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FEDERICO
II E LA CULTURA DEL DUECENTO IN SICILIA
“SALSE, SPEZIE E VINO PER UN BANCHETTO"
di Marisa Buscemi
pag. 225
…
attraverso un breve excursus storico-alimentare si può giungere al banchetto
federiciano simbolo socio-gastronomico di quel sincretismo latino-barbarico cui
va anche riannodata la novità progettuale dell’epoca federiciana. Una novità
che consiste in due interessanti, inconsapevoli, linee programmatiche da cui si
organizza nel tempo l’embrione di altrettante modalità di studio sugli usi
alimentari, una più scientifica che si afferma nel XIX secolo, che è la scienza
dell’alimentazione, un’altra più legata al piacere del cibo che alla necessità
di introdurlo, che è la gastronomia.
Si
può affermare infatti che tutte due gli indirizzi trovano la loro origine nel
regola sanitaria salernitana, dove ai consigli dietetici di tipo medico si
associano anche consigli di tipo squisitamente gastronomico. Dal Flos
Medincinae Salemi, che è il frutto della sintesi operata da collaborazione dei
docenti della Scuola salernitana di cui era protettrice Santa Caterina, si possono
attingere informazioni sui rimedi generali; ama anche sul modo di dar conforto
al cervello, sull’opportunità di dormire al pomeriggio, o di che cosa si debba
mangiare a cena, quali siano i cibi nutrienti o ingrassanti, le qualità del
vino rosso e bianco, i rimedi contro i veleni; sull’uso della birra, su come si
debba cambiare l’alimentazione in relazione alle stagioni; ancora, sulla nausea
marina, o sull’opportunità di lavarsi le mani e mille altri consigli sulle
proprietà terapeutiche, oltre che gastronomiche, di molte erbe. Ed è proprio
attorno al XII-XIII secolo che guardando all’alimentazione si osserva una sorta
di riappropriazione di un certo modo di alimentarsi della popolazione nella
nostra penisola. Ed è veramente interessante come dalle variazioni
dell’alimentazione, che certamente non può essere considerata in maniera troppo
semplicistica come bisogno legato soltanto all’istinto di sopravvivenza, dalla
conoscenza tout court del <modo di mangiare> riflettano numerose
informazioni sui più svariati aspetti della vita di tutto un popolo;
dall’assetto economico a quello sociale, da quello politico a quello culturale,
e se addirittura è vero che < l’uomo è ciò che mangia>, come afferma
Fuerbach, è certo che dai cibi che esso consuma è possibile desumere parecchie
notizie non soltanto di carattere materiale ma anche spirituale. Si diceva che
la conoscenza degli alimenti, e l’uso o il non uso di essi, ha sviluppato una
vera e propria scienza dell’alimentazione che avvalendosi di conoscenze molto
specifiche di chimica, biochimica, biologia, si afferma soltanto come scienza
al principio del nostro secolo. La gastronomia raggiunge prima il traguardo
affermandosi nel sedicesimo secolo anche se una civiltà come quella
greco-romana conobbe i grandi fasti di una cucina alquanto raffinata (non per
niente ancora oggi parliamo di <pasti luculliani>) e ciò fu espressione
dell’alto grado socio-economico raggiunto.
Il
perno dell’economia e della cultura dei greci e dei romani erano l’agricoltura
e l’arboricoltura. La terra coltivata dall’uomo gli offre prodiga messi e
frutti e l’ager è fecondo di viti e
ulivi e perciò regala prezioso vino ed olio. L’ager, spazio occupato dall’uomo, vicino alla civica proprio perché
il cives possa usufruire di prodotti da lui voluti, nati col suo lavoro; un
perimetro lontano dal salus, dal bosco, dalla natura vergine e incolta che si
contrappone alla civica sede di civilista. Si era ben lontani dai tempi
<gastronomici>, si fa per dire, di Galla Placidia, quando i cinque
milioni di italiani mangiavano radici e frutti selvatici ed alcuni cronisti dell’epoca
riferiscono addirittura di fenomeni di cannibalismo. O quando uno dei
successori di Clodoveo, re Childeberto vissuto nel VI secolo, vuole scacciare
da un terreno boschivo il monaco Carileffo che lo aveva messo a coltura , e che
in segno di pace gli aveva offerto del vino. Il re lo rifiutò dicendo che non
avrebbe bevuto quel succo volgare: In quei tempi si andavano affermando più gli
usi di quei popoli che già i romani avevano chiamato <barbari>, dei
Celti, che prediligevano la caccia e la pesca e raccoglievano frutti selvatici,
che bevevano birra e non vino e sidro spremuto direttamente dai meli selvatici.
