e ritmo, invenzione e libertà,
in una sequenza di tele che si impongono all’attenzione, quasi d’improvviso, a
inizio anni ottanta. Nei decenni precedenti la Horat è dedita al disegno e all’incisione,
memore di Durer e Cranach e che sa di svelamento di realtà altre, ordite di
filamenti e grumi, brandelli di carne e d’anima, turbamenti e gioie. Immagini
di un’astrazione che quaderna nel biancore del foglio, maculato di nero e
gravido d’angoscia, l’essenza stessa della quotidianità che attende nella notte
l’alba. Condizione trascritta da bisturi penetranti, graffianti segni, solchi
labirintici, mai privi di fascino, posseduta da una bellezza, concettuale e
formale, che evoca catarticamente il sublime di Piranesi e il trasalimento di
Morandi. Dall’intimo distilla le sue visioni l’artista, dopo averle intraviste,
sofferte, contemplate. E ognuna altro non è che icona di enigmi. Illuminante la
confessione della Horat: I segni dell’incisione dilatati scoppiano, si fanno
pittura. Rivela la sua idea di continuità dei linguaggi, di unità strutturale,
per cui il tratto pittorico, sfrangiato come da tarlatana, ha valenza
calcografica. La pennellata apre il segno, lo amplifica, lo espande con lo
scatto di gesti sciabolanti la spazialità dei teleri, che si offrono quali
calcinosi murales, traversati prima da onde sismiche, poi da saette oblique.
Sono i Racconti a descrivere la materia ctonia nella sua gestazione. Masse
sussultoree di neri e grigi percorrono orizzontalmente la crosta tellurica,
frammentata nelle faglie, fluttuante nel vomito di un magma allucinatorio che
mugola gemiti d’abisso. Scenario non di morte, ma del parto della natura
naturans che con un tumulto di viscere genera terre e acque, montagne, mari e
fiumi. Genesi, a un tempo terrifica ed esaltante nello scontro di cromie, che
la pittrice satura di frammenti plastici, pigmenti, sabbie, carte, la cui
eterogeneità mostra come il cosmo non cessa di involvere presente e passato nel
futuro. Con il 1984 l’immaginazione si fa eterea. Dominante la chiarità nelle
tele e la leggerezza dei colori, pur nella scansione di tratti che sferzano
campiture candide, cenerine, rosacee, cerulee, plumbee, talvolta trasparenti.
Si sovrappongono, veloci e liberi i colori, formando nuvole e stormi di
albatros e di angeli, cieli turbinosi e volte incantate. Fantasia che, nel
groviglio di un informale richiamante, in parte, l’action painting e la macchia
di Fautrier, celebra l’ansia di luce, la fragranza dell’aria, piogge
sinfoniche, il canto del vento. Visione che nel contrappunto di cromie algide
svela il dramma dell’hic et nunc, mai disperante, che si apre all’invisibile e
sogna la bellezza come catarsi. Chiama Armonie
i dipinti di questa stagione la Horat che colma di cirri e cumuli stratiformi,
balenati da torrenti di luce che inventano, di là da gravitazione, camminamenti
chimerici, onirici planamenti, viaggi astrali verso l’infinito. Percorsi di
istanti o di ore nelle altitudini dell’ignoto che presto si trasformano in
movimenti felpati dentro il perimetro della mente che indaga nell’intus il
sentimento del vivere, giorno e notte altalenanti. Costituiscono vere
apparizioni le Armonie. Inizialmente disarmoniche con bailamme di scie
sfilacciate, intersecanti, convulse. Solo quando il tragitto approda nel
profondo, si effonde la melodia dell’ascensionalità con exultet di forme
affettive, prossime dell’espressionismo astratto di Klein, Vedova e Scialoja. La
tela tramata di gocciolanti tratti vibra di chiarità bigie come ad affermare
che, oltre il dubbio delle congetture, sussiste la possibilità di squarci
rivelanti il pleroma dell’azzurro. Grigiore di cielo come confine tra finito e
infinito, soglia che introduce, di là dalle architetture umane, nella
metafisica che attrae Kandinskij contemplativo della spiritualità. In contrasto
con le Armonie due teleri, martellati di rosso cupo sventolano immagini di
fuoco. Magma incandescente che si espande con vulcaniche tassellature per l’intera superficie. Grido
di colore, arsura di vita, canto di libertà lungo la cinta muraria o la roccia
che si innalza azzerando l’orizzonte. Inaspettata esplosione di natura, meglio
della carne, fremente di deliri che la Horat incide con labirinti di segni. L’informale
espressionista mostra autonomia nella composizione ed ardimento nel tripudio di
rossi chiazzati di ocra, carbone, bianco e di tanti vermigli e porpore che
incendiano ragione e immaginazione. Retabli di impatto visivo la cui cromia
dominante d’ora in poi entra a far parte della tavolozza della pittrice, che al
suo essere intellettivamente svizzera accompagna l’ardore della Sicilia.
