IL SOPPALCO CON LA TRAVE SMURATA di F. Centonze

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IL SOPPALCO CON LA TRAVE SMURATA 

di Ferruccio Centonze









IL SOPPALCO CON LA TRAVE SMURATA 
pag.15


Qui, alla Marinella, con la finestra che riquadra un pezzo di pane sconvolto dallo scirocco, frange di memorie tornano dal tempo. E così per un miracolo di certe reazioni dell'<anguria>  (prendo a prestito dall'eroe randagio di Arpino)), l'atmosfera si è fatta calma d'un tratto, in una dimensione irreale e antica.
Il Cantone. La casa del Cantone.
Una porta a vetri cisi sistemavano le imposte, a mano, dall'esterno, quando calava la sera. Oltre la soglia con l'alto scalino, una stanza con mattoni di creta sempre trasudanti come un umore di sale. Sulla sinistra i fornelli- quanta fatica la madre a svampare il carbone, con quella gloria di cenere e faville sotto il vento del muscaloro, e quell'odore di bruciato posato su ogni cosa, talvolta con un sentore acre di gatto: pupo il rosso raspava nel cassone, sotto i fornelli , fra il carbone. Sulla destra della stanza, lungo la parte, allineati i recipienti  dell'acqua- nziru, quartara, e bummula di sciacca. E sulla  mensola, sotto lo specchio -toilette, il lume a petrolio- torna l'odore della'arsoli, bruciato dal meccio dentro il tubo di vetro. E bisognava stare attenti a regolarlo bene lo stoppino per non aumentare il consumo del petrolio-del petrolio! Strappi di corde fra gola e petto-capita a tutti-per quella polvere di ricordi che ti fa accendere nella memoria il lampo di un nome, quello dell'arnese che teneva insieme base meccio e tubo: < Lu cuncegnu>- come sussurrare al vento il pianto degli anni.
E la scala di legno che portava al soppalco, col passamano traballante su cui la nonna non osò mai posare la sua mano diventata di carta, chè si stringeva verso il muro preferendo incrocchiolare gli ossicini artrosici dlle dita nelle asperità dell'intonaco screpolato
La madre, nell'angolo fra muro e porta, a riaprarsi dal sole. E sul mare paranze. Gli si facevano incontro le barchette e più tardi per la casa era tutta una fragranza  d'olio d'oliva che si levava dalla padella stagnata saraghi, cefali, spigole, linguate, vope e tutto quello che il mare pescoso di allora era in grado di dare-non erano ancora i tempi del pesce d'oro venduto all'incanto.
Il gabinetto, nel sottoscala: una buca, tre mezzi conci murati ai lati, la lastra di marmo sopra, con il foro ovale. il chiodo al muro da cui pendeva la carta di giornale tagliata a rettangoli, il secchio con l'acqua lì vicino, non un occhio di bue che permettesse il ricambio dell'aria. E storia nostra, della nostraprecaria condizione di vita di allora, ma chi se ne accorgeva? Tornano solo rimpianti e magoni. Il soppalco con i materassi di crine - quello scricchiolare di erba secca, di assi, la chianca smurata da un alto del mare, mentre il violino del padre si attardava a far la <notturna> con i suoi amici, e smoriva la luce dei lampioni, e il lampionaio fischiettava all'alba. 
Ma clacson e trombe cancellano ombre e rimembranze. E' la sposa del giorno che viene a farsi fotografare sul molo, inseguita dalle auto degli invitati, dal frastuono di un'epoca che non conosce più il silenzio.




CARNEVALE E I GIOVEDI' DELLA TRADIZIONE
pag.34

Fu un giovedì di un gelido gennaio che aveva anticipato i crudi giorni della mela. Vidi un mascherato malinconico che solitario andava su e giù per la piazza. Un giovedì. Ricordi lontani ribollirono dai crepacci del tempo; don Cocò e i cinque giovedì che precedono il Crnevale. <Il partito è accordato> diceva approssimativamente don Cocò mentre entrava, e le donne si davano da fare attorno a lui portandogli biscotti e rosolio. <Lei> diceva alla padrona di casa < invita la famiglia del giovane a far quattro salti il pomeriggio del primo giovedì, al secondo ci può essere la "spiegazione". Poi, nel giovedì dei parenti, se tutto va bene, si può fare l'entrata>. Sì, perchè i cinque giovedì che precedono il Carnevale avevano una volta, qui da noi, precise connotazioni. Il primo era chiamato il <giovedì dei vicini>, il secondo <degli amici>, il terzo <dei parenti>, il quarto <delle comari> e il quinto <il giovedì grasso o di Bellingaggio>, quando il porco faceva le spese della festa fornendo grasse salsicce innaffiate dal vino forte di Seggio. E proprio in occasione delle riunioni del giorno di mezzo della settimana, non era raro che si intrecciassero alleanze e si <accordassero>  matrimoni, per i buoni uffici di don Cocò, un paraninfo rispettato e ossequiato specie da chi aveva una figlia stagionatella da maritare, un individuo di nobile casato - secondo quanto riporta G. Asaro-, vissuto qua all'inizio del secolo, il quale, a differenza delle mediatrici di matrimoni prezzolate (era un mestiere che rendeva), svolgeva la sua missione disinteressatamente, per vocazione. Il giovedì grasso apriva ufficialmente il Carnevale. E in quella particolare giornata era lecito parlar grasso. Ricordi. Passava uno su un carretto tirato da un asino, lungo giù per tutto il corso Vittorio. Aveva in testa una <mezzapalla>, sul naso un paio di occhiali di ferrofilato e un frac che sentiva la naftalina. Il carretto sostava ogni tanto lungo il corso o nelle piazze, e l'uomo soffiava dentro una brogna annunziante, tirava su un libraccio e cominciava a declamare poesie vastase di Fudduni, di Tempio, del poeta Calvino, e ogni tanto aveva pause teatrali che venivano colmate da sonori sberleffi e dal lancio di ortaggi e arance marce. E poi passava uno a cavallo-tuba in testa e abbigliamento variopinto- con un càntaro stretto al petto, colmo di maccheroni conditi di rossa salsa, e mangiava e ne offriva alla gente-e dai balconi del corso le ragazze, costrette in casa, raffrenavano gli umori sotto lo sguardo gelido dei genitori, mentre gli spasimanti passavano lì sotto col naso in su a tentar di carpire il baluginare di una rotula se il vento smuoveva l'ombra misteriosa delle gonne.   



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