Gli animali quali maiali, cavalli e bovi erano in allevamento allo stato brado,
una sorta di riserva di caccia, e tutto ciò rappresentava il fulcro della loro
rudimentale economia. Così, via via si contrappose anche in Italia alla
raffinata civiltà greco-romana tutta improntata sulla agricoltura, dove il mito
era rappresentata da Demetra madre che elargisce messi e viti e biondo olio,
una civiltà dove il mito celtico è rappresentato da un gigantesco <Porco>
nutrito per sette anni col latte di seicento vacche o il mito germanico dove il
Paradiso era il luogo dove si sarebbe assaggiata l’inesauribile carne del Saehrimner,
il grande Maiale:<Esso, si legge, ogni giorno viene bollito ed è di nuovo
intero la sera>.
Un
conflitto quindi, uno scontro tra due civiltà che si contrappongono e in tempi
di grandi guerre e carestie, che come riporta Montanari furono 29 tra il 750 e
il 1100, se consideriamo le grandi carestie che coinvolsero tutta l’Europa
tralasciando quindi quelle locali praticamente incalcolabili. Il grande
contrasto è dato dal consumo dei prodotti coltivati o di quelli per così dire
selvatici. Mentre la cucina antica raggiunse un alto grado di raffinatezza ed elaborazione, dove la base era costituita
da farinate, pane, vino, olio, verdure, latte e formaggio, e la carne
rappresentava una minima parte, malgrado certe abitudini che oggi giudichiamo
alquanto disgustose come l’uso indiscriminato del garum, la cucina dei barbari, quella che insensibilmente si afferma
fino all’XI secolo, è rozza e prevalentemente basata su uno smodato uso della
carne e di grasso animale.
Attraverso
questo confronto dei due modi di alimentarsi un brevissimo viaggio ci porta
all’epoca di Federico II, quando appunto comincia una rinascita in senso lato.
La cucina greco-romana era caratterizzata, come già detto, dall’uso del garum
come indispensabile condimento. Era il garum un succo assai denso che prodotto
dalla macerazione sotto sale delle interiora di pesce veniva mescolato ad ogni
sorta di ingredienti: timo, coriandolo, origano, ruta, salvia, cannella, menta,
maggiorana, pepe, scalogno, inula, finocchio, ginepro, il silfio e il ligusticum
ed altro ancora; tutto veniva pestato e mescolato con olio e aceto e anche con
miele, per inumidire il cibo cotto o per essere utilizzato come liquido di
cottura. Un uso che oggi giudichiamo disgustoso o addirittura nauseabondo ma
che bisogna considerare attraverso una analisi critica, come suggerisce in un
interessante saggio l’antropologo Marvin Harris. In Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari egli scrive: <Le differenze sostanziali
tra le cucine nel mondo si possono far risalire a condizionamenti ambientali e
alle diverse possibilità offerte dalle diverse zone.> E racconta la sua
traumatica esperienza di grande bevitore di latte nell’apprendere che i
giapponesi ritengono questa bevanda addirittura disgustosa. Quindi si può affermare
che malgrado il garum la cucina antica raggiunge un alto livello e conosce il
suo culmine con Apicio.
L’identificazione di Apicio fra l’altro non è nemmeno
certa ma si pensa che debba trattarsi di quel gavio Apicio nato nel 25 a.C.,
famoso per i banchetti e per i corsi di culinaria che amava organizzare per i
giovani seguaci. E’ chiaro comunque che l’importanza di questo trattatello
risiede più che nella precisa identificazione dell’autore, nella possibilità di
un raffronto con i <gusti> passati e futuri. Se è possibile affermare che
vi fosse già a quell’epoca una <coscienza > bisogna pur riconoscere che
vi era una certa cura nella scelta degli ingredienti nel tentativo di
raggiungere quell’armonia di sapori che sta alla base della vera ricerca gastronomica
che soltanto così diventa scienza e che come tale tarda ad affermarsi, bisogna
infatti aspettare, come già detto, il sedicesimo secolo. Dalla <buona>
cucina greco-romana si passa impercettibilmente attraverso secoli di invasioni
barbariche ad epoche in cui procurarsi il cibo, anche un minimo sostentamento,
diventa un problema . la maggior parte di terreni furono abbandonati e con essi
le coltivazioni e si giunse all’assenza di un vero e proprio ordinamento
socio-economico. Via via che la società si riorganizzava si costituiva una
sorta di <economia domestica> basata sulla costituzione di un rigido
ordinamento ormai feudale dove una elite molto ristretta, posta all’apice di
una piramide costruita da una moltitudine di lavoratori, che si dovevano accontentare
di poco, si affermava come classe dominante. Si raggiunge questa
<organizzazione> durante il 1000.
