GIUSEPPE SCIORTINO
Giuseppe
Sciortino ( Monreale 10/08/1900 – Roma 18/03/1971), critico d’arte, poeta,
scrittore, giornalista, sin da giovane coltivò le sue passioni artistiche e
letterarie. A partire dal 1921 intrattenne stimolanti rapporti con la rivista palermitana “Simun” e dette
alle stampe la sua prima raccolta di versi, “Finestre”, ed. Ant. Trimarchi
(Palermo).
Il
giovane intellettuale siciliano richiamò su di sé l’attenzione della cultura
nazionale più aperta al nuovo (fra gli altri Prezzolini e Tilgher) per il
volume “L’epoca della critica”, apparso nelle Edizioni Piero Gobetti (Torino
1924): “un inventario scrupoloso del lavoro critico del nostro tempo” – così lo
definì Luca Pignato su “L’Ora” dell’ 11-12 aprile 1924.
Sul
piano nazionale ha iniziato la sua attività nel 1925, come capogruppo in
Sicilia degli aderenti ai gruppi di “Rivoluzione liberale”, la rivista
gobettiana divenuta “uno tra i pochi momenti di resistenza morale” (Sciortino,
1950).
Nel
1926, presso l’editore Piero Gobetti in Torino, pubblicò “L’epoca della critica”, il cui successo fu
determinato da articoli di Prezzolini – Vinciguerra ecc.
Nel
1927, sempre con Gobetti in Torino, pubblicò una breve raccolta di liriche
“Ventura”; nel 1928 (e nel 1934 in seconda edizione presso la Casa Editrice
Remo Sandron Milano – Palermo) le “Esperienze antidannunziane”, un atto di
accusa (contro certa letteratura estetizzante e criccaiola), che ebbe l’alto
consenso di Benedetto Croce e la veemente disapprovazione di Curzio Malaparte.
Dopo
una monografia sul pittore Pippo Rizzo, nel 1928 – lo Sciortino ormai vigilato
politico per antifascismo – cessò da
ogni vera e propria attività di scrittore per fare il direttore letterario delle
edizioni scolastiche della Sandron. In tale periodo parecchi testi scolastici
vengono da lui compilati e da altri firmati, salvo una “Grammatica Italiana”,
giunta alla quarta edizione, una scelta di novelle di Capuana e un manuale di
cultura generale per i Corsi di Avviamento, più volte ristampati, che portavano
il suo nome.
E’
del 1932 la pubblicazione di “Liriche e miti” (ED. del Ciclope – Palermo). Nel
1936, per sollecitazione dell’amico Nino Savarese, pubblicò una nuova raccolta
di liriche “Altro viaggio”, con prefazione di Alfredo Gargiulo (ed. Emiliano
degli Orfini, Genova), che servì ai nemici di Gargiulo da pretesto per
attaccare il grande critico, che non si rassegnava a limitare il proprio
interesse all’ermetismo ungarettiano o di altri. I tempi costringevano
Sciortino a interrompere l’attività pubblicistica. Il giovane intellettuale
trovò riparo – come direttore letterario- nella casa editrice Sandron, per la
quale approntò svariati testi scolastici dei quali solo qualcuno recherà in
copertina il suo nome.
