MOSTRA D'ARTE
di
PITTURA E FOTOGRAFIA
a cura di Giampaolo Trotta
GIAMMARCO AMICI
Frammenti
di vita e di morte, lucidi aneliti di pace
"Un dì vedrete
mendico un cieco errar sotto le
vostre
antichissime ombre, e
brancolando
penetrar negli avelli, e
abbracciar l’urne,
e interrogarle. [...] Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme
col canto,
i prenci argivi eternerà per
quante
abbraccia terre il gran padre
Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore,
avrai,
ove fia santo e lagrimato il
sangue
per la patria versato, e finché
il Sole
risplenderà su le sciagure
umane"
Ugo Foscolo (1778-1827),
De i Sepolcri
Giammarco
Amici, fotografo, Combat Media Camera
dell'esercito italiano, ha oramai al suo attivo importanti mostre sia in Italia
che all'estero.
In un
mondo nel quale l’arte, seguendo gli impulsi e le nevrosi e il disincanto dell’anima
contemporanea, si è allontanata dalla realtà per inseguire - sia nel campo
della pittura, sia in quello della stessa fotografia - miraggi informali,
astrazioni più cerebralmente concettuali, le istantanee mirabilmente
impressionate da Giammarco Amici ci testimoniano, invece, come proprio
nell’oggettività del reale è sempre insito il seme più puro e profondo
dell’emozione umana.
Le
sue fotografie non sono mai un cinico o artefatto compiacimento sugli orrori
delle guerre, per destare emozioni che attraggano amanti della violenza e
dell'orrido, né, d'altro canto, una sterile e demagogica denuncia sociale,
astratta o politicizzata; esse non ritraggono mai l'effetto devastante su corpi
umani uccisi o mutilati, in altre parole non raffigurano mai l'evento bellico in
sé, ma gli effetti della guerra sul territorio, sulla città, sulle usanze e sui
costumi delle popolazioni, sulla vita di uomini e di donne, su anziani e
bambini. Una pacata e lucida riflessione, senza retorica e senza enfasi, sulla
morte e sulla vita, aprendosi a un desiderio di pace concreto ed equilibrato,
mai utopico o deviato da ideologie, come si conviene ad un vero artista super partes e - aggiungiamo - ad un
militare che bene rappresenta lo spirito del nostro Esercito in quelle missioni
di pace all'estero che hanno caratterizzato gli ultimi decenni.
Amici,
quasi come un novello Omero di foscoliana interpretazione, con le sue foto
immortala come ‘icone’ nell'immaginario collettivo e nella
coscienza sociale quelle persone qualunque, travolte da tribolazioni, da dolori
incommensurabili e dalla morte, tramandandone la memoria che così la Storia mai
più potrà cancellare.
Un
viaggio nel tempo e nello spazio, un percorso, che prende le mosse dagli orrori
della Seconda Guerra Mondiale e dalla Shoah, per attraversare le guerre nell'ex
Jugoslavia degli Anni Novanta e le contrastanti realtà afghane del XIX secolo.
Un percorso che si svolge come un fil
rouge de la Mémoire.
Amici,
attraverso le sue narrazioni di uomini, di popoli e di nazioni in eterno
cammino, radicati ad ataviche tradizioni atemporali e contemporaneamente spinti
verso nuovi e sofferti orizzonti, ci coinvolge e ci affascina, mostrandoci
aspetti di morte indirettamente riflessa dai suoi effetti di distruzione.
Foto
formalmente impeccabili, sia quando si tratti di paesaggi impressionati con la
luce sfolgorante e zenitale o in controluce ed in dissolvenza cromatica, come
quinte dipinte ad acquerello, sia quando egli riprenda scene, personaggi,
ritratti come scolpiti nella saturazione del colore.