E’
soltanto tra il 1000e il 1300 che la situazione socio-economica dell’Italia
comincia ad avere una lenta ripresa grazie soprattutto al ritorno
all’agricoltura e quindi anche l’alimentazione ricomincia ad avere un indirizzo
più sano, con l’introduzione dei prodotti dell’orto, oltre la carne che ha
dominato l’alimentazione di tutto l’alto medioevo. Certo una ripresa lunga e
difficoltosa segnata da guerre e carestie. E’ per lungo tempo che il ricordo
della fame subita segna il modo di alimentarsi della popolazione: un modo dove
la quantità prevale sulla qualità, magiare vuol dire potenza, potenza vuol dire
mangiare molto, è un circolo vizioso che domina la scena tragica memoria degli
stenti patiti. A questo proposito è significativo l’aneddoto riportato dallo
scrittor Liutprando di Cremona
nell’Antapodis. Vi si dice che Guido da Spoleto doveva essere incoronato dal
vescovo di Metz re dei Franchi ma che essendo giunta la <cattiva fama>
delle sue abitudini molto parche gli si preferì Eude, gran mangiatore.
Non
solo il potens deve mangiare ma deve mangiare carne; cosicchè si produce una
profonda divaricazione tra il desinare dei meno facoltosi che fra l’altro
<fanno peccato se si fanno preparare cibi più raffinati di quanto richiede
la loro condizione>, e quello dei ricchi. Possiamo tra l’altro affermare che
esisteva a quei tempi una vera e pro0pria <dieta monastica> dove il
consumo del cibo veniva strettamente correlato alle scelte ideologiche dei
religiosi che si basavano soprattutto sulle rinunce a carattere rituale (il
venerdì non si mangia carne, durante la quaresima nemmeno e così via), rinunce
variabili per intensità e individualmente in relazione al grado di ascesi che
vuol essere raggiunto, che è direttamente proporzionale alla
privazione-rinuncia che include ovviamente il cibo. Infatti questo, non legato
soltanto al bisogno della sopravvivenza ma anche al gusto e quindi al piacere
diventa peccato; così si deve introdurre di regola l’indispensabile per vivere
e nell’ottica della rinuncia meno dell’indispensabile. Così le <diete
monastiche> (almeno ufficialmente) non erano molto ricche. La carne era
messa al bando, forse collegata al desiderio sessuale o forse perché come
scrive Montanari: <L’eden era vegetariano. Dopo aver creato l’uomo e la
donna, Dio assegnò loro per sostentamento ogni pianta che fa seme, su tutta la
superficie della terra, e ogni albero fruttifero, che fa seme>. Quindi è proprio
nei conventi che rinasce la coltivazione dei campi e quel modo di alimentarsi
non soprattutto di carne dei barbari ma una alimentazione varia dove i vegetali
hanno una parte importantissima. E quindi la ricerca del cibo idoneo alla
rinuncia diventa ricerca gastronomica che porta i germi di un nuovo modo di
concepire il cibo. La distinzione dei vari tipi di alimentazione in relazione
alla condizione socioeconomica non è certo tipica soltanto del medioevo, anzi
c’è da dire che forse non è questo il periodo delle più grandi differenze; si
verifica comunque in ogni epoca una distinzione tra cucina ricca e cucina
povera, più simile quindi a quella monastica, più per necessità che per scelta.
