MONREALE
NELLA CULTURA SICILIANA DEL
‘700
a cura di Giuseppe Schirò
Una tradizione culturale siciliana si
era sempre mantenuta anche durante il dominio spagnolo. Le lettere, la
storiografia, gli studi giuridici avevano avuto sempre dei validi cultori. Ma
mentre in Italia e in Europa nuovi movimenti e nuove correnti erano cominciati
a diffondersi nel campo letterario, filosofico e scientifico, la cultura
siciliana era rimasta abbarbicata alle sue tradizioni: gli studi di storia e di
diritto, che erano i più fiorenti, non raggiungevano grandi altezze,
limitandosi alla ricerca erudita delle fonti e alla difesa documentata dei
privilegi. La vita sociale era ancora imperniata sul sistema feudale e ciò si
rifletteva anche nel campo della cultura che, per questo, non ampliava i suoi
orizzonti e tendeva a difendere le vecchie posizioni sociali. Erano molto
diffuse le accademie, adunanza di dotti in casa di mecenati, allo scopo di
promuovere gli studi in discussioni comuni, secondo l’indirizzo che ogni
accademia si dava. Dopo i primi difficili decenni del ‘700, turbati dai
cambiamenti di governo e dalle incertezze politiche, il governo borbonico si
consolida. L’impulso rinnovatore che ogni nuovo governo, appena arrivato, si
sforzava di imprimere alla vita siciliana, può finalmente trovare successo e
far uscire la Sicilia dal lungo letargo e dall’isolamento in cui da un secolo e
mezzo si trovava immersa. Il risveglio della cultura siciliana comincia a
notarsi verso la metà del secolo. Le nuove condizioni politiche consentono di
intensificare i rapporti con la cultura italiana ed europea. Le accademie
allacciano rapporti tra di loro e con quelle che si trovavano in Italia; dotti
siciliani fanno parte di varie accademie italiane e straniere e viceversa.
Intense sono anche le corrispondenze culturali tra i più colti siciliani ed
eruditi e scienziati italiani, francesi, inglesi e tedeschi. Giovani siciliani
vanno a perfezionare i loro studi all’estero, specie in Inghilterra. La regia
accademia di Palermo inviava i suoi migliori professori a perfezionarsi nei
centri più progrediti d’Italia, di Francia e d’Inghilterra. Questo soffio di
risveglio porta con sé nuove idee. Si diffonde la cultura francese, penetra
l’illuminismo e circolano le opere d’arte di Locke, di Hume, di Hobbes. La
nuova situazione è notata anche da italiani e stranieri. Tuttavia manca una
profonda comprensione ed assimilazione dello spirito dell’illuminismo, che
avrebbe potuto portare una trasformazione o forse un capovolgimento delle
vecchie istituzioni feudali, su cui si basava la vita siciliana.
Dopo il Venero, per un complesso di
circostanze caratteristiche di Monreale, gli studi nel seminario si sviluppano
come non mai. Le nuove idee vengono recepite con entusiasmo; si forma un gruppo
di uomini volenterosi e colti che preparano l’epoca d’oro del Testa. Ricordo
Emauele Cangiamila, autore di un’opera scientifica che raggiunge grande
celebrità ed è tradotta in varie lingue, l’<Embriologia sacra>; Giogio
Guzzetta (1682-1756) di Piana degli Albanesi, che svolge un’intensa attività,
sia in favore della sua città natale, dove fonda l’oratorio dei filippini di
rito greco e il collegio di Maria, sia in favore della popolazione di rito
greco in Sicilia. Nel 1734, fonda a Palermo un seminario per i chierici di rito
greco. In tutta la Sicilia era ammirato per le sue virtù e la sua dottrina.
Vescovi insigni che ebbero una fama pari a quella che saprà conquistarsi il
Testa a Monreale, come il Valguarnera a Cefalù e il Gioeni ad Agrigento,
ricorrevano ai suoi consigli per riformare i loro seminari e ridestare la vita
religiosa e gli studi nella loro diocesi. Ancora Alberto Greco Carlino
(1697-1763), monrealese, amico del Guzzetta e suo collaboratore, si dedica in
particolare alla fondazione dei collegi
di Maria. Quello che istituisce a
Monreale è come la centrale da cui tanti altri si diffondono, a Cefalù, ad
Agrigento, in tutta la Sicilia. Antonino Diliberto, monrealese, insigne cultore
della poesia religiosa dialettale, pubblica le sue poesie sotto il nome
anagrammatico di Binirittu Anneleru.