Il
viaggio dell’obiettivo fotografico di Giammarco Amici attraverso i colori
intensi di Paesi per molti aspetti ancora sconosciuti a noi occidentali o non
pienamente compresi ed esplorati nella loro complessità, accentua ed esalta il
naturale confronto tra la percezione tecnica della fotografia e il suo costante
‘inveramento’ nella mediazione creativa dell’interpretazione artistica; volti
segnati dal tempo, occhi splendenti di luce, colori intrisi di mistero, visioni
di paesaggi dell’anima ricorrono nel viaggio e nella ricerca di Amici come
un’avvolgente danza di vita e di morte, da cui imparare a cogliere l’invito a
fermarsi, a sanare la fugacità dello sguardo nella dilatazione
dell’osservazione, nel prolungamento della parola sino al compimento della
riflessione. Queste immagini di una vita per molti aspetti arcaica e atemporale
rispetto all’occidentale fuga ossessiva nel tempo, ribaltano le quotidiane e
artefatte cronache giornalistiche di questi mondi lontani e ci offrono motivi
per ritrovarvi originari e comuni archetipi dell’esistenza umana.
Un viaggio nella Storia
ma anche un percorso interiore attraverso realtà sconvolgenti per giungere ad
un'autocoscienza etica e sociale, donandoci foto che vanno ben oltre quelle di
un semplice reportage, arrivando a ‘bloccare’ nello scatto
l'anima di un popolo, scatto che nell'immaginario collettivo diverrà ‘icona’,
proprio come è già accaduto per il grande statunitense Steve McCurry.
Alcune
foto, in un algido, austero e perfetto bianco/nero, ci documentano - silenti,
senza enfasi, nella loro agghiacciante realtà - il campo di morte di Dachau, un omaggio
all'Olocausto tutto e al dovere supremo della memoria. Si osservi
particolarmente Il lavoro rende liberi
(l'ironico e tristemente famoso ‘benvenuto’ che accoglieva gli internati
nei campi e conosciuto, nel suo tragico significato, solo dagli aguzzini
nazisti), recentemente segnalato dalla giuria per il settore della fotografia
nella mostra internazionale d'arte Il
segno della Memoria, organizzata dal Comune di Firenze in occasione del
Giorno della memoria del 2014. Poi, il colore conduce alla contemporaneità: una
foto in evanescenti colori pastello (grigi, vedi, celesti) si accende solamente
nel vaso di tulipani che ‘segna’ la memoria (Non Dimentichiamoli). Con Libertà,
concetto non imprigionabile (un piccolo uccello che si è posato sui moderni
reticolati d'acciaio in Afganistan) il messaggio si fa universale ed
impalpabilmente poetico.
Poi,
i riflessi delle atrocità della guerra in Bosnia e Kosovo. Scorci in lapidaria
fuga prospettica dei nomi dei morti durante il genocidio del 1995 posti nel
sacrario di Sebrenica, il giardino di una casa con il cimitero dei dimenticati,
le case mitragliate durante il passaggio dei Serbi, il campo minato sotto la
neve veduto nell'inquadratura del filo spinato a ridosso di abitazioni a
Sarajevo; le tombe accanto alle panchine nel parco comunale sempre a Sarajevo,
che ci rivela la naturalità e la consuetudine alla morte accanto alla vita, una
vita che prepotente, al di là dell'emozione prima, prende il sopravvento sulla
morte, ma senza accenti di pragmatico cinismo come un occidentale non abituato
a tutto ciò potrebbe pensare. E ancora la ricerca disperata di sopravvivere e
di trarre da tutto un sostentamento, come simboleggia l'immagine dei proiettili
riciclati, incisi con tecniche artistiche antiche ed artigianali e riproposti
come penne souvenir, in una foto anche esteticamente di grande suggestione, con
la raggiera di ‘proiettili
di scrittura’ come in un
rinnovato caricatore non più di morte. Colline di steli in scenari quasi da
poetico paesaggismo tardo-ottocentesco, ma che sono reali e concrete
meditazioni sulle sciagure umane: in agghiaccianti silenzi esistenziali,
cimiteri musulmani, disseminati un po' ovunque nella città bosniaca, che, tra
il 1992 ed il 1995, ha sofferto più di tre anni di duro assedio da parte delle
forze serbe. Su tutto, però, nuovamente, l'affermarsi della vita, dell'amore,
della speranza, della pace: il tenero bacio di due giovani nonostante la
guerra, le moschee illuminate di notte che fanno svettare i propri sacrali
minareti nell'oscurità della notte, della notte dell'anima.
