IL CASTELLACCIO DI MONREALE…
Tra storia e leggenda
di Giuseppe Schirò
La valle di San Martino delle Scale …………………
doveva apparire veramente una valle
infernale, durante gli incendi estivi, degno scenario per ambientarvi una
favola quale poteva essere immaginata da un erudito spagnolo del Cinquecento, pieno d’inventiva e ricco di
fantasia, al quale va il merito di aver fatto conoscere il nostro Castellaccio
in tutto il mondo colto di allora.
Antonio de Guevara, nato verso il il
1480 a Trace e morto a Valladolid nel 1545, passa la sua prima giovinezza
presso la corte della regina Isabella. Alla morte di questa veste l’abito
francescano raggiungendo le più elevate cariche nel suo Ordine. Nominato
predicatore e cronista dell’imperatore, accompagna Carlo V nella spedizione a
Tunisi e nel successivo viaggio in Italia. Nel 1528 è fatto Vescovo di Guadix e
poi,, nel 1537, di Mondonedo, in Spagna. Come Inquisitore a Toledo e Valencia
si adopera con zelo per la conversione dei <moriscos>. Ma i suoi ideali
di moralità pubblica trovano piena espressione nell’opera Llamado
Relox (= Orologio illuminato) de
Principes o Libro aureo del emperador Marco Aurelio pubblicato a Valladolid
nel 1529. Si tratta di un manuale destinato alla formazione morale e politica
del principe, sulla cui condotta, come su un orologio, deve regolarsi quella
del popolo cristiano. Quasi una versione battezzata e con pretese più ampie del
principe del Machiavelli. Fingendo di tradurre da un manoscritto fiorentino,
attinge abbondantemente agli scrittori classici e soprattutto alla sua
esperienza di corte. L’imperatore Marco Aurelio, il filosofo, è preso a modello
di una elevata concezione morale, attraverso una romanzesca biografia e varie
sue epistole immaginarie. Il Relox riscuote subito un enorme successo. Riedito
parecchie volte, tradotto in varie lingue compreso il latino, viene considerato
modello d’uno stile letterario in Spagna, in Inghilterra, in Francia e altrove.
Molti poi dimenticano presto che non si
trattava affatto di un’opera storica. La prima traduzione italiana si deve ad
un certo Mambrino Roseo da Fabriano, che la pubblica nel 1548. Seguiranno
parecchie ristampe. Ed ecco quello che racconta sul Castellaccio, secondo l’esposizione
che ne fa Gaetano Millunzi: < Due anni prima che Marco Aurelio fosse stato
promosso all’Impero, nella città di Palermo, allora chiamata Bellina, i
Belinesi festeggiavano una vittoria riportata sopra i Numidi con la conquista
di dieci navi e con la devastazione di altre trentadue. Mentre fra i corsali si
voleva dividere la preda, i Governatori della città ordinarono che le navi e le
ricchezze rapite ai nemici rimanessero sequestrate sino alla fine della guerra.
Una sera, quando i cittadini attendevano
alla cena, comparve in Palermo un mostro o gran diavolo. Era esso alto tre
cubiti, con un solo occhio in fronte, aveva calva la testa, corna ritorte,
faccia d’uomo, due buchi invece di orecchie, mani e piedi di cavallo, schiena
di pesce con squame lucenti, petto folto di peli. Assiso sopra un carro tirato
da due leoni, seguito da due orsi, si vedeva dal cinto in su, perché il suo
sgabello era dentro una grande caldaia. Passeggiò lentamente per le vie della
città schizzando faville di fuoco, e il terrore fu tale che si videro i
cittadini fuggire chi al tempio di Giove, chi al tempio di Marte o della Dea
Febbre. Il Mostro finalmente si avvicinò al palazzo del Governatore chiamato
Solino, ove erano alloggiati i corsali ed ove stavano rinchiuse le ricchezze
rapite ivi, troncato un orecchio ad uno dei leoni, col sangue di esso scrisse
sul muro del palazzo le lettere seguenti: < R A S V P I P P >. Nessuno
fra i Belinesi potè interpretare le lettere misteriose ad eccezione d’una
pitonessa di alta fama, che così le trascrisse <Reddite aliena si vultis
propria in pace possiedere>. Il mostro in quella notte si ritirò sopra un’alta
montagna presso Palermo chiamata Iamicia Gamiso ed ivi stette tre giorni a
vista della città: vibrava intanto spaventevoli fiamme e gli orsi e i leoni
ruggivano fieramente. Dopo apparve una nube oscura e in mezzo ai tuoni e alle
folgori scoppiò si violento terremoto che circa diecimila persone morirono in
mezzo alle rovine delle case e dei palazzi. Indi uscita una orribile fiamma dal
monte ove erasi ritirato il mostro, bruciò il palazzo dei corsali e le rapite
ricchezze!...>. L’Imperatore Aurelio consapevole di tale apparizione, in
memoria del caso ordinò che si fabbricasse un tempio a Giove sulla vetta del
monte Iamicia o Gamiso: esso però fu ridotto in castello dall’Imperatore
Alessandro Severo, quand’egli guerreggiò contro i Siciliani>.
Osserva giustamente lo stesso
Millunzi che <il Guevara con il suo racconto tetro e pauroso niente contribuì
alla conoscenza storica del nostro Castellaccio, ma molto sicuramente ha
influito perché esso entrasse o si riaffermasse nelle tradizioni leggendarie
del popolo>.
Ma non solo del popolo direi, ma
anche in quelle letterarie. In occasione dell’apertura del nono anno dell’Accademia
dei Geniali della città di Palermo, il 27 aprile1727, il dotto canonico
palermitano Antonio Mongitore (1663-1743) tiene un discorso dal titolo Il mostro di Palermo da monsignor Antonio di
Guevara, convinto favoloso dalla Ragione e da’ Scrittori . Animato da
spirito critico, egli esamina il racconto dello scrittore spagnolo
evidenziandone la falsità e le incongruenze. Quello del Mongitore è un discorso
accademico, dove più che disgusto per la favolosa invenzione dello scrittore
spagnolo si ravvisa l’ingenuità e l’entusiasmo di chi, uscito da una cultura
che aveva posto a base l’ipse dixit
vuole ormai usare il metodo della ragione. Infatti, dopo aver demolito ad uno
ad uno i particolari del fantasioso racconto, il Mongitore, giustamente, mette
in risalto il vero significato della favola, che va letta nel contesto dell’opera
che <seminata con sentimenti morali e politici, si argomenta che fosse stata
composta per istruire di principi, affine di ben regolare a misura di prudenza
le loro azioni: perlochè le diede il titolo di Orologio dei Principi>.
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