MOSTRA FOTOGRAFICA
<GLI INVISIBILI>
di Lavinia Caminiti
Sala P. Novelli - ex Monastero dei Benedettini
dal 4 al 15 Maggio 2015
La mostra fotografica “Gli Invisibili”, realizzata nella sala
“P. Novelli”, all’interno dell’ex Monastero dei Benedettini, nel giorno della commemorazione dell’uccisione del Capitano E. Basile”, vuole soffermare lo sguardo per
far riflettere sui luoghi degli attentati di mafia e sulla notizie storiche
riportate dai quotidiani, spesso dimenticati.
“Adottare” quei luoghi significa diffonderli per farli
conoscere e comprenderne il giusto significato. La noncuranza dimostrata e resa invece "visibile" dallo scatto fotografico che si
sofferma sulla lapide, celata dall’incuria e dalla distrazione urbana, svela
l’immane e pericolosa indifferenza della gente.
Il progetto è stato curato dalla fotografa palermitana Lavinia Caminiti con il patrocinio della
Scuola “Guglielmo II” e del Comune di Monreale.
Sono intervenuti:
L’Assessore comunale alla P. I. Arch. Nadia Olga Granà,
L’Avv. Fabio Ganci che ha sponsorizzato l'inaugurazione della manifestazione
Il Dirigente
Scolastico della Scuola Guglielmo II Prof. Claudio Leto,
Il Presidente dell’ANM
di Caltanissetta Fernando Asaro,
Il Giudice
della Corte di Appello di Palermo e Presidente dell’ANM
di Palermo Matteo Frasca,
Giovanni Chinnici,
figlio di Rocco e Presidente dell’omonima
fondazione,
Alcuni familiari di
vittime colpite dalla mafia.
La manifestazione si è conclusa con una Performance teatrale
del noto attore palermitano Salvo Piparo
accompagnato dal contrabbassista Riccardo
Lo Bue.
Avv. Fabio Ganci
Lavinia Caminiti e L'assessore Comunale Arch. Nadia Olga Granà
Sulla destra, Il Dirigente Scolastico della Scuola GuglielmoII Prof. Claudio Leto -Il Presidente dell’ANM di Caltanissetta Fernando Asaro - Il Giudice della Corte di Appello di Palermo e Presidente dell’ANM di Palermo Matteo Frasca - Giovanni Chinnici, figlio di Rocco e Presidente dell’omonima fondazione - Alcuni familiari di vittime colpite dalla mafia.
Avv. Fabio Ganci
Testo di FABIO GANCI
“…Mamma, è stata colpa
mia. Non ho avvertito in tempo papà, non ce l’ho fatta a dirgli che doveva
scappare. E’ colpa mia se adesso è morto!”
Era notte quando Barbara Basile, quattro anni, riuscì a
tirare fuori dal cuore il magone che la opprimeva.
A confessarsi alla madre, a liberarsi dai fantasmi che la
accompagnavano dal 4 maggio 1980, quando venne quasi schiacciata dal corpo del
padre Emanuele, comandante della stazione dei carabinieri di Monreale,
crivellato dai colpi di tre killer di Cosa nostra che gli volevano far pagare
le intuizioni sui corleonesi in ascesa, le indagini sull’omicidio di Boris
Giuliano, i faldoni consegnati al giudice Paolo Borsellino.
Era in braccio a suo padre quando gli spararono alle spalle.
Protetta dalle sue braccia, in un momento finì a terra in
mezzo al sangue. Barbara adesso ha 39 anni.
Nel trentesimo anniversario della morte non ha accettato
l’invito a tornare in Sicilia. “Non me la
sento, lì non ci voglio andare”, ha detto ai familiari.
Anche Silvana, la moglie del capitano Basile, non ha
accettato l’invito a tornare in Sicilia. Silvana, la sra del delitto, cercò
invano di parare il marito dal colpo di grazia e raccolse la figlia tramortita.
Silvana, donna-coraggio, che sfidò gli occhi dei killer, gridò “assassini,
delinquenti”, li accusò con una testimonianza dettagliata che non bastò, però,
a evitare un’assoluzione in primo grado davanti alla quale vide uccidere il
marito per la seconda volta.
Seconda beffa in appello, quando Armando Bonanno (poi vittima
di lupara bianca), Vincenzo Puccio (successivamente ucciso in carcere) e
Giuseppe Madonia fecero perdere le tracce prima di ascoltare la sentenza di
ergastolo, confermata poi in Cassazione. Si salvò per un pelo anche lei,
protetta da un’agendina con la copertina di argento massiccio, tre centimetri
per quattro, in cui si conficcò il
proiettile.
Gliel’aveva regalata il marito.
No, madre e figlia non ce l’hanno fatta a tornare qui, lungo
questa strada incui camminavano alle due del mattino, in mezzo alla folla
accorsa per la festa del Santissimo Crocifisso.
Nel 1980, passate poche settimane, arrivò a Monreale il nuovo
capitano dei carabinieri, Mario D’Aleo. Tre anni dopo venne ucciso anche lui.
Aveva 29 anni e morì sotto i colpi di un commando mafioso il 13 giugno del 1983
in Palermo nella via Scobar, insieme ai carabinieri Giuseppe Bommarito e Pietro
Morici.
D’Aleo si era gettato a capofitto nelle indagini
dell’omicidio Basile, ritrovandosi in poco tempo faccia a faccia con una realtà
sconcertante: Cosa Nostra rappresentava il nemico assoluto, un nemico da
combattere e da sconfiggere.
Basile e D’Aleo, tuttavia, non hanno perso le loro battaglie.
Semplicemente si ritrovarono soli a combattere la mafia.
Barbara, la piccola Barbara, la notte tra il 3 e il 4 maggio
del 1980 ha perso il padre.
Nello stesso istante noi cittadini di Monreale abbiamo visto
compromettere la speranza nello Stato, uno Stato incapace di proteggere i suoi
uomini migliori impegnati in prima linea contro la Mafia.
La notte del 4 maggio una ferita è stata inferta a noi
cittadini di Monreale. E solo noi possiamo rimarginarla, sconfiggendo con
l’impegno quotidiano la Mafia e la cultura
mafiosa.
La grande sfida è quella di costruire famiglie che sappiano
portare una testimonianza diversa, una testimonianza di sana cultura alla
legalità, condicio sine qua non per sconfiggere la criminalità
organizzata, un male che ha avuto un inizio ma che potrà e dovrà avere, come
tutte le cose umane, anche una fine.
Solo così potremo, un giorno, con le nostre azioni, e non
solo con cerimonie, convincere la figlia, Barbara, e la moglie Silvana, a
tornare in Sicilia. Perché il capitano Basile vive e vivrà per sempre nella memoria e nei cuori di noi
Monrealesi.
Concludo citando una frase del carabiniere Giuseppe Bommarito
all’indomani dell’uccisione del Capitano Basile:
“Spero che dal suo sangue nascano altri uomini che vadano
avanti con la sua stessa forza. Solo così potrà venire un giorno in cui noi non
sentiremo abbinare essere Siciliani ad essere Mafiosi” .