Nel
1943-44 riprende, tra altre difficoltà, l’attività di scrittore con una sorta
di diario, lungo i nove mesi dell’occupazione tedesca di Roma: in sostanza un
colloquio tenero e doloroso con il figlio Sergio rimasto nell’isola, ricco di
amare riflessioni e struggenti annotazioni. “Tale mia operetta venne fuori in
una collana dove fu pubblicato un altro diario di guerra di Nino Savarese, uno
di Carlo Bernari e dove avrebbe dovuto apparire
“Compagno scrittore” di Vasco Pratolini: una collana, quindi, di una
certa ambizione e al di sopra delle parti, come allora era ancora possibile”
(Sciortino 1970). L’operetta uscì con il titolo “Figlio in Sicilia” nel 1945
per le edizioni Sandron di Roma. Una successiva edizione – integrata con una
seconda parte (elzeviri e note di colore dati ai giornali tra il 1947 e il
1951) e con un “Post-scriptum” (dattiloscritto tra Fiuggi, Gaeta e Roma nel
1970) – vedrà la luce postuma, nel 1972, per l’editore Trevi di Roma, per
volontà della Signora Posabella. Tra il 1947 e il 1952 l’attività pubblicista
di Sciortino trovò sbocco nelle collaborazioni a diversi quotidiani. Mai
dismessa, comunque, la militanza critica, accompagnata da interventi non
occasionali; come uno studio sulla pittura di Ferdinando Troso (Ed. Pinci –
Roma1950), un saggio su “Il paesaggio di Ceracchini” (Ed. del vantaggio – Roma
1954). Dal 1952 al 1964 tenne la rubrica della critica d’arte su “La fiera
letteraria”. Con Vincenzo Cardarelli ebbe intensa frequentazione. La svolta
impressa al giornale da Diego Fabbri, Giancarlo Vigorelli e Leone Piccioni
portò – non senza clamorose polemiche – alla improvvisa, imprevedibile
conclusione del rapporto di collaborazione del noto critico d’arte siciliano
con l’importante giornale culturale. Gli articoli più significativi Sciortino
stesso selezionò e raccolse in “Crepuscolo dell’Astrattismo” (Ed. del Vantaggio
– Roma 1964). Via del Vantaggio a Roma si trova non lontano da Piazza del
Popolo, tra via del corso e la Passeggiata di Ripetta. Qui, nel cuore di Roma,
tra botteghe di artigiani, studi di artisti, sale espositive, librerie e
qualche “hostaria”, la prestigiosa Galleria del Vantaggio era il luogo
d’incontro preferito da artisti e intellettuali, sia italiani che stranieri,
già affermati o esordienti, tutti a cercare da Sciortino consensi, consigli,
analisi, valutazioni e, perché no, borbottii.
Di
questa Galleria Sciortino fu direttore artistico dal 1954, dal 1956 curò alcuni
“Quaderni d’arte”; e poi ne prese il nome per la rivista che fondò e diresse
dal 1967 avendo collaboratori Rafael Alberti, Vito Apuleo, Rosario Assunto,
Renzo Biasion, Vittorio Bodini, Vincenzo Ciardo, R.M. De Angelis, Tommaso
Fiore, Mino Maccari, Santo Mazzarino, Domenico Purificato, Giuseppe
Santonastaso. La rivista uscì ancora dopo la morte di Sciortino. E a Sciortino,
per iniziativa della Signora N. Posabella, furono intitolati premi nazionali:
di pittura nel 1972, di poesia nel 1973, per racconti nel 1974. La città di
Monreale istituì la civica galleria d’arte moderna che intitolò a Giuseppe
Sciortino e la aprì al pubblico nel 1986.
PARTE PRIMA
"IL FIGLIO IN SICILIA"
(1943)
…Codesta mia operetta – quasi un
diario – riflette gli stati d’animo di uno dei tanti che la guerra aveva
rinchiuso per circa nove mesi in Roma come in una prigione: custodi d’una
durezza allucinante, i tedeschi, che difendevano senza più speranza un loro
sogno egemonico, e un pugno di ragazzi italiani che avevano indossato
all’ultimo momento le divise della milizia fascista come una disperata àncora
di salvezza in quel tornado che aveva tutti investiti, innocenti e colpevoli. La
fede non c’era, c’era la paura; e l’illusione che una pistola o un fucile
bastassero per fugarla. (Noi che non cedemmo, possiamo ora dirlo con
coscienza).
…Nel mio libretto, uscito quando su
Roma era da poco scomparso l’incubo della morte, si avvertiva, dunque, sia pure
con un certo disordine, il bisogno di ricostruire una vita nella quale
potessero coesistere ogni ideale e il suo opposto, non come soluzione
qualunquista ma come persuasione che – sul piano della storia – Dio e il
diavolo, l’essere e il non essere, il morale e l’immorale, ecc. fossero parte
di un tutto inscindibile….
…Sono,
figlio mio caro, un italiano precocemente invecchiato, come tanti altri: forse
molti.
Il
25 luglio di quest’anno (1943) – tu leggerai in qualche parte la data – fu come uno specchio postomi, di
sorpresa, davanti: e ci trovai le rughe e i capelli bianchi. Dico, in senso
proprio e in senso figurato. Ed ero chiamato a riguardare la vita come uno
spazio aperto, senza più sbarre, e libero, e con gli occhi di tanti anni prima,
che ahi! non eran più quelli.
Com’ero
vissuto? Immagina una maschera a
teatro (si dice così ancora, mentre tu leggi?): uno di quei poveri servitori in
livrea che girano tra i fra delle poltrone, che aprono i palchi. Ma immaginalo,
ti prego, senza livrea. Solo questo segno esterno della servitù mi è stato
risparmiato. E intorno a questa povera maschera un gran movimento, e
strascichi, e uniformi, e lo spettacolo che non lo interessa.