Filtrato dalla razionalità, il rosso di Guttuso le appartiene. Molte opere ne
condividono la magia. Rosso monocorde, nitido come pensiero che irradia
trepidazioni. Rosso d’amore volteggiante sulla tela con molteplici pigmenti. Deflagra,
composto, il colore: energia che anima l’opera cui infonde sensi spirituali. Un
colore astratto che evoca eros e thanatos con partiture significanti l’urgenza
di comprendere il relativo e l’assoluto, di cui si ordinano natura e storia. E’
il 1998 quando, dopo aver assistito alla riesumazione dei resti di Federico II,
inizia a dipingere parecchi quadri. Impressionante
la plasticità informale e la concrezione materica di una non-figurazione che
esibisce il teschio dell’imperatore svevo, i tre scheletri, ossa sparse,
frammenti di vesti, stivaletto, sacco, spada. La morte appare cenere all’acribia
scientifica, all’agnostico nulla, ma alla visionarietà dell’artista si connota
al mistero. Lo stupor mundi si presenta nel segno del sovrumano, di una
grandezza, oltre tempo e mito, che seduce Carla Horat, la quale ritrae da più
punti il genio del medioevo. Due registri utilizza l’artista. Il primo è
determinato dall’essenzialità dei tratteggi biancastri e cinerei, non
spettrali, su fondo nero. Non cadaveriche radiografie, ma icone sacre che, d’un
tratto, sembrano lievitare come nuvole nella notte lunare. L’altro che
sintetizza, con tocchi iridescenti, corpi, volti, tuniche, è celebrazione del Vento di Soave con efflorescenza di
giallo e oro e con sfolgorio di pennellate purpuree, rosee, azzurrognole, a
cubi o spirali, che sembrano infondere vita. Simbolico Il manto rosso agitato da folate, con onde spumose di bianchi e di
terre. Lo vede sventolare l’artista sulle spalle di Federico che guida a
cavallo schiere di soldati. Dinanzi all’Hohenstaufen la pittrice rifiuta di
riandare al memento mori, alla vanitas e alla stessa pietas. Dimentica le icone
obitori ali di Mantegna e di Holbein per lasciarsi commuovere dal fulgore del
sarcofago e dal loico e clerico grande – come dante scrive che vi riposa nell’immortalità.
Con colori saturi trasfigura informalmente la Testa di Federico II, che affiora dalla tomba circonfusa di gloria.
Assopita nell’eterno appare come la Musa addormentata di Brancusi. Non cranio,
ma capo lucente di macchie sanguigne, di nivei albori, di rossi festosi. Sempre
più visionaria diviene la pittura della Horat, a fine anni novanta e inizio
duemila. Abbandona la gestualità, il colore materico, la geometria cubica per
lasciarsi ammaliare da stesure aeree, pennellate trasparenti, leggeri tocchi,
forme avvolgenti, tenui cromie. Mentalmente rivisita le impressioni di Monet,
le sensualità di Renoir, le danze di Degas. Non fa parte del loro mondo, eppure
ne sente effluvi e musicalità che trasferisce sulle tele. Compone vortici di
cerchi ed ellissi, nuvole e sogni, sinfonie di cori, cascate scintillanti.