Al di
là dei paesaggi afghani, sono i suoi ritratti ad affascinarci e a coinvolgerci,
ritratti dove spesso emergono grandi occhi pieni di magnetismo, luci cupe
oppure trasparenti e cristalline. Così, i suoi ricordi divengono il commento
più pertinente e pregnante a quel ‘viaggio’ di immagini che ci conduce da questi
incantati paesaggi alla crudezza dell'indifesa e corrucciata bambina cresciuta
innanzi tempo, privata del ‘suo’ tempo dei giochi, già - alla
sua tenera età - dal capo coperto, in mezzo alle armi che la proteggono, in un
dilaniante contrasto tra pace e guerra, tra giustizia ed ingiustizia, fra
sfruttamento e cooperazione. Proprio questa immagine-icona della presenza non
belligerante dell'Italia in Afghanistan, già copertina del volume di Amici Afganistan: un paese in guerra con se stesso
del 2013, è stata inclusa nella Triennale di Roma di questo 2014. Una rilettura antologica che diviene
storia pacata e riflessa, atto ‘riflettuto’ di denuncia, emozione ai più alti
livelli della cultura e dello spirito umano. Ecco allora bambini indifesi e
bambine troppo presto divenute donne, fra vesti come drappi dipinti in un
quadro del Rinascimento e verso la solitudine dei quali si dirige materna una
mano di anziana; statuarie giovani avvolte in celesti burqa come cariatidi
greche oppure l'insolita (per noi occidentali) realtà di una famigliola
tradizionale in motocicletta sullo sfondo di reticolati e fili spinati.
Infine, alcune immagini latinoamericane
- di Cuba (solitari musicisti, artisti locali, tramonti luminosi) - e africane
- dello Zanzibar e della Tanzania (pescatori in controluce e uomini masai):
paradisi incontaminati e luoghi di felicità nell'immaginario collettivo poetico
occidentale, ma che, nella loro aura dorata, celano sottilmente solitudini e
povertà, miserie e ingiustizie, pur avvolte in un rutilante gioco cromatico di
un paesaggismo esotico che non chiude - nonostante tutto - la speranza nella
luce in giustizia di un Sole che ‘foscolianamente’ continua a risplendere
sul dolore e sulle sciagure umane.
Giampaolo Trotta
Gianmarco Amici - "Afghanistan"
NICOLE GUILLON
"Invitation au voyage"
ovvero un viaggio poetico ed interiore verso
l’illuminazione della Bellezza che vince la Notte dell'iniquità e della morte
"They say Ideal Beauty cannot enter
The house of anguish. On the threshold stands
An alien Image with the shackled hands,
Called the Greek Slave: as if the sculptor meant her
(That passionless perfection which he lent her,
Shadowed, not darkened, where the sill expands)
To, so, confront men's crimes in different lands
With man's ideal sense. Pierce to the centre,
Art's fiery finger, and break up erelong
The serfdom of this world! Appeal, fair stone,
From God's pure heights of beauty against man's wrong!
Catch, up in thy divine face, not alone
East griefs but West and strike and shame the strong,
By thunders of white silence overthrown!"
The house of anguish. On the threshold stands
An alien Image with the shackled hands,
Called the Greek Slave: as if the sculptor meant her
(That passionless perfection which he lent her,
Shadowed, not darkened, where the sill expands)
To, so, confront men's crimes in different lands
With man's ideal sense. Pierce to the centre,
Art's fiery finger, and break up erelong
The serfdom of this world! Appeal, fair stone,
From God's pure heights of beauty against man's wrong!
Catch, up in thy divine face, not alone
East griefs but West and strike and shame the strong,
By thunders of white silence overthrown!"
Elizabeth Barrett Browning (1806-1861),
[1] "Si dice che la Bellezza Ideale non possa entrare nella
casa d'angoscia. Una figura straniera sta sulla soglia,
con le mani incatenate, la Schiava greca:
come se lo scultore eleggesse lei
(quella perfezione impassibile che egli le diede,
in ombra, non oscurata, là dove la soglia si dilata)
per confrontare, così, i crimini degli uomini nei differenti Paesi
con il senso dell'ideale insito nell'uomo. Penetra nell'intimo,
infuocato dito dell'arte, e spezza presto
la schiavitù servile di questo mondo! Fai appello, oh bella pietra,
dalla pura sommità della bellezza di Dio contro l'errore malvagio dell'uomo!