Lo
spettacolo festoso. Così è stato, sino all’ultimo giorno. Spettatori che
applaudiscono. Una claque che dà il segno. Poveri servitori compiono ingrati
servizi.
Ma
è una vita anche il non vivere. Una rassegnazione anche il patire, per sé e per
tutti, sembra già un’abitudine, e si sa che sino alla morte, forse, o almeno
per molto tempo non ci sarà altro.
Il
25 luglio mi liberò da questa condizione. L’incendio aveva distrutto lo
spettacolo, perché aveva incenerito il teatro: l’Italia. L’orribile guerra.
L’inevitabile disfatta. E tutto da rifare.
Tutto
da rifare? Avanti, dunque, scamiciati, è la vostra ora. Caricare pietre,
spingere carrelli, scavare solchi. La speranza scende come un fascio di sole da
uno squarcio. C’è una stagione per seminare. Ce ne sarà una per raccogliere.
Fu
un’estate torrida. Falchi d’acciaio passavano per il cielo. La guerra doveva continuare.
Il lavoro non poteva essere iniziato. Perché? Non sapevo. Non sapevamo. E a un
tratto, un enorme silenzio, un’interrogazione tremenda. E’ finita? Non abbiamo
avuto il tempo di capirlo. Io, almeno, non l’ho capito. Ti racconterò che cosa
ho visto. Parlerò io o parlerà un ritaglio di cronaca come mi avverrà di
fermarla.
Molte
cose non hanno senso, di quelle che dirò. Ma qualche cosa sì. Forse è per
questo che scrivo: Che ti scrivo.
Tu
che forse leggerai, o intenderai, soltanto quando sarai adulto (ecco un forse
doppiamente allusivo), potrai comprendere – nella lontananza della prospettiva
– ciò di cui qui è testimonianza in un certo senso simbolica (anche se
occasionale); potrai comprendere, dico, le riflessioni e le digressioni, indici
d’una ribellione ad onta di tutto, o necessità d’un destino affermate con una
voce che viene dal buio: una voce, direi, disumana, per il raggiunto vertice
d’umanità.
Tu
che forse leggerai….
Scrivo.
Scriverò ancora.Non so fino a quando. Dei giorni? Dei mesi? Degli anni? Una
breve lettera, un testamento senza firma, un lungo diario?
E
tu leggerai? Come, quando, dove?
Penso
che questo nostro incontro potrebbe avvenire lungo le rive dello Stige,
potrebbe essere un colloquio di ombre.
E’
senza dolore che penso a ciò. Bisogna fare tutti i conti col destino:
l’esistenza è un rischio.
Potrà
più dolcemente, questa lettera, giungerti come chiusa in una bottiglia: pochi fogli, simili a quelli che i naufraghi affidano ai posteri.
Tu stesso non sei che un postero, fin d'ora. Questa cronaca, che è mia e del mio tempo, ti giungerà come uno sbiadito documento da decifrare insieme con altri, per la storia che tu ne farai e che sarà la storia della tua generazione. Qualcuno dei tuoi compagni di scuola dai capelli arruffati - che ora ti siede vicino nel banco, che hai visto fino a qualche giorno fa correre nell'atrio con la cartella brandita come da lanciare - ti sarà accanto pensoso, e mescolerà il suo dramma al tuo, confronterà le sue impressioni con le tue. Il passato starà aperto come un album di vecchie fotografie un pò ridicole e tuttavia suggestive...mio padre, mio fratello...Un'istantanea in Africa, quest'altra in Albania...
Forse, invisibile, io starò dietro a voi!
Che cosa ho visto?
8 Settembre
Ero sulla porta dell'albergo, a Firenze...d'improvviso, voci, rapido incalzare di voci, molte persone si fermano a gruppi...La pace! Applausi, agitazione...Una folla. La notizia è giunta con la radio. Comincio a capire. Credo che vogliano mettersi in giro, chiedono bandiere...
Così si è svolta la scena. Una bandiera è apparsa. Qualcuno l'ha fatta ritirare. Qualcuno, dunque, ha capito che questa era la festa della disfatta?
Su quel brusio senza senso è calata la notte.
ero solo. Sai che cosa è la solitudine?
Aiuta a capire la disfatta.
Tu sei in Sicilia: non ho da tre mesi tue notizie, ignoro se sei sopravvissuto.