Dove la sostanziale differenza tra le due è determinata dal fatto che la cucina
povera sfrutta le risorse locali e si tramanda come patrimonio familiare,
soprattutto in linea femminile, quella ricca è invece frutto di ricerca e
sperimentazione che utilizza anche e soprattutto materiali esotici. E’ chiaro
che il tipo di cucina prevale in epoca di regressione economica, dovendosi
considerare l’altra un genere di lusso. Cosicchè proprio l’epoca barbarica,
dimentica della raffinatezza della <cucina antica>, si accosta ad una
cucina più tradizionale, più semplice la cui unica distinzione è data dalla
quantità. E’ facile tra boschi non coltivati procurarsi grandi scorte di carni
di ogni tipo, infatti vengono descritti i convivi degli Unni, dei Visigoti, dei
vandali come orge di carni arrostite. La ripresa di un certo <gusto gastronomico>
torna appunto con i banchetti nel basso medioevo dove persiste la connotazione
delle grandi quantità di cibo, soprattutto carne, affiancata da un certo gusto
della sorpresa nella presentazione dei vari piatti. Un banchetto tipo medievale
non aveva meno di 18 portate. Alla voce carne si intendevano molti tipi di
essa: cervo al pepe, spalla di cinghiale, orso farcito, pavoni arrosto e cigni
arrostiti, polli al lardo e capponi con salsa garofanata, poi la caccia: lepri,
conigli, gru, aironi,fagiani, colombi e cosi via e dolci al miele, focacce
confetti, torte, pane speziato, e frutta che spesso veniva offerta all’inizio
del pasto. Ancora Biancomangiare (petto di pollo, datteri, fichi, melograni) e
la <cubaita>.
Il
banchetto è luogo di socializzazione, è luogo dove si può ostentare la propria
ricchezza e potenza. Cosicchè il fulcro della casa medievale anche nell’epoca
federiciana è la sala ricca di stoffe e
splendente di luci dove il signore può mostrarsi in tutto il suo sfarzo.
Nemmeno alla corte itinerante di re Federico <meraviglia del mondo si può
parlare di una arte culinaria, anche se già in quegli anni il gusto e gli usi
alimentari cominciavano a d avviarsi alla rinascita. Anche se erano stati
ripresi molti metodi di cottura, ritornava infatti l’uso degli umidi, già
acquisito in epoca romana e perduto in seguito, il cibo era prevalentemente
cotto sul fuoco previa lessatura e la preoccupazione più grande rimaneva quella
delle enormi quantità come retaggio barbarico. Tutto è stato preparato nelle
ampie cucine da esperti e timorosi
cuochi, preoccupati di rendere saporite le carni selvatiche che alla corte di Federico
erano sempre fresche e di giornata. L’aglio, il rosmarino, il timo, la salvia e
quant’altro possa consegnare ai signori un adeguato companagiu.
Federico
gusta soltanto i cibi più raffinati che venivano anche da molto lontano. La sua
frugalità era dovuta ai consigli medico-dietetici di Teodoro.Si dice che
mangiasse una sola volta e che si sottoponesse a lunghi periodi di digiuno non
certo per motivi religiosi. Federico per essere potente non ha bisogno di
mangiare; egli è imperatore consacrato da Dio ed è lontano il tempo i cui suoi
stessi avi dovevano affermare la loro mal tollerata potenza anche attraverso il
consumo smodato della carne. Egli rimane a guardare e permette che alla sua
corte si diano ugualmente festosi banchetti dove alle grandi quantità di carne
si aggiungono una grande quantità di aromi e spezie. Un uso, anzi un abuso, che
non corrisponde affatto, secondo alcuni autori, ad una raffinatezza
gastronomica quanto ad una vera e propria necessità di sofisticazione di merce
quasi vicina alla putrefazione . Quindi grande protagonista dei banchetti
federiciani è l’enorme fiamma che lambisce lunghi e carichi spiedi e accoglie
nella brace morente grandi ricettacoli per la cottura delle verdure e di
legumi. Sfilano davanti alle dame abbigliate con audaci abiti ornati di candidi
ermellini e ai non meno vanitosi cavalieri vestiti di seta e raso, ampi e
pesanti vassoi d’argento colmi di ogni sorta di cibarie; vere e proprie
piramidi di frutta: carni dorate e fumanti cervi, cinghiali, caprioli
contornati di oche, pernici e volatili d’ogni genere che il primo servitore
presenta e taglia davanti al signore. Seduti davanti ai bassi tavoli,
<banchetti>, i convitati mangiano a due nello stesso piatto, usano
pugnali e coltelli o prendono il cibo con le mani che frequentemente
risciacquano in catini portati dai servitori. I piatti sono d’oro alla corte di
Federico che siede ammantato di porpora e d’oro e tutto è innaffiato
generosamente dal vino, la bevanda più consumata a quell’epoca. L’ubriachezza è
quasi uno stato normale; il bere è il vizio del tempo tanto che gli astemi
vengono considerati degli eccentrici. Questa abitudine rimane per tutto il
medioevo, anzi viene addirittura consigliato nella regola sanitaria salernitana
dove si legge: < Si tibi serotina noceat potatio vini, hora matutina
rebibas, et erit medicina> (se hai avuto fastidi dal bere della sera
precedente, al mattino bevi e questa sarà la medicina). I vini attinti dai
coppieri con catini d’argento, a corte, scivolano nelle coppe spandendo intensi
e inebrianti profumi dovuti alla aromatizzazione del vino che veniva migliorata
attraverso l’aloe, l’issopo., il mirto. L’assenzio. E sono aromatiche le spezie
che intridono le carni ad invitare ancora e ancora al bere e ancor più
forti <le salse> che accompagnano
il pesce che viene anche normalmente servito insieme alla carne. Si parla di un
banchetto dove fu servito un asinello arrosto farcito di uccelletti, anguille
ed erbe aromatiche. Tra le salse, avevano una assoluta preminenza l’agresta e
la camellina.