Rinverdendo passioni mai sopite dipinge paesaggi e cieli nell’ascolto rapito dl
teatro di Verdi, ma anche divenendo oniricamente lei stessa alter ego della
Calla, divina interprete del dolore e dell’amore che consumano Mede e Carmen.
In un tempo in cui non solo la poesia, la pittura e la musica romantica, ma
persino l’avanguardia viene negata nell’élan vital dal cinismo beffardo di
certa intellettualità artistica, Carla Horat, riscopre la gioia nello
stupore e nella spiritualità. Di ciò
colma le tele, cosciente che solo recuperando la trascendenza di sguardo e mente può avere senso l’arte.
Romanticismo spirituale che, come chiave esegetica, introduce in un universo
informale che crea forme di limpida visione. Bellezza che è come un riflesso,
come una corrispondenza del cielo scrive Baudelaire. Che sottolinea: Con la
poesia e attraverso la poesia, con la musica e attraverso la musica, l’anima
intuisce la luce che splende al di là della tomba. Poesia e musica possiede la
pittura della Horat che si esalta nel canto dell’eros, si angoscia dinanzi alla
morte, urla disperata contro il destino, si aggrappa alla speranza che scruta
il cielo. Pittura voluttuosa, sempre informale, ispirata da Correggio e da
Cortona. Dal barocco come proiezione dello spirito oltre che della carne. E’
barocco il movimento compositivo, così il tripudio delle forme e la vampa dei
colori. Con voli lirici rivivono Lucia di Lammermoor, Giovanna d?Arco, Aida;
con impeto I lombardi alla prima crociata e I vespri siciliani suonano vittoria.
Pittura di luci, voci, armonie; di aure dolci, ali dorate, lucevan le stelle.
Struggente la sua icona sfolgorante in Rigoletto di rosa, di ombre notturne ne
I Masnadieri, di noumenica apparizione sul grigio cupo ne La forza del destino,
in Manon Lescaut di lattea distesa insanguinata. Seduce romanticamente lo
sguardo, sprigiona melodie, conquista la mente nel deliquio di sensi innamorati
del mistero che unifica poesia, musica, pittura. Dal 2004 in poi la forma mira
maggiormente alla rarefazione. Diafanico il colore nella stesura piatta, mossa
appena da linee impercettibili,. Si fa astratta la superficie, traversata da
fremiti concettuali. Nasce la serie empedoclea di aria, acqua, terra, fuoco, la
cui essenza è metafisica. Tra i dipinti della Horat, lievitanti di atmosferiche
cromie e di sensibilità erotiche, singolare si pone la creazione di un
magnificat che traduce l’interiorità dell’artista. L’annonce faite à Marie è contemplazione di due ombre, plasmata una
di rosa, l’altra di grigio, aleggianti nello spazio. Poesia teologica che si
trasforma in estasi, grazie alla lievità di un pennello che dipinge epifanie.
Nonostante se stessa, Carla Horat svela l’itinerario della pittura, traversata
di dubbi, il suo mondo spirituale. Di un esprit, insieme filosofico e
religioso, che spiega il perché di una creazione d’arte. Il silenzio si
infrange, si fa verbo: segno e colore, ragione altra, inferno e paradiso di
emozioni. Materica nell’incipit, la pittura si spoglia lentamente di magma,
calce, grumi; acquisisce evanescenti velari, risonanze di carne, sussurri di
pensieri, visioni liriche.
Il riposo, acrilici su tela, cm 82x129 - 1990
Il manto rosso, acrilici su tela, cm 82x129 - 1990
Inaugurazione
Esposizione
Carla Horat