Che avverrà ora? Saprò?
9 Settembre
........Così siamo arrivati a Roma, città senza abitanti. Il treno fischia nella silenziosa solitudine.
....Dopo lunga incertezza ho deciso di non tentare il viaggio per il Sud. Non sarebbe stato facile, ma rischioso e difficile.
...Si potrebbe tuttavia giungere al piccolo figlio, rivederlo, stare con lui, come se questa tragedia, in cui sono stato chiamato a far parte di un coro lamentoso, non esistesse.
12 Settembre
...Gli amici mi chiedono:- E ora? - Risponderò che è l'ora di fuggire, di tornare ai dolci giardini della Conca d'Oro, di chiudersi nel nulla dell'esistenza individuale per consumare il frutto in sapore, per distogliersi nell'oro tremante del paesaggio che ci fu caro un tempo?
Io resterò qui, uno tra i pochi, uno tra i molti, per rischiare qualche cosa con essi e per essi, anche inutilmente. Sento il mio cuore legato col filo del sangue al destino comune.
1944
30 Gennaio
Strana prigione. carcerieri e carcerati formiamo, in apparenza, un curioso miscuglio. ma dagli atteggiamenti, e più dagli sguardi, s'intende che il distacco è netto.
C'è chi prova soltanto un risentimento che si esaurisce nel parlare e nel gesticolare che ostentano l'assenza di paura; c'è chi, invece respira in clima d'odio concreto e si affida alla congiura e al sabotaggio. Ecco un mostro sotto un enorme tallone, spasimoso di mordere, di colpire, di liberarsi. Il sospetto tende i nervi fino a farli dolorare; le vittime non fanno che soffiare nel fuoco che cova. L'angoscia degli animi, lo strazio della carne, le lacrime delle donne e dei bambini non contano. la vita umana è in ribasso. Questo è il carcere della pura follia.
Tu che sei rimato fuori della muraglia, là dove ancora un pò d'aria si respira, forse non potrai a pieno comprendere questa mia tragedia, quando domani leggerai, se leggerai.
Essa, figlio, ci ha tutti investiti: uomini e cose. Poichè anche le cose subiscono la distruzione: muoiono, si disfanno. E, tra le macerie, i lupi. Si sentono nella notte.
Mi sveglio smarrito. dove sei tu? Ti chiamo con voce soffocata. E non sono più solo.
...
5 marzo
– A Palermo o a Caltanissetta.
Non
ti rivedo da quasi un anno, non ho tue notizie da otto mesi. L’ultimo tuo
salutino lo ebbi da Caltanissetta in
data 3 luglio dello scorso anno. Mi promettevi un letterone che non è più
giunto. Povero piccolo, addirittura un letterone...
Mi
dicono che il 9 luglio dello scorso anno Caltanissetta avrebbe subìto un massiccio bombardamento; la popolazione sarebbe fuggita parte verso il
Monte del Redentore, parte a valle verso la campagna. I fuggitivi sarebbero
stati mitragliati.
Tu
eri là. Ti sarai salvato? C’era, come avrebbe voluto, il mio amore a
difenderti? Dov’eri? In casa, fuori o a scuola?
I
bombardamenti non ti spaventavano. E’ coraggioso - soleva dire la mia
mamma.
Mi
ascolti? Sei vivo?
E’
da nove mesi – da nove interminabili mesi – che mi ripeto il tremendo
interrogativo. E nessuna risposta è possibile. L’odio degli uomini arriva a
queste assurdità.
….
18 marzo – Un’incursione nemica ha
colpito oggi il quartiere Nomentano.
Tornato
a casa, ho trovato le schegge dei vetri frantumati sparse dappertutto.
Al
telefono la voce irriconoscibile di un caro ma stonatissimo amico. Intuisco.
Vedo la sua faccia stravolta.
-La
mia casa è crollata.
-
E i tuoi?
-
Tutti salvi. Si trovano fuori.
-Ringrazia
Iddio.
-
Ma ho perduto tutto.
-
Beh!
-
Vuoi venire ad aiutarmi per salvare qualche cosa?
-
Figurati!
Le
macerie parevano calde come ceneri recenti. Scavare con le mani dava fatica e
pena . Pareva di dover affondare le
unghie in una carne straziata. Ogni soffio nostro sembrava accompagnato da
gemiti di vittime seppellite.
Eravamo
soli. Ma di tanto in tanto s’affacciava come strisciando un sciacallo.