L’agresta
ha una base acida che viene preparata in anticipo (il nostro salmoriglio). La
base acida può essere rappresentata dall’acetosa o dal limone o succo d’uva
verde. La camellina è invece a base di cannella, zenzero, garofano, pepe e vino
aspro, oppure si miscelava con la stessa agresta. Sono salse che vengono messe
prevalentemente nel pesce, per lo più anguille, seppie, polpi, sarde, tonno e
gamberi. C’è fra l’altro da considerare che motivi di carattere religioso ne
favorivano il consumo e d’altra parte le
acque pescosissime erano una riserva inesauribile di cibo soprattutto per le
classi meno abbienti. Il piatto festivo del popolo era la galimafree
probabilmente qualcosa di molto simile anche al tempo di Federico II: una sorta
di zuppa che conteneva carne trita, pollo, lardo, vini, spezie, agresta e camellina.
Purtroppo del periodo, come della maggior parte del medioevo, non si dispone di
fonti scritte sui pasti consumati di consueto, ma rimangono le descrizioni dei
pasti festivi. Solo dal trecento, infatti, compaiono, oltre le traduzioni di
Apicio, che costituiscono una fonte autorevole per quanto riguarda la cucina
antica, nel 1306 un Tritè ou l’on enseigne a faire et à appareller et
assaissoner toutes le vivande selon divers usage de diverse pays e soltanto nel 1310 possiamo considerare il
primo vero gastronomo Guillaume Turel detto Taillevent. Si può comunque pensare
che il pane, insieme con il vino, costituisce il principale alimento dei poveri.
In Sicilia era pane di frumento mentre l’orzo veniva usato per il bestiame.
Bisogna qui fare una piccola sottolineatura riguardo al pane che veniva fatto
con qualunque farina: di miglio, di orzo, avena, farro, spelta, panico, sorgo e
segale, che attraverso, che attraverso il fungo infestante procurò tanti malanni.
Più comunemente le farine meno adatte alla panificazione venivano adoperate al
nord d’Italia per farne palmenta. Ancora si usava il formaggio duro e molle che
era ritenuto alquanto pesante alla digestione; inoltre da verdure e probabilmente dal <malcoquinato>. In
una grossa pentola si mettevano a bollire interiora e carni secondarie; testa,
ventri, piedi di vari animali, e che venivano
venduti dagli scrifizari, più per evitare al bere che per vero nutrimento. Non
certo piatti d’oro o d’argento alla mensa dei poveri, come nei banchetti all’ombra
dei lussureggianti giardini dei ricchi, ma piatti di legno o tutt’al più di
peltro e non certo pasticci di caccia, o vino di Cipro, alle carestie, alle
epidemie e alla generosità dei ricchi. Così villani e cittadini ammirati e
timorosi vedono passare Federico che cavalcando, alle spalle una nuvola di
densi e stuzzicanti profumi, si sposta con la sua corte da castello in castello
ed è seguito da dame appena velate ed eunuchi e dal suo amatissimo serraglio
dove è possibile ammirare un elefante, la giraffa, e un leopardo che tiene al
guinzaglio e così consuma una esperienza unica al mondo come uomo e come re.
Tra poesia e guerra, vivendo nel lusso, abbigliato da porpora e d’oro ma
proteggendo il misticismo povero dei francescani, tra filosofi e scienziati, scienziato
egli stesso e studioso del volo dei falconi tanto da poterlo considerare oggi
anche sotto la veste di etologo, un lontano Lorenzo, egli scrive infatti il
trattato della falconeria, in guerra come crociato, in lotta con i papi, egli
incarna una delle umanità più contrastanti della storia medievale; odiato e
idolatro, il re bambino dà ordine che gli preparino le violette candite, che
riteneva cariche di forza terapeutica, per il suo arrivo, mentre accarezza il
suo inseparabile falcone.
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