Cattura, nel tuo volto divino,
i dolori sia dell'Oriente sia dell'Occidente e colpisci ed svergogna i potenti,
abbattuti da tuoni di bianco silenzio!"
casa d'angoscia. Una figura straniera sta sulla soglia,
con le mani incatenate, la Schiava greca:
come se lo scultore eleggesse lei
(quella perfezione impassibile che egli le diede,
in ombra, non oscurata, là dove la soglia si dilata)
per confrontare, così, i crimini degli uomini nei differenti Paesi
con il senso dell'ideale insito nell'uomo. Penetra nell'intimo,
infuocato dito dell'arte, e spezza presto
la schiavitù servile di questo mondo! Fai appello, oh bella pietra,
dalla pura sommità della bellezza di Dio contro l'errore malvagio dell'uomo!
Cattura, nel tuo volto divino,
i dolori sia dell'Oriente sia dell'Occidente e colpisci ed svergogna i potenti,
abbattuti da tuoni di bianco silenzio!"
Hiram Powers (1805-1873) fu uno scultore neoclassico nordamericano che,
come la Barrett Browning, visse a Firenze, dove nel 1843 scolpì la statua
ricordata nel sonetto, poi replicata varie volte (una è conservata alla "Yale
University Art Gallery" di New Haven, Connecticut, un'altra copia, del
1847, al Newark Museum, New Jersey): al di là della schiava cristiana (si veda
il simbolico ciondolo della croce tenuto nella mano destra) fatta prigioniera
dei musulmani turchi, rappresenta l'archetipo di Venere classica (chiaro il
riferimento alla Venere Capitolina e alla Venere dei Medici, a
loro volta desunte dalla perduta Afrodite cnidia di Prassitele, ma anche
debitrice della Venere italica di Antonio Canova, finita nel 1812 ed
ammirata da Ugo Foscolo), ma veduta in catene, come, appunto, una schiava greca,
cioè la Bellezza che salva imprigionata dal cinico pragmatismo del Male. Da sempre scultura
simbolica che anela alla libertà, negli Stati Uniti gli
abolizionisti ne fecero un vessillo, soprannominandola la schiava virginiana,
come oppressa dagli schiavisti in qualche piantagione del Sud. In seguito,
divenne anche un simbolo per le femministe che la celebrarono elevandola a
protagonista dei diritti civili calpestati dalla brutalità maschilista. Un'altra copia della statua di Powers, di minori dimensioni
(cm 60), è recentemente comparsa sul mercato (Pandolfini Casa d'Aste, Firenze, catalogo
dell'asta del 15 aprile 2014, n. 2.1, lotto n. 166, p.137), ma con dizione
imprecisa ("Scuola del sec. XIX, Allegoria della Pazienza").
L’opera esposta nel Complesso Monumentale
dell'Ex Monastero dei Benedettini a Monreale della pittrice e fotografa francese Nicole
Guillon, nell'ambito della mostra "Finché
il Sole...". Bellezza e dolore umano, sorprende per la sua alta
qualità. Osservare le sue opere è seguire un percorso fotografico-pittorico
alle sorgenti del colore e della Luce. Le sue istantanee sono realiste, eppure
le sue fotografie vogliono essere, comunque e sempre, impressioni interiori che
arrivano al cuore delle emozioni. La fotografa immortala l’istante irripetibile
così come mai più si verificherà. I suoi paesaggi ed i particolari rimandano ad
equilibri interiori ed universali, dove tutto parla della vastità del Cosmo nel
quale vive e si dibatte l'uomo. Un voyage
intérieur attraverso realtà e paesi vicini e lontani. Mediante i suoi
paesaggi - cieli, mari e fiumi, riflessi e nebbie, ponti e muri - le sue
narrazioni di uomini, di donne e di popoli dell'Asia e dell'Africa ci rendono
partecipi di una realtà palpitante e mutevole come l’attimo. Fotografie che ci
restituiscono scenari diversi e non scontati rispetto a quelli proposti dai mass media, attraverso momenti semplici
e coinvolgenti, avvolti di un’ineffabile sacralità anche nell’atto più
comunemente quotidiano.
Figure di bambini che certamente hanno
sofferto e soffrono la fame, vecchi che hanno avuto una vita grama, tanto
dolore e sofferenza dell'esistenza umana e morte rimangono sottesi alle foto
della Guillon, ma mai vi è un senso di ripiegamento su noi stessi, un cercare
nel passato le motivazioni 'analitiche' e le cause di questo lato dolore per
individuare ‘colpe’ e ‘colpevoli’ (come
colonialismo ed imperialismo), uno sterile J'accuse.