Nel 1754, all’età di 50 anni,
l’arcivescovo Francesco Testa, fa il suo solenne ingresso in Monreale.
Era
canonico della cattedrale di Palermo e si era distinto con una pubblicazione
sui capitoli del regno di Sicilia. Era un uomo di punta per i suoi tempi, un
organizzatore ed un suscitatore di energie nuove. Subito egli si occupa degli
studi nel seminario. Come rettore egli chiama Vincenzo Pupella, uomo di grande
valore e che sa comprendere in pieno le grandi idee del Testa. Sotto la sua
guida, il seminario diviene angusto per contenere il numero degli alunni che
affluisce. Il Testa provvede col far costruire due altri grandi dormitori, uno
sulla cappella e l’altro sulla biblioteca. Ma poiché anche questo spazio è
insufficiente, il Testa, adibendo lo stesso palazzo arcivescovile e l’area
soprastante, fonda due altri istituti: l’episcopio accoglie giovani di
qualsiasi condizione che si avviavano al sacerdozio, il convitto ospita giovani
di nobile famiglia, distinti in due camere: la camera degli ecclesiastici per
quelli che si avviavano al sacerdozio e la camera dei nobili laici, come
convittori. Dei due istituti era rettore il Murena, scolopio piemontese. I
giovani dell’episcopio e del convitto dei nobili non frequentavano le scuole
dei gesuiti, come i seminaristi, ma avevano scuole proprie, nel palazzo arcivescovile.
Il Testa si circonda di dotti monrealesi, come Giuseppe Pappalardo, teologo,
Gaetano Romano, giurista, Giovanni Pampalone erudito e conoscitore di varie
lingue<studio raro in quei tempi>. Ne chiama anche da fuori come Saverio
Romano di Palermo, discepolo di Nicolò Cento, per insegnare Geometria e lingua
greca. Il Romano era anche un buon medico. Pure da Palermo è chiamato per
insegnare diritto naturale, canonico e civile il celebre Vincenzo Fleres,
anch’egli seguace del Cento. Tra le scuole arcivescovili e quelle dei gesuiti
si accende una vera e propria gara. Questa situazione si mantiene senza
equilibri per oltre un decennio. Gli studi in Monreale erano cosi fiorenti che
il seminario, secondo l’affermazione dello Scinà., diviene la scuola non solo
della diocesi ma di tutta la Sicilia. Per lo sviluppo assunto dalla filosofia e
dalle lettere, Monreale è detta la cittadella della metafisica, la rocca
inespugnabile della latinità e l’<Atene> della Sicilia.
Tali affermazioni sono state
confortate da più recenti e approfonditi studi. Giulio Natali nella Storia Letteraria
d’Italia, non esita ad affermare che il seminario di Monreale <era allora il
principale centro di cultura della
Sicilia>. L’equilibrio è turbato nel 1767 quando i Gesuiti sono espulsi dalla
Sicilia e devono lasciare anche Monreale. Ma il Testa corre subito ai ripari.
Gli alunni del seminario e i giovani monralesi sono fatti affluire nelle scuole
arcivescovili. Tra gli insegnanti: Vincenzo Miceli il filosofo, per il diritto
naturale, civile e canonico; Ciro Terzo, per la teologia dommatica; Pietro
Sardisco, per la teologia morale; Nicolò Lipari, per l’umanità; il Murena per
la retorica e l’eloquenza latina; Saverio Romano per la geometria e greco;
Secondo Sinesio per l’eloquenza e la poesia italiana. Il Testa era sempre a
capo, come animatore di questo movimento di studi, non lesinando i mezzi e
dando volentieri ospitalità agli insegnamenti nel suo palazzo, trasformato in
un vero cenacolo di dotti e di sapienti. L’impulso dato dal Testa agli studi
era un fenomeno che rientrava nella più vasta corrente di rinnovamento generale
della cultura siciliana. Patrimonio comune dei dotti che lo circondavano era
una profonda formazione umanistica, la quale veniva inculcata a tutti gli alunni. Ma, salva questa base,
possiamo distinguere due indirizzi, quello letterario e quello filosofico.