Le
sole squadre di soccorso visibili sono le bande dei saccheggiatori.
Cominciarono
ad affluire i superstiti. Guardavano in giro. Cercavano le rovine. Qualcuno.
Qualche cosa. Ecco una donna e un bimbo, appoggiati a un muro mezzo diroccato.
Infinitamente tristi. Sì, anche il bambino è triste. L’ho accarezzato.
….
19 marzo
- Misantropo per temperamento, avverto ora un insolito bisogno di vedere amici,
di parlare con qualcuno come se le parole fossero, nel circolo della congiura,
una forza capace di cambiare qualche cosa.
Sono
stato sempre un irrequieto dall’apparenza pacifica. La vita, che avrei dovuto
scrivere o vivere, l’ho in parte scritta e in parte vissuta: e il mi tormento è
consistito in questa indecisione.
Ora
mi pare che la carta non possa essere il campo di un destino, neppure se
irrisoluto come il mio. Anche il giornale clandestino mi sembra sedentario.
Cerco il pericolo come l’aria aperta.
G.,
uomo semplice e forte, mi trova scuro in faccia, e come sopraffatto. Parla di tiepidezza di fede. Anche la fede è un luogo comune. I disperati sono
quelli che più violentemente sperano. Talvolta la disperazione brucia e si
consuma nel fumo d’una sigaretta. Nulla da fare. In ogni luogo incontri un
carceriere vigilie. Ogni atto imprudente ti piomba nel buio dell’inesistenza. E
domani? E la speranza?
Non
riesco a lavorare. Mi metto a leggere; ma non presto attenzione a quel che
leggo. Le parole sono senza significato, i nessi si disfanno: sulla pagina si muovono segni
che non diventano voci: segni che non hanno senso: Forse è stato sempre un gioco
– un terribile gioco metafisico – lo sforzo di voler dare ai segni un preciso
significato; un gioco che raggiunge il suo limite assurdo nella musica. Nella
musica che arriva alla sua assolutezza, quando non ha più senso umano.
25 marzo –
… Ora so che questa piccola cronaca personale si colloca tra Via Rasella e le
Fosse Ardeatine. Si passa su un campo di batta glia senza saperlo, come avvenne
a un personaggio di Sthendal.
La
storia sarà fatta di posteri. I martiri lasciano sempre il presente per
testimoniare innanzi a un mondo futuro. E così tu, figlio mio, saprai meglio di
me, non solo come si sono svolti i fatti sul cui confine io sono passato,
queste tragedie la cui vampa ha lambito il nostro cuore, mentre investiva e
inceneriva qualcuno dei nostri compagni più coraggiosi, ma intenderai meglio il
valore del loro sacrificio, se i morti saranno riusciti a riscattare i nostri errori, a tramandarti una parola di
vita.
Noi
restiamo a vivere, a sopravvivere, in questa speranza.
28 marzo
– Mi sembra – potrai pensare quando leggerai e intenderai – che mio padre abbia
drammatizzato eccessivamente il
quadro.
E’
proprio vero. Non si fa un dramma con un solo personaggio o con due.
La tragedia è spezzata in monologhi, come il mio. Una tempesta in un bicchiere d’acqua. Ma questo è appunto la disfatta. Non v’è più la collettività. Vi sono degli individui. La congiura è lo sforzo di costituire questa la collettività, di uscire dalla solitudine. Uno sforzo che la morte insidia, che il pericolo, eccitando l’istinto di conservazione, continuamente contrasta.
La tragedia è spezzata in monologhi, come il mio. Una tempesta in un bicchiere d’acqua. Ma questo è appunto la disfatta. Non v’è più la collettività. Vi sono degli individui. La congiura è lo sforzo di costituire questa la collettività, di uscire dalla solitudine. Uno sforzo che la morte insidia, che il pericolo, eccitando l’istinto di conservazione, continuamente contrasta.
Il
dramma si svolge nel singolo ma è nazionale.