Nella ferita dei corpi e dell'anima La Guillon intravede un'imperdibile
occasione per giungere ad una conoscenza profonda del Sé, come se solamente
attraverso quelle ferite anche di morte si potesse per quei Popoli giungere ad
un'autentica autocoscienza che ne disveli l'insita grandezza della loro vita e
della loro cultura.
Nel tempo della globalizzazione e delle
virtuali second-life, Nicole Guillon intraprende un ‘esodo’ autentico con un
piglio ed un passo originario, quasi rinnovando l’epica esploratrice dei viaggi
nelle terre mai viste prima, che oggi, più che condurla lontano a cercare segni
di altri insediamenti umani, la sospinge nella profondità archetipale delle
fluide forme e dei lucenti colori, in uno spazio senza confini e in un tempo
senza cronologia ma che non è mai favola utopica o alienante realtà virtuale.
Le fotografie di Nicole vogliono essere, sì,
impressioni ‘oniriche’, ma dove per onirico non deve
intendersi la peculiarità del sogno favoloso e irreale, romantico e nostalgico,
distaccato dalla realtà. Onirico nel senso di ‘mitico’, nell’accezione
etimologica del termine, vale a dire di visione simbolica quasi profetica o
illuminata del ‘racconto’ umano.
L’istante che viene immortalato dalla Guillon
è una sorta di comunione-fusione fra l’autrice e il Cosmo che la circonda,
un’unione non tanto da lei intesa in una rinnovata accezione umanistica con la
centralità superiore dell'Uomo rispetto alla Natura che lo completa e solamente
lo attornia, quanto in quella di un universo filosofico orientale,
indistintamente legato quasi inconsciamente alla dimensione Zen. Così, quei
paesaggi e quei particolari di paesaggi rimandano ad equilibri interiori ed
universali, dove tutto parla della vastità del Cosmo e della grandiosa presenza
dell’uomo - nel bene e nel male - dentro il mondo (pur intuendoli nei
particolari della natura o nella piccolezza di infiniti e reiterati gesti umani
quotidiani).
Alle origini di tutto, all'inizio del suo voyage, Nicole Guillon
ha creato una sorta di antefatto, una prefazione di silente meditazione, che
diviene monito profetico per non infrangere quel misterioso equilibrio
universale del quale si è detto: una ‘memoria’ per non cadere
nell'orgoglio superbo della superiorità della specie umana o di una specifica ‘razza’
rispetto alle alte entità componenti il Tutto: la tentazione oscura del
razzismo e della pulizia etnica. È il ricordo del genocidio ebraico durante la
Seconda Guerra Mondiale, la macchia infamante della Shoah, posta all'inizio del
percorso di questa mostra siciliana, nella parete di sinistra della Sala del Monrealese, entrando. D’altra parte,
l’essere umano si costruisce sulla fragilità della memoria, senza la quale è
come un albero senza radici: la memoria - Zakhòr, un imperativo
categorico per la cultura ebraica - che deve profondamente penetrare nella
coscienza e conficcarsi nel cuore, come la radice del termine ebraico
significa. Memoria e oblio: due opposti tra i quali si dibatte tutta la storia
umana. Si tratta di ampi pannelli in "forex" (già esposti alla mostra
internazionale Il segno della Memoria svoltasi a Firenze nel gennaio di questo
2014) interamente ricoperti di foto in bianco e grigio, immagini che ritraggono
scorci e particolari della "Fondation de la Mémoire de la Shoah" a
Parigi, assemblate come un vasto collage, nel quale, sul ‘fragore’
del mare infinito - dirompente in un calmo ‘silenzio’ - dei nomi
dei deportati trucidati nei campi di sterminio nazisti ("thunders of white
silence", "tuoni di bianco silenzio", per citare E.
Barrett Browning) sono gestualmente inserite a pennarello bianco sue
riflessioni e citazioni sull'Olocausto. Al di sopra delle foto, dove emerge a
caratteri cubitali "Zakhòr", vi sono anche alcuni suoi quadri
astratti, come tasselli incandescenti della memoria stessa: tele informali e
liriche, dai toni latamente epici, dove il colore ed il bronzo apparentemente ‘eterno’
- che si liquefa in scaglie o scorie senza più apparente ‘forma’
- ci fanno intuire indefinite e mutevoli "forme" dello spirito.