Caposcuola dell’indirizzo letterario
era il Murena. Questi, nel suo insegnamento <non perdea tempo con discorsi
teorici e con ispiegare a lungo i precetti retorici e con speculazioni
astratte…inutili per la gioventù… Ma dati pochi e brevi precetti, che alle
volte faceva scrivere, alcune volte leggere in qualche libro, si applicava a
fare intendere ai giovani profondamente gli autori classici. Mentre facea
spiegare un autore, tanto parlava, tanto rifletteva, ad ogni passo, tanto s’infocava
e s’accendea dello spirito dell’autore
medesimo, che i discepoli ne vedevano tutte le bellezze e s’accendeano
anch’essi del medesimo spirito e si abituavano facilmente ad imitare i classici
ed a scrivere in prosa e in versi con proprietà e buon gusto>; <… i
ragazzi di tenera età spiegano francamente il Cornelio, il Cesare, il Tibullo e
le cose più facili di Cicerone, di Catullo e di Virgilio>; non solo
capiscono, ma imitano i classici latini ed italiani, scrivendo lettere, prose,
e poesie… con proprietà di espressioni, e con principi di buon gusto>. Cosi
a Monreale si formano eccellenti latinisti, perfetti imitatori del migliore
stile classico cui potrebbe forse rimproverarsi la mancanza di originalità, ma
non la padronanza dello lingua e dello stile.
E’ utile premettere che il ‘700
intende la filosofia con un significato alquanto diverso da quello che oggi lo
si dà. La speculazione e lo studio delle scienze erano un’unica cosa, come i
presocratici. Filosofo era chi aveva la conoscenza più vasta di molte materie o
di tutto lo scibile di allora, della dialettica, della metafisica, della
fisica, matematica, storia naturale, scienza politica ed astronomica. In
seguito al decadere della scolastica si erano diffuse le idee cartesiane,
leibniziane e l’empirismo del Locke. I centri culturali in Italia erano Milano
e Napoli. Qui era il primo ministro Bernardo Tanucci, colto ed intelligente
mecenate, in amichevoli rapporti col Testa per una certa affinità di idee. La
corrente empirica scivola nel sensismo soprattutto ad opera del Condillac che
dimora a lungo in Italia. Contro il sensismo ed il conseguente materialismo
insorge Vincenzo Miceli.
Questo giovane professore di filosofia aveva un aspetto
di asceta, buono e dolce. Nato il 23 novembre 1734, aveva un ingegno robusto,
ma una salute debole. Era uno di quegli uomini che il Testa aveva scoperto. Il
Miceli, da sincero credente , sente profondamente l’insoddisfazione per i
sistemi filosofici allora in voga: lo scetticismo da un lato e il razionalismo
dall’altro gli appaiono come due gravi minacce per la religione che egli vuole
difendere. Gli scolastici d’altronde, assorbiti da mille quisquilie, sembrano
aver dimenticato la loro funzione. Era necessario procedere ad una nuova
sistemazione delle scienze speculative, per conciliare tra loro filosofia e
teologia – questione allora assai scottante – per la difesa della religione
minacciata dalle sue fondamenta.
Il Miceli ritiene che il filosofo
cristiano deve trattare insieme verità naturali e soprannaturali, deve saper
adoperare le stesse armi che gli avversari della religione adoperano per
distruggerla. Ed ecco che, appena venticinquenne, egli è già all’opera: <Io
ho dunque nell’animo di produrre un semplice ed universale sistema di tutte le
scienze non solo di quelle che alla natura si appartengono, ma di quelle altre
ancora che sono nel mondo soprannaturale>. Perciò egli cercherà di trarre la
quintessenza degli altri sistemi filosofici per costruire il suo sistema. Come
il Cartesio aveva posto il <cogito ergo sum> come principio estremo di
certezza, così il Miceli fonda ogni sua argomentazione sul <principio di
contraddizione>. La prima applicazione di questo principio avviene intorno
all’Essere. Il Miceli ha dell’Essere un concetto <positivo> o, direi,
<intensivo>, tale cioè che include l’esistere, altrimenti si avrebbe
l’assurdo di un Essere che non è. Il passaggio tra ordine logico e ordine reale
è superato con l’idea della <dinamicità> o della <progressione>,
come diranno i suoi seguaci: l’essere tende necessariamente a realizzarsi. Credo che il Miceli non abbia potuto definire
compiutamente il suo sistema, per la sua morte relativamente prematura a 47
anni. Né d’altronde le sue opere sono ancora tutte pubblicate.
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