Per
tutto il resto, esso è piccola cosa. La fame con cento grammi di pane
immangiabile; il tedio delle giornate infinite, verso il sole che spazia fuori, in pochi metri quadrati; un’incursione
che lascia quasi tutto intatto. Piccole cose. Penso alle tue impressioni di
bimbo, alle rovine di Palermo, agli immensi boati che aprono crateri
dappertutto. Qualche povera figura folle tra le macerie, come l’ombra di un
corpo sotto la luna. Dalle macerie si leva il lezzo dei cadaveri. Ovunque la
scritta: Zona infetta
L’ultima
volta che fummo insieme volesti esser condotto a vedere i poverelli che
si erano rifugiati nella galleria tra Monreale e Boccadifalco, sotto il monte
Caputo, e nelle grotte intorno, a vivere una vita trogloditica . Spettacolo
orrendo! Lì dentro si nasceva e si moriva, senza assistenza alcuna nell’un caso
e nell’altro. Gli animi esacerbati, i nervi scossi, la denutrizione provocavano
fra gli abitanti di quell’orribile budello litigi e risse; e il sangue a volte
scorreva, senza che nessuno intervenisse. Usciva dalla galleria un tanfo di
putrefazione. …Qui, invece, nulla di quell’orrore. Si fanno feste di
beneficienza, lussuose, per i profughi. Sottoscrizioni …La tragedia ha un
aspetto di cuccagna . Roma…
Hai
ragione . Non bisogna drammatizzare. Bisogna ricordarsi che c’è sempre un po’
di carnevale mescolato con la tragedia.
29 marzo-
(Vorrei sapere: hai ripreso a studiare – non sei in quarta? – e ti prepari per
entrare al primo anno di scuola media? Fra pochi mesi, dunque, comincerai il
latino? Ci sarà allora papà, vicino a te, ad aiutarti in quei primi passi? Vedi
che il tuo papà, vicino a te, ad aiutarti in quei primi passi? Vedi che il tuo papà
pensa a queste cose, e quasi non gli importa nulla del resto?)
…30 marzo – Fa un anno. Ancora non era
giorno. Dormivi nel mio stesso letto. Ero pronto per partire. Eravamo nella
nostra casa di campagna, a Monreale. Mi pungeva il rammarico, ora più vivo, di
non poterti condurre con me a Roma, che –almeno allora- offriva una certa
sicurezza dalle incursioni aeree. Per vederti, contro il parere di molti amici,
non avevo esitato ad affrontare il viaggio da Roma, che – almeno allora –
offriva una certa sicurezza dalle incursioni aeree.
Per
vederti, contro il parere di molti amici, non avevo esitato ad affrontare il
viaggio da Roma, a Palermo, subendo due mitragliamenti dopo Napoli, con morti e
feriti tra i passeggeri (un marinaio, colpito alla testa, si era accasciato in
silenzio accanto a me).
…(Quando
un giorno riapparirò, ombra o persona, all’improvviso dal fondo della trazzera,
chiamerò come sempre: Mamma! E tu mi verrai incontro. La prima parola
che dirò, la prima cosa che ti chiederò, sarà: Sergio?!Tu, mamma, ne
sono certo, tu mi risponderai: E’ vivo: Il Signore lo ha salvato. E
sorriderai, come tu sola sai sorridere. Allora ti abbraccerò forte, forte; e
piangeremo insieme di gioia).
10 maggio
– Il cielo è annuvolato. Il rombo del cannone sembra un tuono che annunzi la
tempesta. Le rondini spaurite (perché son venute fin qui?) stridono, stridono
incessanti.
Le
nubi salgono: ondate pigre di fumo: l’aria è calda, pesante.
E’
il cannone.
Tutti
vogliono udirlo. E’ il cannone. Tutti vogliono avvicinare il destino
che scioglierà il nodo dell’attesa. Le rondini stridono; non volano, fuggono,
verso dove?
15 maggio
– Ho ricevuto una lettera che porta la data del 22 luglio 1943, da
Palermo. Il portinaio mi ha detto che è
stata lasciata; da un signore non molto giovane, piuttosto distinto.
L’amico
che mi scrive, dice cose che mi hanno profondamente turbato. Ascoltalo, dunque.
Mio carissimo amico, sono andato a casa tua. E’ stata
una bella passeggiata: ma sai che quasi mi smarrivo in quei viottoli che seguono
i limiti erbosi dei giardini?
Tua madre è stata molto gentile;
alcuni tuoi parenti anche,
…lassù della guerra, sotto la rocca
verde e pittoresca di Monreale, non è giunta che l’eco.
Lì ho avuto notizie del tuo bambino
che è a Caltanissetta, ma le notizie non sono recenti. La guerra ha rotto tutti
i collegamenti.
…Passerà del tempo, forse molti mesi,
prima che tu possa venire a palermo, che da due giorni è in festa.