La mistica della memoria vera - paiono suggerire i lacerti metallici di Nicole
- non sta nei monumenti grandiosi ma nei nomi di quelle vittime che
continueranno ad esistere finché qualcuno li ricorderà: le lettere che
compongono i loro nomi divengono così, come direbbe Orazio, una memoria più
duratura del bronzo ("aere perennius"). In altre parole, la memoria di quei
tragici eventi non deve esaurirsi nella sola celebrazione, ma penetrare
nell’intimo di ognuno di noi. Le piccole tele della Guillon, pertanto, insieme
alle foto di questo fondale contestualizzante della sua istallazione, sono viatici semantici e
semiologici del ricordo, della presa d'atto della Storia nelle sue variegate
componenti psicologiche di coloro che tale Storia hanno fatto. Il presupposto
etico al moderno voyage iniziatico di Nicole lungo le strade del Mondo.
La mostra della Guillon non rappresenta né
vuole essere un reportage esaustivo,
né un semplice momento di sensibilizzazione sul dramma della povertà e della conseguente
elevata mortalità in Africa o in Oriente, ma una delicata interpretazione, in
chiave artistica e di donna, ed una riflessione su alcuni aspetti della cultura
di Popoli di antiche tradizioni, astraendone considerazioni sottese più
universali. Una lettura che tiene presente la profondità della storia e
l’estemporanea irrazionalità delle sensazioni, la durezza del vivere gramo e
l’ascetica ed imperturbabile ricerca di una Luce assoluta, i sorrisi che
nascono sui volti dei bambini, l'atarassia che segna quelli dei vecchi. Ritratti
dove sempre emergono i connotati psicologici non solo dei singoli individui, ma
di tutto un Popolo.
Come fantasmi, dopo la visione delle sue
foto, ci affiorano alla mente le persone che ha bloccato nel suo scatto, che
avevano in se stessi la speranza di un sogno sgargiante come i colori delle
loro vesti e dei loro tatuaggi. Sogni spesso infranti, ma non calpestati dal
destino duro di un karma accettato in tutta la sua potenza, ma dalla mano
spietata di un regime dittatoriale, settario, o da equilibri internazionali che
vogliono soggiogare interi Popoli alla ragione del mercato, pur senza -
ripetiamo - alcun senso di rancore o di inutile odio. Quasi un’affascinante ed
impeccabile parabola postmoderna, tra Zen e Mille e una notte.
Indonesia, Mali, Nepal, Birmania, Tibet,
India, Oceania, Guinea, Benin, Sahara sono solamente alcune delle tappe del suo
variegato ‘viaggio’. Tutta una serie di ritratti di
bambini, donne ed anziani, immortalati in pieno sole o in controluce nei loro
abiti talora sgargianti: sorrisi di speranza in contrasto con volti solcati da
rughe profonde che ci fanno intuire il trascorrere del tempo in una vita
provata dagli eventi.
Molte immagini riprendono il particolare di
mani di uomini e di donne, mani stanche ed anziane o alacri e giovanili
nell'atto operoso, ‘incrostate’ di farina e di terra, che ‘raccontano’ storie come e ancor più degli stessi volti, mani che talora
sembrano quasi fondersi in simbiosi metamorfica con la Madre Terra, con
quell'argilla di muri che stanno costruendo, muri segnati, graffiti da simboli tribali
atavici, per noi misteriosamente incomprensibili.
In particolare, i suoi paradigmatici e quasi
astratti deserti africani non sono dimensioni esistenzialiste, disincantate e
pessimistiche dello spirito, luoghi dell'aridità senza vita, ma luminosi
equilibri di rapporti in sintonia tra l’Uomo ed il Mondo, la Natura,
l’Universo. Un viaggio interiore privo di drammatizzazioni filosofiche
occidentali e proiettato nella luce calma del Tutto e nella compenetrazione tra
Uomo e Natura, dove il deserto è sentito e vissuto come l’anima vibrante e
palpitante della Terra, quel deserto che sempre è stato topos
dell’interiorità, energia dell’essere cosmico. Pacificazione, quindi, tra
Natura ed Uomo, veduti come facce (di equivalente valore) di un Assoluto nel
quale l’anima del Mondo e quella singola umana si perdono e confondono, nel
mare di sabbia del deserto sahariano, mosso, accarezzato e plasmato in eterno
dal vento. L’obiettivo fotografico sembra qui cogliere istantanee di un mondo
che ancora non c’è, di un tempo al suo principio quando tutto ancora potrà
accadere, in profonda simbiosi con quel labirinto dell’animo umano in cui la
libertà delle scelte è il crocevia del possibile.
