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IL GIORNO CHE I MORTI
PERSERO LA STRADA DI CASA
di ANDREA CAMILLERI
Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c'era un picciriddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzolo bianco e con lo scruscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consueti, il mezzo sorriso d'occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d'arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c'erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il due mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero s'avvicinavano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all'alba per andare alla cerca. Perchè i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l'avevamo trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo otto anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall'aldilà il mitico "Meccano" e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti "dei morti":marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, "rami di meli" fatti di farina e miele, "mustazzola" di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette: Non mancava mai il "pupo di zucchero" che in genere raffigurava un bersagliere con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciriddi era una festa, scimavamo lungo i viottoli per incontrarci con glia mici, i compagni di scuola: <che ti portarono quest'anno i morti?>. Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel due novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l'anno prima, mentre ruggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo. Insomma il due novembre ricambiavamo la visita che imorti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un'affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l'albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spasimo, i figli o i figli dei figli. Peccato, avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nosta storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e "stampato", come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri. Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perchè chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.
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