Fra poco la Sicilia sarà tutta
libera. Ed è festante perché si crede libera, non occupata. La
parola circola in tutti i ceti, e solo poco persone la intendono nel senso ch’essa
voglia dir libertà. Tu capisci che c’è grande differenza tra queste due
espressioni… I vecchi ceti politici hanno delle idee che per il momento non
guastano l’entusiasmo della grande massa e dei giovani. La massa pensa che è
cominciata una nuova era, e i giovani la incoraggiano in questa fede, facendo
pernio su… Saroyan. Tu sai che ci sono da noi molti americani, cioè
molti siciliani tornati dall’America. Essi credono che l’America si sia allargata
fino alla Sicilia, e che ormai si tratti di fare un mondo immenso, il mondo
dell’uomo libero, il mondo dell’America, dove le nazionalità sono quartieri, da
cui si può uscire con una tranvia. I vecchi politici rispolverano i libri di
storia, dove gli Inglesi hanno una parte importante, nel 1812 e nel 1860, ma il
popolo di queste cose non sa nulla. Si tratta di ben altro.
A ogni modo- e non è senza pena per
me, e non sarà senza pena per te- la Sicilia si sente come staccata, proprio
recisa, dall’Italia. L’impressione ha la sua maggiore radice nell’isolamento in
cui si è venuta a trovare da qualche tempo, e che ora è assoluto. Ma non è
tutto. L’improvvisa fuga dei gerarchi e la dissoluzione del regime hanno qui
prodotto come la sensazione di un vuoto politico, di un vuoto assoluto, come se
nessuna forma di vita nazionale, di vincolo nazionale, potesse sopravvivere.
Tu conosci Tinin G. ? Egli mi diceva,
con l’ingenuità dei suoi vent’anni e della sua letteratura che va da Dos Passos
a calwell, che la Sicilia è la prima terra d’europa che brucia nel rogo del suo
sole il mito della nazionalità che dal principio dello scorso secolo a oggi ha
svenato gli uomini con periodicità implacabile.
Tutto ciò passerà? Spero di sì, e
presto. Mi sento di una generazione che porta tanto passato nel cuore da non
potere neanche affrontare l’immaginazione di un futuro che lo neghi così
radicalmente. Ecco come una festa di tutti può diventare un dramma per uno dei tutti. E speriamo che sia soltanto un dramma, senza catastrofe. Ti
abbraccio,
L. N.
10 maggio
– Si ode il cannone, sempre più vicino. Una voce cupa. Siamo alla fine. E c’è
un gran sole sulla primavera che indora tutto. Anche i morti laggiù si scaldano
a questo sole, poveri morti!
Mio
piccolo, ci rivedremo presto?
Sarà
tutto finito per te e per me? Ma sarà tutto finito? E la morte finirà di far
sentire questa voce cupa, implacabile?
28 maggio
– Ora tutto il cielo è un cupo rombo, che si frantuma nei mitragliamenti. La
battaglia è senza pause. Intorno alla città, gli aerei bombardano, spezzonano,
scendono sulle strade.
29 maggio
– (notte) – Che avverrà?
Lunghi
boati squarciano la terra. Scoppiano mine. Il fiume della morte rompe tutte le
dighe. Invaderà anche Roma?
La
notte è piena di lampi. Il grande e nero fiume romba.
3 giugno
– La battaglia è finita. I tedeschi, sconfitti, caricano i loro camions e
fuggono. S’odono scoppi, su una tela di sospeso silenzio.
Poi
un brutale crepitìo di mitraglia. E di nuovo, esplosioni.
5 giugno
– Sono arrivati.
Una
gran voce sale dalle strade sino ai campanili, sale al cielo, ridiscende come
un’immensa luce.
La
pace sarà così?
6 giugno
– Roma è in festa. La gente sciama come se fosse giunta, inattesa, in gennaio,
la primavera. I soldati, alleati sono in folla sui marciapiedi:
disarmati, fidenti.
In
un ristorante mi si presenta un quadro inatteso: due americani sono seduti a
una tavola con un bimbo di nove anni, un bimbo macilento e concioso. Lo hanno
collocato al posto di onore; gli sorridono, gli avvicinano il piatto. Il bimbo
è incredibilmente serio, direi triste. Forse non capisce. Stringe nelle due
mani qualche cosa, della cioccolata o del denaro, e non riesce a far passare
tutto nella sinistra.