In dinamico contrappunto con le elegantissime
immagini fotografiche e a loro reciproco completamento sono le sue tele
dipinte. Trait d'union tra le foto di
uomini e di donne e i suoi quadri - informali e luminosi come dipinti di
Antonio Corpora - sono le immagini fortemente cromatiche e fluidamente
magmatiche ed eteree di cieli, nubi e tramonti, colti con l'obiettivo
fotografico alle più svariate latitudini del Mondo (dall'Indonesia alla
Birmania). L’origine pittorica della sua ricerca artistica le ha consentito di
trovare, mediante un’essenziale gestualità composta da segni, forme energetiche
che mutano nelle stesure del colore (rossi, neri, grigi, bianchi, azzurri) così
come cambiano gli uomini dal concepimento alla morte. L'energia non attraversa
lo spazio ma lo costituisce. Quindi è il segno gestuale, la fiammata guizzante
cromatica che si trasformano in un codice comunicativo evidenziando la propria
entità vitale. La tela filtra le forme che si costituiscono come proiezioni
immaginarie, diventando simboliche nel momento in cui intercettano flussi
energetici. Nel buio Nicole ritrova la luce, scioglie il dolore della guerra e
della morte risalendo al suo inizio cosmogonico. Il morire ed il rinascere, il
perdersi ed il ritrovarsi permette di conseguire la meta.
Quadri astratti ed informali, ma di un
informale lirico, zone di sensibilità pittorica ‘immateriale’ dalla
dimensione psicologica d’una spazialità d’allusione cosmica, che si richiamano
e descrivono ancora una volta cieli e paesaggi ‘interiori’, accenni di
orizzonti urbani, una natura sconfinata, incontaminata e meravigliosamente
mutevole, dai risvolti, per così dire, vicini al concetto "Satori":
nella pratica dello Zen, l'esperienza del risveglio spirituale, nel quale non
vi è più alcuna differenza tra colui che ‘percepisce’ e l'oggetto della
percezione, momento in cui l'intera esperienza singola e personale e quella
cosmica si fondono in un unico istante. Obiettivo dello Zen è proprio pervenire
al Satori, l'illuminazione che porta ad un più alto livello di coscienza,
momento in cui l'intera esperienza singola e personale e quella cosmica sono
proiettate e si fondono in un unico istante. Ciò comporta un annullarsi
cosciente del soggetto, non derivante da una rinuncia al mondo esterno, ma
dalla partecipazione ad esso tramite un atto assoluto. Tale processo è ben
espresso dalla forma poetica dell'haiku,
una poesia dai toni semplici che trae la sua forza dalle suggestioni della
natura e delle sue stagioni. L'haiku
presenta una sintesi di pensiero e d'immagine e la mancanza di nessi evidenti
tra i versi crea un ‘vuoto’ ricco di suggestioni, stato germinale di tutte le
cose, condizione di ogni possibilità, contenitore del Tutto. Così, i quadri
della Guillon, una sorta di haiku
pittorico, rappresentano l’annullamento della pittura figurativa, un ‘vuoto’
pregno e dinamico. I suoi quadri astratti si riferiscono ad un contesto
teoretico/artistico e ad uno filosofico/metafisico: l'opera d'arte pare
consistere nel combinarli insieme, facendoci percepire e capire un'idea
astratta. Non si tratta di ‘azzeramento’ della pittura in attesa di una nuova
fonte di ispirazione, bensì in quel ‘vuoto’ è contenuto il ‘tutto’. Le sue tele
hanno un linguaggio segnico, dove l’incisione segnica assurge talora al valore
etimologico del termine.