Il
popolo italiano, come quello di tutte le contrade d’Europa, s’affaccia
all’avvenire con quel bimbo affamato e che non si decide a mangiare, lo sguardo
aggrottato, come se pensasse a qualche cosa di oscuro. I due americani che, invece
di star come gli altri soldati a sorridere le prime parole d’intesa con le
donne di Roma, hanno cercato quel taciturno e dolente commensale, forse non
intendono il valore simbolico del loro gesto. E’ una carità insignificante,
benché cristiana e commovente, o è un programma di vita del mondo riscattato,
che scaturisce, esente di calcolo, dalla profondità del dolore, in cerca della
verità umana?
Fra
vent’anni…, Sergio mio, tu lo saprai.
Il
dopoguerra – destinato, purtroppo, a durare oltre il prevedibile, con
un’orchestra imponente di disparatissime sofferenze – ha riservato anche a chi
lavora le delizie di quest’altra miseria (in alcuni paesi stranieri, senza
dubbio, sarà una cosa diversa; ma in casa nostra il fenomeno è un aspetto della
sconfitta): niente modesta ma confortevole tavola imbandita, niente tranquillo
mangiare e gradevole conversare; il pasto, ridotto alla soddisfazione di un bisogno
animale.
Come
il vero amore nasce dopo il possesso, così la vera vita, sino a tempo
fa, si manifestava dopo il mangiare; l’interessante non era ciò che l’uomo
faceva per mangiare, ma ciò che pensava
dopo aver soddisfatto la fame. E adesso, una volta mangiato, l’uomo non fa che
pensare a come poter mangiare di nuovo.
(GIUSEPPE SCIORTINO)
Da “Profilo di Sciortino” di Ferruccio Ulivi
Giuseppe Sciortino…personaggio più complesso
che quello, ordinariamente inteso, del così detto intenditore d’arte.
….prevalente resta, il senso di
controllo seriamente esercitato, di onesta distinzione che Sciortino sentiva di
fare fra i dettami, legittimi o meno, della moda culturale, e i propri
convincimenti.
L’impressione è ch’egli reagisse in
ciascun ordine di cose a ogni limitazione di libertà. Detestava le mode per la
coazione che esercitano. Disamava i raggruppamenti. Esisteva in lui…un aspetto,
un motivo che si legava al versante costruttivo della sua fisionomia: quello
partecipe – all’opposizione, - del travaglio morale, civile, politico della
nostra società durante gli anni dell’instaurazione fascista.
In prima fila fra gli aderenti , già
nel lontano 1925, ai gruppi di “Rivoluzione liberale”…
Si trattava non soltanto di gusto ma
di una metodologia mentale, critica e, direi, squisitamente civile, su cui il
gusto, con le sue scelte magari innovative, doveva modellarsi.
..Le pagine del “Il figlio in
Sicilia” erano una testimonianza stringata, cocente, di un’esperienza di guerra
subita nella retrovia romana, dov’era stato colto, con l’animo, anzi il cuore
rivolto alla propria terra lontana, nell’attesa della liberazione; di cui
peraltro non si nascondeva i problemi che avrebbero avuto luogo per fondare una
nuova società civile.
“La primavera e la guerra
s’incontrano nel buio cuore” annotava. E ancora, con sofferta efficacia: “Non
riesco a lavorare. Mi metto a leggere; ma non presto attenzione a quel che
leggo. Le parole sono senza significato, i nessi si disfanno: sulla pagina si
muovono segni che non diventano voci; segni che non hanno senso: Forse è stato
sempre un gioco – un terribile gioco metafisico – lo sforzo di voler dare ai
segni un preciso significato; un gioco che raggiunge il suo limite assurdo
nella musica. Nella musica che arriva alla sua assolutezza, quando non ha più
senso umano”. Poche parole riescono tanto incisive nella nostra letteratura di
dolente retrovia (viene da pensare ad alcune pagine del Tecchi di “Un’estate in
campagna”) come queste, o come certe annotazioni taglienti, a caldo, sui
responsabili della guerra; oppure, con probabile, forse involontaria memoria di
pagine crociane, sulla impossibilità di conciliare l’immagine dell’aberrazione
hitleriana, accanto a quella della limpida umana cultura goethiana. In quei
giorni, gli veniva costante il pensiero “di fuggire, di tornare ai dolci
giardini della Conca d’Oro”, “per distogliersi nell’oro tremante del
paesaggio”. Ma è qui, al centro del dramma, che si sente “legato col filo del
sangue al destino comune”. Né meno responsabili altre notazioni, dopo l’atroce
periodo bellico, sull’impegno che incombe collettivamente e sugli individui.