Come mandala, i quadri-viaggi iniziatici
della Guillon hanno un’aspirazione all'ieratica, statica e atarassica totalità
illuminata e ordinata, ma il ‘frantumarsi’ naturalistico - che, con il suo
richiamo ad un lato paesaggismo, sgretola l’armonia astratta centralizzata -
introduce una concezione dinamica di ‘vento’ generatore, di forza distruttrice che
dà la vita, cioè di "ànemos", dove si recuperano contestualmente anche
processi spirituali e culturali occidentali e mediorientali di ricerca della
Luce, dalle simbologie ebraiche contenute nella Torah al Cristianesimo
medioevale mistico, fin'anche - in certo qual modo - alla chiarezza cartesiana
e poi illuministica, alla vibrazione luminosa ed intimistica dell’istante
irripetibile dipinto dall’Impressionismo. Talora i simboli e i colori desunti
da culture africane divengono apporti materici tridimensionali, vere e proprie
tessere musive di una linea-percorso simbolica, filo conduttore di paesaggi
semiologici dall'astrazione laicamente sacrale, come le distese di mosaici che
impaginavano le pareti delle cattedrali arabo-normanne siciliane. Nella grande
sala espositiva del complesso benedettino di Monreale, impreziosita dalla
pittura murale nella volta raffigurante l'Arcangelo
Gabriele che suona la tromba - voluta
dall'arcivescovo di Monreale e abate del monastero cardinal Cosimo De Torres (1584-1642)
nel 1641 e comunemente attribuita a Piero Novelli detto il Monrealese
(1603-1647) - trovano spazio opere pittoriche come tasselli di grande e di
piccola dimensione, che segnano il percorso intorno all'Uomo negli spazi
definiti dalle finestre e dall'imposta dell'arco della volta a padiglione
unghiato. Racconti pregnanti di emozioni, film musivo e ‘mosaicale’. Intorno ai grandi
quadri la Guillon ha voluto inserire foto di diverse dimensioni per ottenere
una composizione non rigida, cercando di dare una logica al racconto-mythos dell'Uomo che questa galleria di
colori e di immagini propone. Ogni capitolo di tale racconto, cioè ogni spazio,
è definito dalle composizione architettonica della sala stessa, mostrando,
alternativamente, immagini dell'Asia e dell'Africa. Così, le cromie delle tele
si sposano e costituiscono un continuum con
gli arancioni ed i bruni africani, caldi e a volte violenti, oppure con i grigi
dolci, eterei ed astratti dell' l'Asia. Infine sulla parete di fondo della
sala, che si vedrà appena entrati, a pendant con la parete diametralmente
opposta contenente lo Zakhor, sono collocati due quadri, Brazil e Notte nel deserto,
simili nelle forme e nei colori, circondati da foto di cieli mutevoli come
l'animo umano. Il giuoco effimero - formale e cromatico - delle nubi che fa
intuire proiezioni e miraggi di immagini scaturite dal proprio inconscio come
in un transfert ha in tal modo un riscontro nei neri plumbei di notti senza
luna o nei tramonti di fuoco tropicali dove ci pare di seguire la rotta segnata
da un'inesistente (o esistente solamente in noi e non nella tela) luminosità
ipnotica di un australe Cruzeiro do Sul.
Nell'oscurità delle ingiustizie, delle guerre,
delle persecuzioni, degli stermini e della morte, nel buio profondo della notte
dell'anima, nella tempesta delle follie umane Nicole Guillon si ostina
caparbiamente a trovare un porto calmo e sicuro, il faro radioso costituito
dalla Bellezza, dalla cultura, dalla memoria che salvano nonostante siano
spesso imprigionate, come l'Afrodite in catene di Powers, finché il Sole
foscoliano continuerà a risplendere sulle sciagure umane.
Un viaggio nelle geografie ineffabili
dell’Arte e dello Spirito per comprendere l’Uomo e la sua presenza mediatrice
nel Cosmo, là dove l’Arte, appunto, diviene testimonianza, vibrante messaggio,
‘illuminazione’ universale, lirica pura. Monreale, in Sicilia, al centro del
Mediterraneo, crocevia di popoli, crogiuolo di arti di differenti origini e di
fedi diverse, ed il Complesso Monumentale dell'Ex Monastero dei Benedettini
sono la sede ideale per questa mostra che, nel dialogo visivo e concettuale,
vuol essere un incontro di vie spirituali diversificate sotto l’egida, appunto,
della cultura e dell’arte.